Mese: dicembre 2019

Perché il 2020 non sia solo un altro anno!

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L’anno nuovo é una tra le invenzioni più felici dell’uomo: un espediente geniale per dividere il tempo, per illudersi che il tempo – come l’uomo – abbia un inizio e una fine, Che si basi sulla religione o sull’astronomia, sulle fasi della luna o sul moto della terra intorno al sole, ogni calendario ha un giorno di passaggio, una data in cui un anno finisce il suo corso e un nuovo anno gli subentra.

Non si tratta solo di un termine convenzionale, ma di una ricorrenza dal forte valore simbolico: é il momento dei bilanci e dei buoni propositi, l’occasione per scrollarsi di dosso il passato e spalancare le porte al futuro. Per questo, ogni volta, il passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo anno é scandito da riti e celebrazioni, accompagnato da attese frementi ed esplosioni di gioia incredibile, salutato da discorsi pubblici e solenni messaggi augurali.

Ogni anno, dai saloni lussuosi o scintillanti palcoscenici televisivi, politici e governanti, magnati e capitani d’industria parlano di pace e di benessere, di giustizia e di sicurezza, sbandierano nobili intenzioni e lanciano proclami altisonanti, col tono accorato e la faccia seria di chi sta assumendo un impegno. Poi all’atto pratico, la musica cambia… rubando le parole a una vecchia canzone, gli stessi appassionati oratori del 31 dicembre si convincono che, in fondo, “l’anno che sta arrivando tra un anno passerà”.

Alla fine l’anno nuovo diventa un guado da passare indenni, un tunnel da attraversare in fretta, col minimo incomodo e il massimo della soddisfazione… per ritrovarsi un anno dopo, a ripetere le stesse parole, recitare gli stessi “mea culpa”, vagheggiare le solite utopie.

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Se davvero, a mezzanotte del 31 dicembre, si potesse voltare pagina e inaugurare un “nuovo corso”, forse varrebbe la pena cominciare da qui… riscoprendo il senso e il gusto della vita, recuperando nel marasma di una società allo sbando un po’ di affetto, di meraviglia, di sensibilità, e poi dal fondo di una coscienza nuova, curare i malanni dell’umanità, correggere le ingiustizie, portare in dono la dignità e il rispetto a tutta una parte del mondo che ancora li chiede, e per l’altra parte – quella dell’opulenza e dello spreco – fissare le regole di una libertà sfrenata. Di certo non é compito che si possa esaurire in un anno, ma ogni anno é buono per fare il primo passo.

E con questi pensieri vi auguro un 2020 consapevole, affascinante che scenda nei meandri dell’anima, una sfida per tutte/i, senza distinzioni di razza, colore, religioni e condizioni economiche/sociali.

Auguri e a presto!

paola

 

 

Susan Sontag e i suoi temi scomodi!

 

 

 

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Susan Sontag (1933 – 2004) è stata una intellettuale e scrittrice statunitense.
Nata a New York nel 1933, a cinque anni perse il padre e, quando la madre malata di alcolismo si risposò, venne adottata dal patrigno, Nathan Sontag, da cui prese il cognome.
Ebbe un’infanzia costellata da incertezza e sofferenza. Ragazza intellettualmente vispa, si diplomò anzitempo a quindici anni e si laureò in Filosofia alla Berkeley University a diciotto.
 

Appena diciassettenne, si sposò con il suo professore di sociologia, Philip Rieff, da cui, ad appena diciannove anni, ebbe il figlio David Rieff. Rimase legata al marito fino al 1958, quando divorziò da lui tornando a vivere a New York con il piccolo David. Sontag terminò successivamente i suoi studi ad Harvard, specializzandosi in letteratura inglese, e, nel corso degli anni Cinquanta, frequentò anche le università di Oxford e di Parigi.

Nel corso degli anni Cinquanta l’autrice prese coscienza della propria omosessualità e sull’argomento sviluppò diverse riflessioni, ad esempio: “Il mio desiderio di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno di quell’identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe, lo sento, una certa licenza. Solo adesso mi sto rendendo conto di quanto mi sento in colpa d’essere omosessuale. […] Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile”.

