“Women Talking”.Il diritto di scegliere.

Un film sulla violenza maschile e sul potere liberante della parola, che diventa resistenza.

ll film Women talking – Il diritto di scegliere ha prima di tutto un effetto straniante, perché non siamo abituati a vedere sullo schermo delle donne che parlano tra di loro e parlano solo di loro stesse, dei loro desideri, e se parlano di uomini lo fanno solo per dire quanto li odiano.

Non che si tratti di una novità in senso assoluto, quello di parlare di uomini durante la loro assenza, ma per le protagoniste del film non si tratta di semplici pettegolezzi tra amiche o conoscenti, ma di come superare l’odio che provano per quegli uomini, gli stessi che per anni le hanno violentate e poi accusate di essersi inventato tutto. Perdonarli per assicurarsi un posto in paradiso oppure scappare da quel luogo del dolore e ricominciare lontano?.

Women Talking, scritto e diretto da Sarah Polley, è ispirato ad una storia vera che ebbe luogo nel 2010 nella comunità mennonita di Manitoba in Bolivia. La storia ha ispirato il romanzo di Miriam Toews, da cui, a sua volta, è tratto il film.

In questa colonia isolata dal mondo e come fuori dal tempo, in quell’anno le donne scoprono che gli uomini hanno controllato la loro vita, la loro fede e la loro sessualità. Per anni, di notte le hanno drogate e violentate, causando diverse gravidanze indesiderate. Per potere abusare di loro e schiavizzarle, gli uomini della colonia le hanno tenute in un perenne stato di analfabetismo. Gli uomini della colonia sono poi stati arrestati e, come si legge nei titoli di coda del film, resteranno in carcere fino al 2036.

Il film, ottimamente girato ed accompagnato dall’eccellente colonna sonora della musicista iralndese Hildur Guðnadóttir, è una narrazione sulle dinamiche di potere tra i sessi, ma soprattutto sul potere liberante della parola e sulla presa di coscienza che diventa resistenza all’oppressione. In un certo senso, ricorda i gruppi di autocoscienza femminista degli anni Settanta. Infatti, la pellicola si concentra sulle lunghe ed anche accese discussioni di un gruppo di donne riunite in un fienile, dopo che gli uomini sono stati arrestati.

Le donne hanno di fronte tre opzioni: non fare nulla, restare a combattere o andarsene per sempre dalla colonia. Più che un film sulla solidarietà femminile, trovo che esso racconti il modo in cui le donne hanno, per secoli, interiorizzato le “regole” dettate dal mondo maschile e di come, dopo la violenza che diventa non più sostenibile, solamente un confronto serrato attraverso il dialogo, solamente il coraggio che ciascuna di esse prende dal gruppo, dia loro la forza di adottare la decisione finale: andare via per sempre da tanto dolore, lasciare la comunità e trasferirsi in un altro angolo di mondo, portandosi via in fretta gli oggetti di una vita.

Certo, non è facile farlo a cuor leggero: infatti, queste donne che parlano sono estremamente combattute nell’adottare la decisione finale. Ecco perché si tratta di un film in un certo senso psicologico. Il divario è tra coloro che hanno passivamente accettato il loro ruolo di subordinazione alla popolazione maschile, giustificandosi con distorte credenze religiose, e le donne che, invece, non accettano più di sottostare ad un’ingiustizia del genere.

L’unica figura maschile positiva e gentile del film è il giovane maestro August Epp, che è innamorato di una di loro, Ona (Rooney Mara), incinta di uno degli stupratori del gruppo. È proprio con l’aiuto di August che le donne fuggono all’alba, dopo avere drogato i pochi uomini rimasti con lo stesso anestetico usato da loro.

Le discussioni che precedono l’atto finale sono interminabili, perché non si possono cancellare con un colpo di spugna tradizioni e credenze che si sono stratificate nelle coscienze individuali nel corso di decenni. Solamente una sorta di procedimento maieutico, alla maniera socratica, può far rinascere queste donne. Anche se non si tratta di un percorso indolore. Ma dolore non può aggiungersi ad altro dolore e, dunque, bisogna arrivare al punto in cui si abbia davvero il diritto di scegliere.

