Mese: febbraio 2024

Simone de Beauvoir e la sua lotta per l’uguaglianza delle donne.

Simone de Beauvoir a una manifestazione del MLF a Parigi.

Simone nasce all’inizio del rivoluzionario XX secolo, il 9 gennaio del 1908, nella Parigi della Belle Époque. A lei non interessa “un buon partito”: vuole decidere del proprio futuro, senza se e senza ma. Adora studiare (purtroppo, come direbbe papà Georges). Se fosse stata un maschio, sul suo amore per il sapere si sarebbe potuto investire. Ma che destino avrà una figlia bruttina e cervellona, visto che non c’è una gran dote ad allettare i pretendenti? E che pretende di fare la scrittrice, per di più. Mon Dieu!

Gli inizi non sono facili. Simone i libri non li legge, li divora. E sta sveglia di notte a scrivere. Studentessa dotatissima, si iscrive a filosofia alla Sorbona e nel 1929 ottiene l’idoneità all’insegnamento superiore riservata ai migliori allievi. Vuole guadagnare per mantenersi e rendersi indipendente, perché questa è la base di tutto. È innamorata di Jacques, suo cugino, ma quando lui parte per il servizio militare il loro amore sembra non superare la lontananza. Simone si strugge, si confida con la sua amica di sempre Elisabeth “Zaza” che eserciterà grande influenza nella vita e nelle pagine di Simone, con i suoi problemi col fidanzato Maurice e con la madre borghese, capace di piegare ogni passione della figlia ai presunti valori di una famiglia bigotta e dispotica. Zaza muore giovane di crepacuore e Simone si sente in colpa perché negli ultimi tempi l’ha trascurata per frequentare un uomo che ha conosciuto all’università. Si chiama Jean-Paul Sartre. Già.

Jean-Paul Sartre (1905 – 1980) e Simone de Beauvoir (1908 –1986) nell’appartamento di Sartre a Parigi in Rue Bonaparte, ca. 1964.

Quella di Simone e Jean-Paul è una storia lunga tutta una vita. Con Sartre, Simone condividerà, oltre al letto, il lavoro di scrittrice e l’impegno politico. Insieme frequenteranno i caffè della Rive Gauche, affollati da artisti e intellettuali, faranno viaggi importanti, vivranno relazioni aperte e appassionate, affronteranno la guerra e la separazione, per poi ritrovarsi e non lasciarsi mai più. Tra loro due c’è una complicità unica. Diventerà famoso il soprannome con cui lui la chiama affettuosamente: mon castor, il mio castoro. Era stato un amico ad affibbiarglielo: “Perché sei sempre operosa come un castoro, e castoro in inglese si dice beaver, che suona un po’ come il tuo cognome”.

L’amore con Jean-Paul non può essere certo convenzionale. Un rapporto che, per certi aspetti, scandalizza, ma attrae quella società che dopo la guerra avverte un gran bisogno di un cambiamento epocale. 

Con altri intellettuali Jean-Paul e Simone prendono posizioni nette, in politica e nel sociale. Difendono il movimento indipendentista algerino, svelando gli orrori del colonialismo. Dialogano con Che Guevara e Fidel Castro, appoggiando la resistenza cubana, ma condannano la repressione della rivoluzione ungherese da parte dell’Urss.

Si schierano contro la guerra in Vietnam e a favore della rivolta studentesca del Maggio francese, per l’aborto e contro l’ayatollah Khomeini, per esempio. Sartre sarà così famoso che la sua personalità rischierà di schiacciare quella di Simone, considerata a volte solo la sua compagna. Invece lei aveva ben presente da sempre che tipo di donna voleva diventare.

Greta Garbo e il suo fascino senza tempo.

La “Divina” uscì dalle scene ad appena 36 anni e visse per il resto della vita in una sorta di esilio mediatico autoimposto. Nessuna apparizione pubblica, nessuna intervista, nessuna foto posata, nessuna dichiarazione, nessuna partecipazione ad eventi, feste, premi. Niente di niente: la Divina Greta Garbo visse la sua seconda vita, fino alla morte, avvenuta a 85 anni, come una donna qualunque. Proprio lei, che non lo era mai stata.

Affascinante più di ogni altra star di Hollywood di quel periodo, con il suo accento nordico (era di origine svedese) e il corpo androgino, le spalle larghe, il volto dall’incarnato lunare, le sopracciglia sottili, Greta Garbo è stata l’attrice più amata del cinema muto degli anni Venti e di quello sonoro degli anni Trenta: candidata all’Oscar quattro volte, ne ha vinto uno alla carriera nel 1955 quando ormai era fuori dalle scene da una decina d’anni e neppure si presentò a ritirarlo. Se ancora oggi sappiamo riconoscere il suo profilo o le sue pose, se ancora oggi rimaniamo ammaliati dal suo sguardo magnetico, è perché Greta Garbo incarnava già all’epoca un ideale di bellezza fuori dagli schemi. Un genere “fluido”, diremmo oggi!