Diverse riflessioni di Susan Sontag sono rimaste sconosciute al pubblico fino a quando il figlio David Rieff, inviato di guerra e scrittore come la madre, non le raccolse in due volumi che fece pubblicare dopo la sua morte. Purtroppo i volumi dei diari di Susan Sontag non sono ancora mai stati tradotti interamente in italiano, anche se alcuni loro estratti sono stati pubblicati su giornali e riviste.

La produzione letteraria e saggistica di Sontag è sterminata, tenendo conto anche delle sue collaborazioni per riviste come il New Yorker e il Partisan Review.

Docente in diverse università statunitensi, scrisse instancabilmente sugli argomenti più vari: dal cinema alla fotografia, dalla letteratura alla condizione femminile (in particolare su questo argomento pubblicò “Odio sentirmi una vittima: intervista su amore, dolore e scrittura” , che rappresenta una pietra miliare nel suo genere), dalla politica, alla guerra, al concetto del dolore e della malattia nella nostra società.

Per quanto riguarda quest’ultimo tema, il pensiero dell’autrice si sviluppò a metà degli anni Settanta dopo che le fu diagnosticato un cancro: in “Malattia come metafora: aids e cancro“, pubblicato per la prima volta nel 1988, dopo essere stata dichiarata guarita, Susan Sontag non desiderava raccontare la sua esperienza, né portare conforto attraverso il proprio racconto autobiografico ad altri malati o ex-malati come lei; nel suo saggio la scrittrice analizza il tema della malattia in funzione dei significati sociali che l’accompagnano.

Secondo Sontag, la malattia dovrebbe essere epurata di ogni pregiudizio e di ogni metafora legata a un immaginario di colpevolezza, impotenza, ineluttabilità, che inutilmente aggiungono dolore al dolore nella vita quotidiana dei malati.

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Buon Natale…

 

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“Non importa cosa trovi sotto l’albero, ma chi trovi intorno”.
(Stephen Littleword)

Ed io ho trovato persone bellissime!
Grazie a tutte/i voi

paola

Cinema: “Via col vento” e la sua eroina “femminista”.

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Il 15 dicembre del 1939, 80 anni orsono, debuttava nei cinema americani il colossal rimasto imbattuto negli incassi di tutti i tempi, quel Gone with the wind che nell’edizione italiana non ha perso nulla del suo fascino.
Via col vento è uno di quei filmoni che non si possono perdere, un evento, un capolavoro costruito con maestranze e cast perfetti.  Nessuno dei grandi colossal – si pensi a Ben-Hur, I Dieci comandamenti, e più recenti Avatar o Titanic – è riuscito a eguagliare la portata di coinvolgimento del pubblico che da sempre vanta questo film.
Se molti storcono il naso etichettandolo come un film a carattere romantico, che devia al rosa, trascurano il vero nucleo di questa lunga narrazione: la sua protagonista. Se spostiamo il focus su Scarlett O’Hara, per noi Rossella, il nostro metro di giudizio deve calibrarsi sull’aspetto del femminismo ante litteram di questa indomita ragazza del sud.
Rossella non si rende simpatica proprio a tutti. Ha carisma, un certo potere seduttivo, dialettica, riesce anche a manipolare innocenti giovanotti travolti dal suo fascino.
Ecco, qui c’è da fare una precisazione.
Margaret Mitchell, autrice dell’unico romanzo scritto in vita sua, non delinea i tratti di una protagonista dotata di bellezza, anzi. Il suo incipit, infatti, recita così:

Rossella O’Hara non era una bellezza, ma raramente gli uomini se ne accorgevano quando, come i gemelli Tarleton, subivano il suo fascino. Nel suo volto si fondevano in modo troppo evidente i lineamenti delicati della madre – un’aristocratica della Costa, oriunda francese – con quelli rudi del padre, un florido irlandese. Ma era un viso che, col suo mento aguzzo e le mascelle quadrate, non passava inosservato. 