Straordinaria, direi, l’interpretazione delle sette attrici protagoniste: Claire Foy, Jessie Buckley, Judith Ivey, Ben Whishaw, Frances McDormand, Sheila McCarthy e una Rooney Mara davvero sublime nel pieno della sua maturità artistica.

Uno splendido lavoro sui miracoli che può fare la parola. Una testimonianza forte del fatto che solo una presa di coscienza individuale e collettiva può salvare e liberare l’essere umano, quando è vittima del potere dell’oppressione e dell’oppressione del potere. Un film da mettere in lista e da vedere.

“Villette”di Charlotte Brontë.

“La paura a volte fa immaginare cose vane”.

Il romanzo della Brontë racconta la storia di Lucy Snowe, una giovane donna che salpa dalla solitaria e poco promettente Inghilterra verso la città di Villette (nome di fantasia che potrebbe essere Bruxelles), dove ottiene il posto di insegnante di inglese nel collegio femminile di Madame Beck.

Protestante, isolata in mezzo a gente di cui non condivide né la lingua, né costumi, né la fede, si sente incompresa, incapace di trovare il suo posto, soggetta a crolli mentali ed episodi di depressione.
Mentre lotta per tutta la vita si innamora anche di due uomini, rivendicando il diritto ad amare ed essere amata.

Lucy Snowe racconta la sua storia come farebbe nel suo diario, affidando i suoi stati d’animo, tormentati e contraddittori: l’amore, le relazioni sociali, il rapporto con il mondo e con la vita.
Parla dell’esistenza come se lei fosse assente e questo contrasto rende originale il romanzo che rispecchia tutte le caratteristiche del romanticismo inglese, in particolare, per l’attenzione ai sensi

“La vita è sempre vita, con tutti i suoi dolori. Ci resta l’uso degli occhi e delle orecchie, anche se l’attesa di quanto ci appaga ci venisse negata del tutto e il suono di ciò che consola fosse messo completamente a tacere”.

La tristezza del collegio e gli umori altalenanti di Lucy creano un’atmosfera che assume il colore della penombra che scende come una carezza carica di pietà.

Lucy è un punto interrogativo, un grande enigma; è uno dei personaggi femminili più complessi e indefinibili incontrati nelle mie letture.

Come in “Jane Eyre”, Charlotte Brontë ritrae qui un’eroina singolare, dal carattere forte, innamorata della solitudine e forse un po’ bigotta.
Nonostante la sua rettitudine morale, Lucy non corrisponde del tutto al modello di femminilità in voga nell’Ottocento.

Il suo temperamento orgoglioso e indipendente, la sua capacità di tener testa agli uomini e il suo lato asociale lo rendono un personaggio bizzarro, incline all’osservazione altrui quasi maniacale, soprattutto dell’abbigliamento.

Ho trovato Lucy Snowe anche inaffondabile come narratrice perché volutamente maschera sentimenti e nasconde le vere identità delle persone, ma in compenso sa essere dolorosamente onesta con sé stessa e con gli altri
Combatte una grande battaglia interiore tra il voler rimanere nell’ombra e l’apparire, ma le ombre perseguiteranno Lucy per tutta la storia.

Villette è una storia profonda e commovente sulla solitudine e la costante battaglia tra ragione e sentimento “mi sembrava di avere due vite, la vita del pensiero e quella della realtà “.

Lucy nonostante la bellissima scrittura di Charlotte Brontë è rimasta per me un’eroina un po’ troppo rassegnata e anche se il romanzo non ha lo spessore di Jane Eyre, credo sia impossibile non empatizzare con i suoi stati d’animo senza sentire qua e là, l’eco dei propri.

FRANÇOISE D’EAUBONNE:la pioniera dell’ecofemminismo.

Nata a Parigi il 12 marzo 1920, Françoise d’Eaubonne cresce in un ambiente profondamente caratterizzato dal conservatorismo religioso: il padre, Étienne Piston d’Eaubonne, è un membro del movimento progressista cristiano Le Sillon e la madre, Rosita Martinez Franco, è figlia di un rivoluzionario carlista.

