Mese: giugno 2021

L’amor cortese, come elevazione dello spirito umano.

C’è stato un periodo nella storia in cui era costume innamorarsi della moglie di un potente, dichiararsi suo fedele servitore e, talvolta divenirne amante, non solo platonico. É quello che convenzionalmente si chiama “amor cortese” ed è stato celebrato dalla poesia dei trovatori prima e poi degli stilnovisti. Nemmeno il sommo poeta Dante è passato immune da questa prassi: chi ricorda mai la noiosa moglie legittima Gemma e chi invece non ricorda l’amore imperituro per Beatrice, anche e soprattutto dopo la morte della divina fanciulla?

Pare che tutto tragga spunto dai poeti arabi dell’anno 1000, che avrebbero influenzato la corte di Aquitania e poi la Francia e l’Italia. Alla base di tutto c’è, come sempre, l’amore e il suo concetto. Nel periodo  cavalleresco per amore di una donna, quasi sempre sposata, di cui ci si dichiarava paladini e vassalli si facevano grandi imprese, se si era artisti si componevano poemi o si dipingeva in modo sublime.

L’innamorato poteva essere anche un cavaliere povero e diseredato, ma rendendosi schiavo d’amore per la sua bella, si innalzava a un rango di nobiltà del cuore. Solo chi amava poteva essere considerato veramente nobile.

L’importante era soffrire. Infatti non si poteva concepire l’amore se non era accompagnato dalla sofferenza. Una sofferenza, che come nella religione, portava all’estasi.

È evidente che nel matrimonio, dove il patto tra i coniugi dà stabilità al rapporto, non vi può essere una sofferenza tale da rendere l’amore “eroico”, quindi, agli occhi del periodo trobadorico, un “vero amore”.

È anche vero che all’epoca tutti i matrimoni erano combinati e mirati alla procreazione o alle alleanze patrimoniali e sociali, quindi l’amore poteva svilupparsi solo nella libertà consentita dalla clandestinità.

All’innamorato non era mai permesso di pronunciare il nome della donna amata, per evitare il disonore.  Quasi tutte le poesie trobadoriche erano dedicate infatti a dame senza nome, o dissimulate da nomignoli.

In teoria l’ideale di amor cortese, teorizzato da Andrea Cappellano, scrittore del “De amore”, prevedeva che l’oggetto amoroso, ovvero la donna sposata, fosse sempre irraggiungibile, un ideale sempre inappagato, lontano, in definitiva platonico, anche per non incorrere nelle scomuniche ecclesiastiche.

Nella realtà si consumavano carnalmente molti adulteri, anche se il silenzio e la discrezione erano obbligatori.

Un altro requisito necessario perché si potesse parlare di amore, a quell’epoca, era la sottomissione totale dell’uomo alla donna prescelta, quasi un rapporto sadomaso ante litteram, oppure una forma di culto divino alternativo. L’amore dell’uomo, inoltre, non pretendeva nessuna ricompensa, nessun ritorno, era gratuito. Non esisteva violenza nei confronti di chi non ricambiava il sentimento, questo non era nell’ideale cavalleresco ( e potrebbe essere un valido insegnamento nel presente), anzi un rifiuto acuiva anzi la nobiltà di un amore che di per sé e gratuito e non chiede niente.

Lancillotto e Ginevra, gli amanti celebri, citati anche nella Divina Commedia nel galeotto canto di Paolo e Francesca, ne sono un esempio mirabile. La storia è nota. Lei è la bellissima moglie di Re Artù, il mitico condottiero di Camelot, in Inghilterra, alla perenne ricerca del Santo Graal assieme ai Cavalieri della Tavola Rotonda. Lui è di origine reale, è francese (e non poteva essere altrimenti) e si chiama Lancillotto del Lago, e ben presto diventa il più valente dei cavalieri di Camelot.

In una missione per liberare Ginevra, Lancillotto se ne innamora e si vota a lei, dedicandole le insegne e qualsivoglia impresa. Nasce l’amore, clandestino, pieno di sensi di colpa ma anche di ebbrezze estatiche. Artù, dopo qualche tempo, scopre la liason e da quel momento tutto crolla: il regno, Camelot, lui stesso muore in battaglia. I due amanti, per penitenza (o forse perché senza Artù non potrebbero più essere amanti e basta?), si ritirano in due conventi separati, senza mai più vedersi, continuando ad amarsi nei loro pensieri.

L’amor cortese è un periodo importantissimo per i rapporti uomo-donna e per l’idea di amore erotico: l’amore non è più considerato come follia  – tesi che si ripresenta ciclicamente nel tempo – , ma come saggezza e strumento di elevazione dello spirito umano.

pc

“Berthe Morisot. Le luci, gli abissi” di Adriana Assini.