Quando si tenne il casting del film, furono passate al vaglio più di 1400 attrici che potessero rispondere a questa descrizione, fino a quando la produzione si rivolse alle maggiori interpreti dell’epoca, e rimasero in lizza Paulette Goddard e Vivien Leigh. Sappiamo chi la spuntò.
Chi scrisse la storia di Rossella?
Curiosa la storia di questa autrice, che pare abbia avuto l’idea di scrivere un romanzo ambientato negli anni della Guerra di Secessione mentre era costretta a stare immobilizzata per una brutta caduta.
Margaret Mitchell scrisse questo solo romanzo, che curò per una decina d’anni, un best seller da 180.000 copie vendute solo nel primo mese dalla pubblicazione.
Ecco, i denigratori del filmone sappiano che la vera storia di Rossella è lì dentro, in questo mirabile romanzo di quasi 1000 pagine, per il quale l’autrice vinse il Premio Pulitzer e fu candidata al Nobel per la Letteratura.
Ciò che ci viene raccontato nel film è una riduzione, fatta di tanti tagli e soprattutto di alcune modifiche significative alla trama.
Chi ha letto il romanzo sa.
Margaret e la sua protagonista sono molto affini. L’autrice sceglie di descrivere una realtà che ben conosce, quella del sud degli Stati Uniti, tuttora coacervo di territori in cui imperversa il più convinto imperialismo, un certo acuto maschilismo – sono i maggiori elettori di Trump – e arretratezza.  La Mitchell si fece strada a fatica in quella realtà, fino a diventare una giornalista stimata. 
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Margaret Mitchell (1900 – 1949)
Voleva raccontare le contraddizioni di una realtà troppo ambiziosa e orgogliosa, fomentatrice di  una guerra piena di errori e orrori,  ma attraverso una giovane donna che si ritrova suo malgrado a guadagnarsi la sopravvivenza, che cerca dentro di sé quelle risorse necessarie per reagire.
Rossella non è una “brava ragazza”, anzi. Il suo egoismo e narcisismo la portano a esigere considerazione, non sopporta le persone prive di carattere, non tollera che una  qualunque distolga l’attenzione di Ashley da lei, è disposta a mentire, rubare e uccidere, come lei stessa afferma per sfangarla dinanzi alla tragedia umana che è la guerra.
Eppure, Rossella possiede anche altro. A ben guardare, è intelligente e ha spirito di iniziativa, salva la vita alla sua rivale e al suo bambino, sa commuoversi dinanzi alla sofferenza del migliore dei servi della sua casa, e possiede il senso delle sue radici.
Possiamo ritenerla in certo senso una “femminista ante litteram”, una “donna alfa”, perché no? Rapportando il suo agire all’epoca, potrebbe incarnare questo ideale.
Scendea patti con le convenzioni dell’epoca, ma riesce a governare gli eventi, portando a termine l’obiettivo della salvezza propria e altrui.  Usa il matrimonio a proprio favore, punta a una posizione sociale elevata, riesce a risollevare le sorti della propria famiglia, pur ricevendone il disprezzo delle sorelle.
 
Poi, pero, c’è lo scotto: non riesce a trionfare su tutti i fronti, sul finale è sconfitta perché viene travolta dalle conseguenze di quelle scelte sbagliate, perde l’amore del solo uomo che l’ha capita perfettamente fin dall’inizio – come ha fatto da sempre Mamie.
Rhett, che l’ha compresa e sostenuta, se ne va perché Rossella è di fatto imperdonabile.
Sia dinanzi alle ultime pagine del romanzo che assistendo all’ultima sequenza del film, chi ama questa storia viene colto da quella malinconia tipica. Manca il lieto fine, com’è possibile? 
Come tutte le buone storie, questa non poteva concludersi con un prevedibile “e vissero felici e contenti”: il nucleo della narrazione non è l’amore coronato. Rossella ha lottato strenuamente, seguendo il proprio istinto, commettendo molti errori, lasciandosi dietro le macerie di ogni conseguenza.
È destinata a restare sola, con una prerogativa, quella di ricostruire Tara, la residenza degli O’Hara in cui ancora affondano le proprie radici. È il suo successivo obiettivo e non dubitiamo che Rossella lo porti a termine.
Rossella è un archetipo, il principio di ogni determinazione, l’eroina imperfetta e pertanto umana.  Bisognerebbe leggerne la storia per capirne tutte le angolazioni.
Non resta che lasciarvi alla scena più famosa di un film che ha vinto 10 Oscar e ancora oggi emana un certo fascino. Dopotutto, domani è un altro giorno.
Mi piacerebbe sapere se fra voi c’è qualche estimatore di questa epopea e se qualcuno ha letto il romanzo.  Parola anche ai detrattori, cosa non piace di questa storia? 
Fonte: Luana Petrucci, drammaturga, regia, attrice presso Il teatro di Rumori in Scena