Trascorre l’infanzia nella città di Tolosa, cercando un clima più favorevole alla salute di suo padre, costantemente malato a causa dei gas tossici inalati durante la Prima guerra mondiale. Dal 1936 al ’39 segue con partecipazione gli eventi della Guerra civile spagnola e la sua famiglia accoglie esuli fuggiti alla dittatura di Franco. Il suo talento per la scrittura si rivela precocemente, quando vince il premio della casa editrice Denoël per il miglior racconto under 13. Dopo aver terminato gli studi universitari da autodidatta, aderisce alla Resistenza francese contro il nazifascismo e pubblica, durante la guerra, la prima raccolta di poesie: Colonnes de l’âme, edita da Lutétia nel 1942.

Nel 1944 s’iscrive al Partito comunista, che lascerà pochi anni dopo per una forte dissonanza sulle tematiche dell’ecologismo, del femminismo e della differenza sessuale.

Negli anni seguenti, persegue contemporaneamente la sua carriera letteraria e il suo attivismo politico: essendo rimasta sola con la figlia dopo il divorzio dal marito nel ’44, decide di affidare la bambina ai nonni, per potersi concentrare sulla costruzione di un percorso professionale. L’episodio mette in luce, nella vita privata di d’Eaubonne, quanto la maternità costituisca per i paradigmi sociali un ostacolo spesso insormontabile all’affermazione lavorativa della donna.

Una vera rivoluzione interiore per d’Eaubonne è rappresentata dalla pubblicazione del saggio Il secondo sesso di Simone de Beauvoir: la lettura del libro le consente di osservare la sua esperienza di donna sotto una lente completamente diversa, e da quel momento la filosofa si assesta su un nuovo centro di gravità da cui analizzare l’esistenza.

Ispirandosi proprio a de Beauvoir scrive il suo primo saggio femminista nel 1951, Le complexe de Diane: un’opera in cui, partendo dalla classicità, analizza le questioni storiche e culturali che hanno portato all’esclusione delle donne dalla politica e in cui introduce inoltre l’idea di una bisessualità originaria e del genere binario come costrutto sociale. La sua formazione politica di stampo marxista emerge chiaramente nel testo, dal momento in cui intreccia inesorabilmente la lotta femminista alla lotta di classe e il destino delle donne come parte di una rivoluzione collettiva. Nel periodo successivo continua a scrivere romanzi, saggi e poesie, che arricchiscono una vastissima produzione, di oltre cento pubblicazioni.

È nel 1971 che si avvicina definitivamente alla lotta per i diritti delle donne e delle persone omosessuali, partecipando alla fondazione del Mouvement de Libération des Femmes (Mlf) e Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire (Fhar), il primo movimento rivoluzionario che unisce sotto la stessa sigla gay e lesbiche francesi, che, tra l’altro, dà anche un forte impulso alla nascita del Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (F.u.o.r.i). Nello stesso anno prende parte al Manifeste de 343, una dichiarazione pubblicata sulla rivista Nouvel Observateur, in cui 343 donne ammettono di aver avuto un aborto, rischiando di andare incontro a dure conseguenze penali: il manifesto dà un’importante scossa al dibattito sulla legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza e sul diritto di scelta.

E se… ricominciassi dal principio? Il nuovo romanzo di Lorena Dellapiana.

Genere: Romanzi rosa

Trama:

Bianca ha trentaquattro anni, impiegata comunale in un paesino della cintura torinese, è sposata con un rampante avvocato di origini borghesi. Vive a Torino dove conduce una vita tranquilla e agiata che viene sconvolta un giorno di Settembre: una telefonata in piena notte fa crollare il suo castello di carte. Si trova da un giorno all’altro a dover combattere da sola i suoi demoni. Dopo aver trascorso giorni bui capisce che deve tentare di uscire dal suo guscio per affrontare l’ignoto. Un incontro fortuito le dà lo stimolo per rimettersi in pista.

Ed è proprio quando sta per riemergere dal baratro della disperazione, che segreti scioccanti emergono dalla sua vita passata, verità nascoste che mai avrebbe immaginato tornassero a galla stravolgendo nuovamente la sua esistenza. Tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora non era reale, le persone in cui aveva riposto la sua fiducia, che aveva amato con tutta se stessa non erano come aveva reputato. 