Parigi 1868, Berthe Morisot posa per Édouard Manet, l’artista più discusso e affascinante del momento .

Sono gli anni in cui la modernità entra prepotentemente nei caffè e nei salotti parigini, sono gli anni della prima corsa ciclistica nel parco di Saint-Cloud e del brevetto per la fotografia a colori di Ducos du Hauron.

Sulla scia di questo fermento socioculturale un gruppo di pittori lancia una sfida al conservatorismo delle accademie. I loro nomi sono Renoir, Degas, Monet, Manet, Cézanne solo per citare i più famosi; passeranno alla storia con il nome di Impressionisti.

Berthe Morisot, terzogenita di un funzionario della Corte dei conti, desidera fare della pittura la sua professionetraguardo quasi impossibile in un mondo dove l’arte è esclusivo appannaggio maschile. Nulla riesce però a distrarre Berthe dalle sue tele e dai suoi pennelli eccetto il misterioso e seducente Édouard Manet.

Bijou, come viene chiamata in famiglia, non esita ad accantonare i suoi strumenti per posare per il pittore che ha conquistato la sua anima e il suo cuore fin dal loro primo incontro. Tutto accade sotto lo sguardo vigile e attento della madre di lei Marie-Cornélie che disapprova questa infatuazione della figlia e la vorrebbe quanto prima accasata come si converrebbe ad una donna del suo ceto.

Adriana Assini è maestra assoluta nel saper ricreare le atmosfere dei periodi storici nei quali si muovono i suoi personaggi; i suoi sono romanzi corali e questo lo è forse anche più degli altri. Ad affiancare la protagonista Berthe Morisot non c’è solo Manet ma tutti coloro che fecero parte del loro circolo; una confraternita che non si componeva di soli pittori ma anche di scrittori del calibro di Émile Zola o di poeti quali Stéphane Mallarmé.

Adriana Assini ci presenta Berthe Morisot come una donna forte e volitiva che non arretra di fronte a nulla pur di ottenere quei riconoscimenti che sa di meritare e che vuole ottenere senza dover rinunciare al suo essere donna. La Morisot, infatti, non acconsentì mai a cambiare il proprio nome con un nome maschile né ad abbigliarsi con abiti da uomo per ottenere quanto le spettava di diritto per i suoi meriti. Pagina dopo pagina prende vita davanti ai nostri occhi una galleria di personaggi vividi e reali con le loro manie e le loro peculiarità caratteriali: la passione di Manet per gli abiti sartoriali di alta moda, i modi scostanti di Degas, la meticolosità di Monet e così via.

Berthe Morisot, Eugène Manet sull’isola di Wight, 1875

La vita artistica, e non solo, di Berthe Morisot  fu profondamente segnata dal suo rapporto con il carismatico Édouard Manet, uomo sposato e seduttore impenitente. Fu infatti un amore totalizzante e platonico quello che legò la Morisot al pittore anche dopo la morte di questi. Se Manet fu per lei amico e maestro, lei per lui fu la sua musa nonché l’unica donna in grado di comprenderlo davvero e sapergli tenere testa, lei così selvaggia eppure allo stesso tempo così per bene. 

Berthe Morisot era una perfezionista, mai veramente soddisfatta dei risultati raggiunti anche nella vita privata. Eppure, dalle sue opere traspariva tutt’altro. Le sue tele erano luminose ed eternavano a volte scene di intimità familiare; esprimevano quella luce e quella pace interiore alle quali la pittrice tanto aveva aspirato, ma che mai riuscì davvero a raggiungere. Al termine del romanzo, però, il lettore non può che immaginarla in pace accanto al suo Édouard, finalmente insieme e uniti per l’eternità.

Adriana Assini è riuscita a rendere in modo eccellente le luci e gli abissi, per citare il titolo stesso del romanzo, propri dell’animo di quell’affascinante artista tanto caparbia e umbratile da essere, a torto, spesso accusata di freddezza e anaffettività.

Un viaggio malinconico e inquieto attraverso i sentimenti e le profondità dell’animo umano quello in cui ci conduce Adriana Assini in questo suo ultimo romanzo, ricco di citazioni che spaziano dal pensiero di Eraclito ai versi di Shakespeare; un viaggio rischiarato però dai vivaci colori dei lussureggianti giardini, dalle sfumature azzurre dell’oceano e dagli infiniti tentativi di Monet di riuscire a fermare sulla tela i riverberi della luce.