Francesca Morvillo, la prima e unica magistrata uccisa dalla mafia

Non è facile parlare di Francesca Morvillo, da sempre descritta dai media come “la moglie di” Giovanni Falcone, la donna sulla cui esistenza c’è sempre stato un grande riserbo, anche da parte del magistrato antimafia, probabilmente come forma di protezione nei confronti della persona amata. Oggi però voglio farlo, soffermandomi sulla storia di una donna […]

via Francesca Morvillo, la prima e unica magistrata uccisa dalla mafia —

Claudia Quinta: l’onestà che sconfisse la calunnia

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Neroccio di Bartolomeo de’ Landi – Claudia Quinta (circa 1495) – Washington, National Gallery of Art.

Iscrizione sul basamento

“Claudia casta fui nec vulgus credidit amen
Et tamen id quod eram testis mihi prora probavit
Consilium et virtus superant materque deorum
Alma placet populo et per me hunc orata tuerunt”.

(Io, Claudia, fui casta, ma il popolo stolto non vi credette
tuttavia la nave mi fu testimone e comprovò il mio valore.
Saggezza e virtù prevalgono e l’alma madre degli dei 
è gradita al popolo e tramite me, pregata, lo protegge.)

 

Claudia Quinta era una donna virtuosa e di bell’aspetto, la cui reputazione era ingiustamente attaccata per il suo abbigliamento e il suo portamento: tra le altre cose la donna era anche falsamente accusata di essere una pettegola.

La sua virtù fu riscattata da un evento miracoloso accaduto nel 204 a.C., durante il trasporto del simulacro della dea Cibele da Pessinunte (in Anatolia) a Roma: quando la nave su cui viaggiava la statua della dea si incagliò nell’alveo del Tevere, la donna riuscì con le sue sole forze a disincagliarla, grazie all’aiuto della dea, che così fornì al popolo un segno della sua purezza.

Ovidio, Fasti 291-328

“Toccò Ostia, dove il Tevere sfocia nel mare e scorre su una superficie più vasta. Alla foce del fiume etrusco convennero tutti i cavalieri, l’austero senato, la plebe. Con loro pure le madri, le figlie, le nuore, e le vergini che alimentano il fuoco sacro. Gli uomini alarono fino ad esaurirsi, ma la nave straniera risalì appena per le acque. Poiché da tempo la terra era secca e le piante riarse, così la nave s’incagliò nel fondale fangoso. Coloro all’opera si attivano più del dovuto, con grida di supporto. Ma la nave resta come un’isola in mezzo al mare; un prodigio che blocca e atterrisce i coinvolti”.

Ma chi era Claudia Quinta?

Claudia Quinta (discendente dell’antico Clauso, di bellezza pari alla nobiltà) era casta, ma non creduta: un’ingiusta calunnia l’aveva colpita, ed era accusata di false colpe.

Offesa per come si vestiva, si acconciava, e rispondeva agli arcigni vecchi austeri. La sua retta coscienza rideva delle menzogne, ma noi siamo gente pronta a credere al peggio.

Così Claudia uscì dal gruppo delle matrone, e attinse con le mani la pura acqua del fiume, ne bagnò tre volte la testa e tre volte alzò al cielo le mani (gli astanti la indicavano come impazzita).