Tra schiaffi morali e colpi di scena riuscirà a ritrovare il suo posto nel mondo, tornando alle origini. A fianco dell’amata zia Imelda e in compagnia dalla fedele cagnolina Stella riuscirà a ricominciare dal principio proprio tra quelle colline di Langa in cui ha trascorso la sua infanzia. 

Perché Leggerlo?

Perché è un romance dinamico e sorprendente: “E se… ricominciassi dal principio?” è una lettura che coinvolge.

La scrittura scorrevole di Lorena Dellapiana ci immerge da subito nelle vicende della trama, al fianco della protagonista Bianca e di chi l’accompagna. Sebbene il romanzo si apra con una tragedia, l’autrice rende la lettura sempre piacevole, profonda, sì, ma senza generare ansie.

Si percepisce la volontà di ricominciare a vivere e venire a patti col dolore, grazie alla narrazione in prima persona di Bianca dove non manca un pizzico di brio e di autoironia, che descrive il coraggio, senza svilire il dolore.

Tutti i personaggi sono intriganti. Descritti con cura e tridimensionalità, offrono tanta varietà di caratteri, di vite e di segreti, che rendono un romanzo di amore e sentimenti imprevedibile, di ampio respiro grazie ai temi trattati che girano intorno all’evidenza che le persone non si conoscono mai fino in fondo.

La narrazione ha un ritmo in crescendo e apprezzo tantissimo che l’autrice non si sia chiusa nel ristretto cerchio della relazione amorosa, magari tra un lui tenebroso e problematico e una lei bellissima e concentrata solo sul lavoro, come capita fin troppo spesso, ma abbia esplorato altro, dando al lettore tanto su cui confrontarsi e riflettere.

Nell’opera troviamo il lutto e come lo si affronta, non in maniera accademica, ma tramite l’esempio unico della protagonista che ci coinvolge nella sua vita; affondiamo le mani nell’amicizia e nei non detti che esistono anche tra chi si affida e confida; sfioriamo la violenza sulle donne, l’adulterio, le bugie che si nascondono dietro un’apparenza perfetta e integerrima; infine abbiamo esempi diversi di unità famigliare, con amore, accoglienza e vicinanza che si contrappongono a supponenza, aria di superiorità e scarsa considerazione.

E se… ricominciassi dal principio?” è un romanzo che appassiona, prende di pancia e di testa, è davvero difficile posarlo, perché ci sono tante cose da scoprire e capire, tanti rapporti di cui vogliamo conoscere l’evoluzione, non solo personali, ma anche lavorativi.

È la vita quella che Lorena Dellapiana mette in romanzo, con tutti i suoi imprevisti, i mille impegni, le cose che capitano e che bisogna affrontare, le brutture, ma anche i regali che possono essere dolci, ancora più belli se arrivano non cercati.

Il libro ci ricorda che non sempre va tutto male e che si può ricominciare a vivere, trovare la luce anche in un labirinto che ci appare solo buio.
Un romanzo che mi ha sorpresa e che, ne sono certa, piacerà non solo alle romantiche, ma anche a chi di solito questo genere lo evita: qui c’è davvero tanto altro a movimentare una trama ben raccontata. 

Lorena Dellapiana nasce a Canelli in Piemonte nel 1974, cresce a Neive, un paese alle porte delle Langhe, dove tuttora lavora come impiegata comunale. Si diploma presso il Liceo Classico “Govone” di Alba e consegue la Laurea in Architettura presso il Politecnico di Torino. Dal 2018 recita nella compagnia teatrale “I Fabulanti di Neive”, associazione di cui è vice presidente, dal 2020 è membro dell’associazione culturale Manganum, con la quale collabora in veste di figurante in occasioni di rievocazioni medievali. 

Circa quindici anni fa si trasferisce a Mango dove, attraverso la finestra di casa, ammira ogni giorno le colline che tanto ama e che hanno dato i natali a generazioni della sua famiglia. É proprio questo radicato attaccamento alla sua terra che porta l’autrice ad ambientare in Langa “E se… ricominciassi dal principio?”, il suo romanzo d’esordio. Ed è qui che Bianca, personaggio principale e voce narrante della storia, ritroverà se stessa e la gioia di vivere quando, a causa di un destino avverso, dovrà cambiare vita e ricominciare dal principio.