Greta Garbo in posa per il fotografo Edward Steichne (Conde Nast/via Getty Images)

Nasce come Greta Lovisa Gustafsso nel 1905 da una famiglia che viveva in un quartiere popolare di Stoccolma: papà netturbino e mamma di origine contadina. Greta è di una disarmante bellezza fin da piccola, ma anche di carattere malinconico e solitario. Però c’è il teatro che la attrae: coltiva da autodidatta la recitazione mentre fa mille lavori (deve tuttavia licenziarsi da commessa di un grande magazzino per eccesso di avance da parte dei clienti), posa da modella per varie pubblicità e comincia ad essere notata anche dai registi svedesi che contano. Sono gli anni della borsa di studio all’Accademia Regia di Stoccolma, dove si affina nella recitazione, quelli in cui conosce Mauritz Stiller, regista finlandese che le sarà a lungo pigmalione.

La Greta Garbo ventenne non è forse pienamente consapevole della sua presenza scenica, ma di certo ha il gusto per la stravaganza di classe: cambia il suo cognome in Garbo, che riecheggia quello di Bethlen Gàbor, un importante sovrano ungherese del Seicento, e comincia a vestirsi in modo insolito. Insolito per i canoni del tempo s’intende: pantaloni, camicia accompagnata da cravatta, giacche maschili. La sua sensualità è esplosiva, e non solo per gli uomini. A metà degli anni Venti, grazie a La vita senza gioia di Georg Pabst diventa famosa in Europa e si guadagna un buon contratto con la MGM.  La strada è spianata per diventare la “Divina“.

Greta Garbo ha sempre avuto uno stile androgino (Getty Images)

Da ‘divina’ Greta Garbo interpreta per un decennio, dal ’27 al 37, una ventina di ruoli per così dire sovrapponibili: è la Donna Fatale o La Tentatrice o comunque l’amante, la vamp provocante, la seduttrice senza scrupoli né morale. Le piace? No, affatto. Vorrebbe altro. Desidera fortemente ruoli diversi, diversificati, magari anche comici. Dovranno passare tante “fatali pellicole” – peraltro quelle che costruiranno il mito della Garbo  – prima che venga proposta come protagonista di un film sonoro. S’intitola Anna Christie e viene lanciato con lo slogan “Greta Garbo parla!” (Hollywood diffidava parecchio della sua cadenza mitteleuropea).

Dopo qualche anno, nel ’39, il regista Ernst Lubitsch compie un azzardo che si rivela azzeccato: in Ninotchka la Garbo “ride per la prima volta” e si rivela una brava e versatile attrice anche su questo fronte. Il pubblico e i critici sono però volubili, si sa: passano pochi anni e Non tradirmi con me viene accolto con freddezza. Greta Garbo ne soffre molto e forse la delusione, unita all’insofferenza sempre più marcata verso i fotografi che non le danno tregua, la spingono a compiere un taglio drastico. Stop al cinema, stop ai paparazzi, stop al set e al pazzo mondo di Hollywood. Greta Garbo ha solo 36 anni, ma non tornerà più sui suoi passi.

Fata severa (copyright Federico Fellini), Greta Garbo non ha mai amato l’attenzione morbosa del pubblico e della stampa scandalistica per la sua vita privata: riservatissima, austera e indipendente ha avuto tanti amori. Tra i più noti, quello con l’attore John Gilbert, oltre ad appassionate relazioni femminili (come quella con la poetessa Mercedes de Acosta, poi amante anche di Marlene Dietrich, l’Angelo Azzurro e rivale storica della Garbo sul grande schermo).

Rivoluzionaria la Garbo lo è stato per il modo in cui ha saputo portare nuovi canoni di bellezza sul grande schermo, per quel suo non curarsi delle convenzioni e per il granitico coraggio a rinunciare a privilegi e favori che la sua fama le avrebbe concesso ancora a lungo.

Greta Garbo muore anziana (1990), dopo aver vissuto la sua seconda vita in un lussuoso appartamento di New York che era diventato il suo personalissimo rifugio e dopo la morte attuò la sua ultima fuga disponendo per testamento di essere trasferita nell’isola natale, dove riposa, lontanissima da un mondo al quale sentì forse di non appartenere mai.

Le mie interviste al femminile… oggi sono con Grazia Livi.

Grazia Livi devo raggiungerla a Milano: mi comunica che ha lasciato Firenze da qualche anno e ormai si è stabilita in Lombardia. Poco importa dove abiti, la Toscana la porta con sé, nel suo modo di parlare, nel suo garbo e in questa evidente acutezza del modo che ha di sentire le cose.

“Buongiorno, Grazia, sono felice di incontrarla finalmente!”
“Buongiorno a te. Vuoi un tè caldo? Con questo tempo….”