Adriana Assini

Adriana Assini vive e lavora a Roma. Sulla scia di passioni perdute, gesta dimenticate, vite fuori dal comune, guarda al passato per capire meglio il presente e con quel che vede ci costruisce un romanzo, una piccola finestra aperta sul mondo di ieri. Dipinge. Soltanto acquarelli. E anche quando scrive si ha l’impressione che dalla sua penna, oltre alle parole, escano le ocre rosse, gli azzurri oltremare, i luccicanti vermigli in cui intinge i suoi pennelli. Ha pubblicato diversi libri, tutti a sfondo storico, tra cui, i romanzi  Giuliano e Lorenzo. La primavera dei Medici (2019), La spada e il rosario. Gian Luca Squarcialupo e la congiura dei Beati Paoli (2019), Agnese, una Visconti, Giulia Tofana. Gli amori, i veleni (2017), Un caffè con Robespierre (2016), La Riva verde (2014) e Le rose di Cordova che dalla sua prima edizione del 2007 ha visto la fortuna di due edizioni successive e tre ristampe.

Gli Hotel delle donne di New York, dove gli uomini non potevano entrare.

Fino a non tanti anni fa le donne sole non potevano accedere agli Hotel di NYC, fino a quando si crearono gli alberghi dove a esser vietati furono i maschi.

The Martha Washington Hotel.

Dietro ogni grande città ci sono sempre delle grandi donne. New York City, come la più grande delle città, ha conosciuto le più grandi donne del mondo ma il mondo non si è sempre rivelato altrettanto grande, né riconoscente, né gentile nei loro confronti.

In un tempo non lontano e fino al 1965, una donna sola, se non era accompagnata da un uomo che garantisse per lei, non poteva soggiornare in un hotel o cenare nel suo ristorante. La signora Harriet Stanton Blatch nel 1908 citò a giudizio la Hoffman House che si rifiutò di consentire l’accesso al suo rooftop dopo le 18 senza un uomo che la accompagnasse. La corte le diede torto poiché “la condizione necessaria per consumare un pasto o una bevanda era di avere un accompagnatore maschio”. Anche donne colte e brillanti dovevano lottare per non essere viste solo come la moglie, la madre, la figlia o l’amante di… un uomo. Questa lotta contro gli stereotipi, la religione, la cultura e la morale può essere osservata attraverso la storia unica degli hotel di New York.

Park Avenue Hotel Courtyard

Ancora una volta, è quindi naturale che New York sia stato il luogo di nascita del primo hotel per donne. Dall’inizio alla metà del XIX secolo un numero molto elevato di donne single si trasferì a New York sia per sfuggire alla povertà ma anche per esplorare la possibilità di una vita indipendente. Gli “Angeli della casa” (come venivano spesso descritte dagli uomini) erano stanchi di essere in realtà gli “Angeli delle pulizie di casa”.  Probabilmente provavano quello che, nel 1973 ancora provava Betty Friedan quando scrisse: “Io pensavo, come le altre donne, che ci fosse qualcosa di sbagliato in me perché non provavo nessun orgasmo passando la cera sul pavimento della cucina”. 

Spinte dall’aumento della richiesta di lavoro femminile e sebbene venissero pagate molto meno degli uomini (niente di nuovo), furono comunque finalmente in grado di assicurarsi un lavoro a pieno titolo.  Nel 1840 solo il 10% delle donne aveva un lavoro, e nel 1920 si raggiunse il 24% (43% nel 1970 e 61% nel 2000), il che creò un serio problema per le donne lavoratrici e per la città: l’alloggio.

Senza alberghi o abitazioni che permettessero alle donne di alloggiare in sicurezza, esse finivano spesso in dimore molto pericolose e squallide. A differenza degli uomini, delle donne non ci si poteva fidare e non si poteva lasciarle “senza supervisione”, la loro morale, purezza e castità dovevano essere preservate; da qui l’apertura di “Case Morali”, spesso gestite da entità religiose, con regole molto rigide e ferree restrizioni che erano concepite per far rispettare “una sana condotta”, come le preghiere del mattino, visitatori solo nel parlatorio e nessun uomo. La matrona della casa era chiamata “madre” e le ospiti, “figlie”.  La YWCA aprì nel 1891 al civico 14-16 della 16esima strada, l’affitto era da pagare in anticipo, niente cucina, lavanderia e l’elettricità veniva staccata alle undici di sera.

Il palazzo sede dello Stewart Hotel, poi del New York Sun (courtesy of museum of the city of New York)

Nel 1878 sulla Fourth Avenue (Park Avenue) tra la 32esima e la 33esima strada aprì lo Stewart Hotel, il primo “Hotel delle donne lavoratrici” a pieno servizio. Venne commissionato dall’immigrato Irlandese e uomo d’affari Alex Turney Stewart che era diventato uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti e aveva fondato il primo grande magazzino di New York City al 280 di Broadway, (che è ancora in esistenza, ed è conosciuto per essere stata la sede del giornale New York Sun).