Meena Keshwar Kamal e la forza delle donne afghane.

Meena Keshwar Kamal, autrice della poesia “Mai più tornerò sui miei passi“, fu uccisa a soli 31 anni dagli agenti della polizia segreta afghana e dai loro complici fondamentalisti a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio del 1987.

Era un’attivista impegnata nella difesa dei diritti delle donne afghane. Il movimento femminista Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan” (RAWA) che ha fondato ed è ancora oggi un punto di riferimento per il femminismo asiatico.

Un gruppo organizzato per promuovere l’uguaglianza e l’istruzione per le donne. Meena e le sue compagne si riunivano in clandestinità, infondendo fiducia e coraggio alle donne, insegnando loro tutti i modi possibili per diminuire la dipendenza dagli uomini e incoraggiandole a sfidare le regole patriarcali.

Nel 1979 protestò apertamente contro quello che chiamò il governo fantoccio russo che controllava l’Afghanistan e organizzò incontri nelle scuole per mobilitare il sostegno contro quel governo. Due anni dopo fondò una rivista bilingue, in persiano e in pashtun, chiamata Payam-e-Zan, ovvero “Messaggio alle donne”, che spiegava la necessità di opporsi al fondamentalismo talebano.

Pochi mesi dopo, nel marzo del 1982, Meena partecipò a Milano al 19° Congresso del PSDI come rappresentante della resistenza afghana contro l’invasione sovietica. Quando la sua voce cominciò a farsi sentire, le repressioni contro la RAWA aumentarono e l’organizzazione dovette spostare la sua sede in Pakistan.

Lì, nel campo profughi di Quetta, c’erano centinaia di afghani che erano fuggiti dal conflitto bellico del paese. Così, Meena decise di fondare la scuola Watan, “patria” in lingua farsi, che si rivolgeva a bambini e donne dei campi che non avevano avuto alcuna istruzione o formazione professionale. La scuola accolse 500 ragazzi e 250 ragazze, una grande vittoria per Meena che allo stesso tempo stava organizzando una raccolta fondi internazionale per la costruzione di un ospedale.  

“Le donne afgane sono come leonesse addormentate, una volta sveglie possono svolgere un ruolo meraviglioso in qualsiasi rivoluzione sociale” Meena Keshwar Kamal.

Con il passare del tempo le sue parole, le sue idee e le sue azioni prendevano sempre più forza e seguito, e questo per molti era diventato un problema. Meena sapeva che la sua vita era in pericolo, ma comunque sia non smise mai di lottare.

Fu uccisa da degli agenti della polizia segreta afghana o dai loro complici fondamentalisti a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio del 1987. Aveva 31 anni. Quel giorno hanno ucciso il suo corpo, ma non le sue idee né la sua lotta. La RAWA continua ancora oggi a battersi per dare voce e speranza alle afghane e al suo popolo, preparando il ruggito delle leonesse.

Meena era anche una poetessa, questi i versi della sua poesia più conosciuta.

Mai più tornerò sui miei passi…

Sono una donna che si è destata

Mi sono alzata e sono diventata una tempesta

che soffia sulle ceneri

dei miei bambini bruciati

Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata

L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza

I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,

Sono una donna che si è destata,

La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.

Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto

Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro

Oh compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono una donna che si è destata.

La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.

Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa

Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto

Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà

nel loro insaziabile stomaco

sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio

La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei flutti di sangue e nella vittoria

Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace

Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.

La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate

I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti

Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,

Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero

sono una donna che si è destata

Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Lessico famigliare di Natalia Ginsburg.

“Non fate malagrazie”, “nuovo astro che sorge”, “non riconosco più la mia Germania”, “egregio signor Lipmann”, “il baco del calo del malo” , “sgarabazzi, sempiezzi, sbrodeghezzi”, “addio Luigi undicesimo”… sono solo alcune delle parole, frasi, modi di dire che identificano e rendono unica la famiglia Levi, così come accade un po’ in tutte le famiglie con le storie raccontate che tramandano personaggi e fatti a noi lontani nel tempo e nella memoria.