“Volentieri, la ringrazio”.
“Anch’io alla tua età volevo fare la giornalista, ho iniziato da giovanissima. Prima di mollare, nel ’70, ho scritto per riviste importanti e ho girato tutta Europa per incontrare gli artisti che dovevo intervistare”.

“Come mai si è avvicinata al giornalismo e ha scelto poi di abbandonarlo?”
“Vedevo le mie coetanee finire il liceo, in alcuni casi l’università, sposarsi e mettere su una normalissima famiglia. Io volevo tentare di sottrarre la mia identità all’informe destino femmineo. Il giornalismo era un passo verso l’emancipazione, per me che avevo sete di conoscenza e nuove esperienze: avevo incarichi con “Il Mondo”, “La Nazione”, “L’Europeo”, “Epoca”, “Paragone” e molti altri…”

“E poi cos’è cambiato?”
“Poi ho capito che il giornalismo mi dava cibo più che nutrimento e che i motivi che mi avevano spinto verso quel mondo erano la fame di indipendenza e l’amore per la scrittura. Riflettendoci, mi resi conto che tra ciò che volevo esprimere e ciò che potevo esprimere nei miei articoli rimaneva un divario per me intollerabile. La mia identità si stava appiattendo nella firma, non era più libera, non era più curiosa. Così, ho mollato”.

“Poi è cominciato il suo amore con la narrativa e la saggistica…”
“In realtà avevo già scritto un romanzo nel ’58, Gli scapoli di Londra, che aveva anche riscosso un certo successo tra gli intellettuali del tempo, tra cui Montale. Poi, visti gli impegni di redazione, mi ero fermata per vent’anni”.

“Oltre a L’Approdo invisibile, del 1980, uno dei suoi lavori che più mi ha colpito è Le lettere del mio nome, un vero e proprio faccia a faccia tra lei e le più grandi autrici del Novecento, nella forma di un romanzo-saggio. Da quale esigenza nasce l’opera?”
Le lettere del mio nome è nato con la volontà di raccontare le grandi donne scrittrici del mio secolo, tra cui Ingeborg Bachmann, Colette, Anna Frank, Carla Lonzi, Gianna Manzini, Gertrude Stein, Virginia Woolf e, un mio grande modello, Anna Banti. Come d’altronde anche in Da una stanza all’altra, del 1984, raccontare le vite di queste donne straordinarie aveva come scopo il ripensare il canone della letteratura italiana, avvicinando le giovani lettrici di fine Novecento a figure che non avrebbero, purtroppo, trovato sui libri di scuola. Spero di esserci riuscita, anche se in minima parte”.

“Un’ultima domanda, signora Livi: scrittrici si nasce o si diventa?”
“Io credo che narrare sia un destino. Nel mio caso scrivere è stato una sorta di obbligo interno a cui ho scelto di obbedire. Credo che la professione della scrittrice s’impari in qualche modo, perché entrano in gioco altri fattori sociali e culturali, ma la necessità di narrare o la si ha dentro o non la si ha. E se la si ha… Son dolori!”.

Grazia Livi: nata a Firenze nel 1930 e scomparsa a Milano nel 2015, è stata una scrittrice, giornalista e saggista italiana. Laureatasi in Filologia romanza con Gianfranco Contini, ha intrapreso la carriera di giornalista per testate come “Il Mondo”, “Epoca”, “L’Europeo” e “LaNazione”. Il primo romanzo, Gli scapoli di Londra, è del 1958 ottenendo ottime recensioni.
Nei decenni successivi si dedica alla narrativa e alla saggistica, abbandonando il lavoro da giornalista. Tra i suoi titoli principali ricordiamo L’approdo invisibile del 1980, Da una stanza all’altra del 1984, Le lettere del mio nome del 1991, Narrare è un destino del 2002 e Lo sposo impaziente del 2006.
Insignita di vari riconoscimenti, è ricordata come una delle personalità fiorentine più influenti del mondo intellettuale del XX secolo.

Qui di seguito uno stralcio dalla raccolta di saggi di Grazia Livi: Narrare è un destino.

«Avevo sette anni quando dichiarai in famiglia che volevo diventare scrittrice. Per una serie di coincidenze e di scelte ho poi onorato quel sogno ingenuo, che mi permetteva di salvarmi dai naufragi della sensibilità, mi spingeva a rafforzarmi nella disciplina, mi avviava verso un progetto di indipendenza. La parola scritta ha così dominato la mia vita. Tuttora la domina. Anche se la figura di scrittrice che immaginai da bambina si è trasformata, a causa dei profondi mutamenti sociali: omologazione, potenza dei media, mercato trionfante, globalità; ormai non coincide più con quel ruolo, quel mito. Non esiste più. Al posto di quella figura c’è una donna come tante, la cui particolare inclinazione è di farsi assorbire dalle parole scritte e la cui esigenza è di cercare una sintesi che valga per la conoscenza e per la solitudine»