Il Sig. Stewart dichiarò che l’hotel era stato realizzato per “giovani donne industriose… per promuovere la loro individualità e indipendenza”. Potendo ospitare 1.500 donne lavoratrici, era il più grande hotel dei suoi tempi. Lo Stewart Hotel esibiva in tutto l’edificio una magnifica struttura in ghisa con colonne e lunette e un elegante cortile; per sette dollari a settimana si poteva affittare una stanza privata mentre per sei dollari si condivideva la stanza. Purtroppo questo esperimento innovativo durò solo quarantacinque giorni: quando ci si rese conto che non era un investimento redditizio, fu rapidamente riadattato a hotel di lusso e ribattezzato il Park Avenue Hotel, il quale venne tragicamente demolito nel 1927, rendendolo uno dei tesori perduti di New York.

Park Avenue Hotel

Occorrerà attendere fino al 1903 per la realizzazione di un altro hotel per donne. Il Redbury Hotel, come si chiama attualmente, venne realizzato in un elegante stile Renaissance Revival sulla 29esima strada tra Madison e Park Avenue. Aveva un nome tanto generico quanto inequivocabile: “Women’s Hotel” per poi passare a “uno, nessuno e centomila” nomi: The Martha Washington, Thirty Thirty, Lola, King & Grove e di nuovo Martha Washington e ora il Redbury. L’importanza del Martha Washington Hotel nella storia di Gotham è innegabile, era il concetto di femminismo applicato a un hotel, tanto che divenne anche la sede di un gruppo femminista: l’Interurban Women Suffrage Council. L’hotel riscosse un successo immediato con una lunga lista d’attesa.

Era infatti concepito per donne d’affari indipendenti come insegnanti, musicisti, scrittrici, medici, infermiere… tutti i servizi erano orientati per il loro benessere, una farmacia, una manicure, una sartoria e anche molte delle partecipazioni azionarie erano possedute da donne, sebbene vi fossero investitori famosi come John D. Rockefeller, Helen Gould e Olivia Sage. L’impatto dell’hotel fu tale che nel 1904 il New York Times parlò di tour organizzati davanti all’hotel. “Le guide turistiche l’hanno ora incluso (l’hotel) tra i luoghi d’interesse da indicare ai turisti provenienti da fuori città, facendo supporre che le residenti fossero un nuovo tipo di fenomeno da baraccone che non era ancora stato classificato in un museo o in uno zoo”.

Matilde diventa maggiorenne e va a votare!

Luciana sogna di andare all’università e di diventare una scienziata. Matilde, la sorella maggiore, ha fatto solo le elementari ed è operaia in un maglificio ma, sperando in un futuro diverso, sta preparando l’esame della terza media perché non ci si vede “una vita a fare i maglioni e ad accudire bambini”.

Questo importantissimo appuntamento è concomitante con un avvenimento storico: il referendum tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946.  Le donne italiane possono votare per la prima volta e Matilde, che ha appena compiuto 21 anni, è emozionata e sente la responsabilità della scelta che può fare. 

Con “Il primo voto di Matilde” (ed Settenove), Fulvia Degl’Innocenti ha immaginato una famiglia contadina toscana dopo la guerra, nei mesi in cui è chiamata al voto. Prima per le amministrative, a marzo, e poi per il referendum e l’elezione dell’Assemblea Costituente. 
L’ordinaria vita nei campi e la storia d’amore di Matilde con Lorenzo si intreccia con l’esercizio di un diritto di cittadinanza dimenticato poiché era il 1934 quando l’Italia aveva potuto esprimersi, tra l’altro, per un plebiscito: infatti “si poteva votare solo un sì o un no ai candidati dell’unico partito, quello fascista”. 
 

Il giorno del voto è una festa e la famiglia si prepara con cura organizzandosi per la lunga fila che la attende ai seggi. Le notizie dello spoglio arrivano lentamente e solo il 5 giugno si ha la certezza che la repubblica ha battuto la monarchia con quasi due milioni di voti in più. Matilde ha votato per la repubblica e per Bianca Bianchi, un’insegnante, “la persona giusta per affrontare i problemi della scuola e il diritto all’istruzione”. 

Questo delicato racconto, corredato con le illustrazioni di Gioia Marchegiani, si rivolge alle giovani generazioni per dare informazioni su un momento costitutivo della nostra democrazia e, attraverso la protagonista, delinea il ritratto di una donna capace di scegliere autonomamente il suo futuro e la società in cui vuole vivere. 
Matilde che diventa maggiorenne diventa la metafora di una giovane nazione consapevole dell’impegno che ha assunto e che è fieramente convinta di volerlo sostenere.

Fonte: Noidonne.it