Si mise in ginocchio, mirò la statua della dea e, coi capelli sciolti, disse: “Feconda madre degli dei, accogli le preghiere della tua supplice a un patto, negano che sia casta.

Condannami te e confesserò checché. Meriterò la pena di morte inflitta dal giudizio divino. Ma se non c’è colpa, offrine testimonianza: la tua castità obbedirà a mani caste”.

Detto ciò, compì l’alaggio senza sforzo. Ciò è prodigioso, ma attestato in scena. La dea si mosse, seguì la sua guida e, seguendola, la scagionò: e così salì al cielo un suono di gioia”.

Fonte: Roberto Inserra, appassionato di Arte.

 

Strettamente confidenziale… le donne sono le peggiori nemiche delle donne.

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Ogni volta che una donna lancia un insulto nei confronti di un’altra donna viene fuori qualche detto stereotipato che di fatto non fa bene al genere. Le donne sono persone e in quanto tali non possono essere sopravvalutate, ma neppure accomunate solo e semplicemente per via della biologia.

Chi insiste nell’affermare che le donne sono naturalmente solidali, empatiche, caritatevoli, dedite alla propria cura, sbaglia e sbaglia di grosso. Se fossero coscienti di quel che realmente sono forse le donne non si sorprenderebbero più di tanto di quello che si  legge e si vede ogni giorno. L’insulto di una donna, sia pure meno “pesante” di quello che di solito lancia un uomo,  appare sempre più grave e volgare.

Da un uomo, quindi, ci si aspetta il peggio; da una donna, femminile, leggiadra e angelica, invece, certi insulti non sono tollerati. Continuare, però,  a insistere sull’idea per la quale le donne sono il meglio della società, è deleterio per l’intero genere.

Le donne sono semplicemente umane e quindi anch’esse portatrici di valori e idee a volte pessime e non condivisibili. Le donne diventano veicoli di cultura maschilista tanto quanto gli uomini, per esempio. Se possono limitarsi a dire stronza, sono molto spesso più propense  a chiamerla puttana. Se non sono d’accordo con l’altra, la insulteranno e minacceranno usando termini sessisti. Se per caso si sentono tradite  nel loro verbo indicheranno la presunta colpevole alla folla come la donna da linciare.

L’odio è fatto di questo e non c’è biologia che tenga e che possa rendere il genere femminile migliore. Avere coscienza di questo aiuta le donne non solo ad accettare il fatto di non essere statue da mettere su un piedistallo, ma aiuta a fare in modo di assumersi le proprie responsabilità e anche a migliorare.

Quello che succede è che le donne sono parte in causa di dinamiche di oppressione maschilista. Loro stesse pensano di emanciparsi dalla condizione di oppresse dando ragione all’oppressore. Ma questo non le assolve. Né deve deludere il fatto che le donne a volte siano così perfide. Ci sono donne che lo sono perché pensano di agire per conto di un non meglio definibile Bene. Se pensano di star conducendo una crociata in difesa di qualcosa o di qualcuno non le fermi neppure per un attimo. Non si chiedono nemmeno perché stanno usando lo stesso linguaggio e le stesse pratiche oppressive di chi agisce autoritariamente anche sulla loro testa.

Le donne che adorano il ministro Salvini, per esempio, non sanno quanto quel ministro di fatto attenti alla loro autonomia personale e quanto sia offensivo per le idee che impone. Ma queste donne possono permettersi il lusso di stare dalla parte di un ministro sessista perché ieri altre donne hanno combattuto per dare loro la libertà di scegliere se fare un figlio oppure no, se assumere contraccettivi, se abortire, se sposarsi o realizzarsi in altro modo, se vivere la propria sessualità etero o lesbica, se lavorare o meno.

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Senza le lotte di altre donne queste conquiste non sarebbero date per scontate e il fatto che le donne che di queste migliorie hanno goduto e godono stiano dalla parte di chi vorrebbe cancellare i loro diritti indica solo una cosa: che sono d’accordo con lui. La pensano allo stesso modo. Sono strumenti, veicoli consapevoli e come tali vanno trattate.

Le donne non sono le peggiori nemiche delle donne, ma possono esserlo come lo sono molti uomini. Le ritroviamo a giudicare le altre in pieno delirio moralista. Vorrebbero controllarle, si nutrono di pettegolezzi e godono nel dare addosso all’altra che si comporta in modo diverso. Indicano la strega da mettere al rogo e lo fanno con orgoglio. Pensare che le donne siano migliori in quanto donne è sessista. E lo è soprattutto quando a dire che le donne dovrebbero stare tutte unite sono quelle che invocano l’unione al solo scopo di annullare e controllare le differenze che intercorrono tra di loro.

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Rosa Parks e la ribellione alla segregazione razziale… era il primo dicembre 1955!

cq5dam.web.738.462Rosa Parks nel 1956 (Getty Images)

Era il primo dicembre 1955

 

Era il primo dicembre del 1955 e, dopo il suo gesto, il Paese non sarebbe più stato la stesso.

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Dai primi anni ’40, Rosa Parks si avvicina al movimento anti segregazione.

Ne ha 42 di anni quando, al termine di una normale giornata di lavoro, sale su un autobus per fare ritorno a casa. A Montgomery, in Alabama, la segregazione è dura da scalfire.

I posti sono divisi in base al colore della pelle. Non essendoci sedili liberi nel settore riservato ai neri, Rosa Parks si siede in una delle file “comuni”, dove però i bianchi hanno – per una legge cittadina – la priorità.

Dopo poche fermate, sale sul bus un passeggero bianco. L’autista chiede alla donna di cedere quel posto. Lei si rifiuta. Niente proteste violente e urla. Rosa Parks dice semplicemente “no” e resta al suo posto.

Il conducente decide allora di fermare la corsa e di chiamare due agenti, che salgono a bordo e la arrestano.

Pochi mesi prima, sempre a Montgomery, una studentessa sedicenne, Claudette Colvin, era stata protagonista di un episodio molto simile. Senza però avere le stesse ripercussioni. Questa volta, invece, l’arresto di una donna nera che si era rifiutata di cedere il posto sull’autobus a un uomo bianco innesta reazioni nuove.

Il giorno stesso, nella città dell’Alabama si verificano i primi scontri. Alcuni leader del movimento, tra i quali Martin Luther King, si riuniscono per organizzare azioni di protesta.

Il risultato è il Montgomery Bus Boycott: i cittadini di colore si rifiutano di salire sui mezzi pubblici. Il boicottaggio dura più di un anno e s’interrompe solo con l’abrogazione della legge sulla segregazione.

Nel 1956, infatti, i casi di Rosa Parks e Claudette Colvin spingono i bus di Montgomery fino alla Corte Suprema, che giudica la segregazione incostituzionale e conferma la decisione dopo il ricorso dello Stato dell’Alabama e del comune di Montgomery.

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Diventata uno dei simboli dei diritti civili, Rosa Parks ha sempre ricevuto il tributo dei leader, a partire da Martin Luther King fino a quello del primo presidente afroamericano, Barack Obama.

È stata però presa di mira dai sostenitori della segregazione che l’hanno più volte minacciata di morte.

Dopo il suo rifiuto, Rosa Parks non riesce a trovare lavori stabili, tanto che all’inizio degli anni ’60 è costretta a trasferirsi a Detroit, dove trova un impiego, sempre come sarta.

Dal 1965 al 1988 è segretaria di John Conyers, membro del Congresso.

Solo nel 1999, durante la presidenza Clinton, ha ricevuto la Medaglia d’oro del Congresso, la maggiore onorificenza civile degli Stati Uniti.

Proprio a Detroit vivrà gli ultimi anni della sua vita, prima di morire, il 24 ottobre 2005, all’età di 92 anni.

“Credo che siamo qui sul pianeta Terra per vivere, crescere e fare il possibile per rendere questo mondo un posto migliore in cui tutte le persone possano godere della libertà”.  (Rosa Parks) 

“I believe we are here on the planet Earth to live, grow up and do what we can to make this world a better place for all people to enjoy freedom”.