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg è infatti un romanzo (forse) generazionale e di memoria che narra di cose realmente avvenute e di persone realmente esistete.
Memoria individuale, che diventa memoria collettiva quando la storia della famiglia si intreccia alla storia d’Italia di quel tempo (prima metà del Novecento) e la vive senza subirla, e le sopravvive.

Nuove parole si introducono allora nel lessico famigliare di ognuno dei componenti: antifascismo, campagna razziale, cospirazione, confino, Resistenza e ognuno, con il proprio modo di essere, agisce e combatte affinché queste parole non rimangano vuote, senza significato.

Non è una famiglia perfetta quella in cui l’autrice ha vissuto; genitori d’altri tempi che non badavano troppo ai modi, alle tenerezze e fratelli che si disprezzano anche, che si prendono a botte, che non si danno “spago”, ma che si ritrovano a guardare nella stessa direzione, ad essere dalla stessa parte, nonostante tutto.

Il ricordo rimarrà il filo conduttore, fino alla fine del libro quando, dopo tutte le “avventure” capitate, i vecchi genitori continuano a rievocare storie passate:
“Egregio signor Lipmann, disse mia madre – ti ricordi come diceva? E poi diceva sempre “Beati gli orfani!”.

Diceva che tanti erano matti per colpa dei loro genitori. Beati gli orfani diceva sempre” ”ah non cominciamo adesso con il Barbison! disse mio padre – quante volte l’ho sentita contare questa storia”.

Otto Marzo!

Tutti i giorni.

Mandando un mare d’amore, comprensione, forza, autenticità, capacità di desiderare a tutte le bambine e alle giovani donne là fuori che cercano di essere se stesse in un mondo che sta costantemente dicendo loro di non farlo.

Tutti i giorni e non solo oggi #8marzo

La foto è della straordinaria Kate T. Parker Photography

Voglia di cinema: “La vita delle donne”.

Fotografia di Filippo Ilderico

The Hours è un film del 2002 diretto da Stephen Daldry e interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman, che per questa interpretazione ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista nel ruolo di Virginia Woolf.

Nel 1923 in Inghilterra, una Virginia Woolf (Nicole Kidman) annoiata dalla troppo tranquilla vita di campagna comincia a scrivere il suo celebre romanzo Mrs. Dalloway.

Nel 1951 a Los Angeles, Laura Brown (Julianne Moore) incinta del secondo figlio scopre di non voler essere madre mentre prepara una festa di compleanno per il devoto marito.

Nel 2001 a New York, Clarissa Vaughn (Meryl Streep) cerca di salvare l’amico poeta Richard malato di AIDS organizzando una festa in suo onore.

Le storie di queste tre donne si intrecciano continuamente e le parole di Virginia Woolf, man mano che scrive, sembrano cambiare le sorti delle due signore Dalloway nel futuro. 

Dietro suggerimento dei medici, Virginia è costretta a vivere nella campagna inglese col marito Leonard a causa della sua instabilità mentale, mentre lei vorrebbe tornare nella capitale per stare in mezzo alla gente. È forse da questo desiderio che prende spunto per il suo romanzo; l’intera vita di una donna viene raccolta in un unico giorno, mentre organizza una festa nella grande città. 

Alienata dalla routine monotona e grigia che vive fuori Londra, la scrittrice tenta in tutti i modi di tornarci, con un treno o col pensiero, convinta che lì risieda la sua felicità.

Laura Brown è moglie, madre e casalinga in attesa del secondo figlio. Sembra avere tutto quello che una donna di quell’epoca può desiderare per se stessa, eppure è infelice e incapace di amare la propria famiglia. Il giorno del compleanno del marito decide di preparare una torta insieme al figlio di pochi anni, Richard. I programmi della giornata vengono interrotti della visita dell’amica Kitty, che le confessa di essere sterile e quindi di non poter avere un bambino: l’unica cosa che voleva veramente è anche l’unica che non è in grado di fare.

È in questo momento che Laura capisce di non essere nata per essere madre. Lei non ha mai provato il desiderio di maternità che prova Kitty e il fatto di essere madre non l’ha mai fatta sentire più donna o più completa, mentre, al contrario, l’amica dichiara che a suo parere, non ci si può definire donna finché non si diventa madre.

Durante la giornata la sua mente vaga e, leggendo il romanzo della scrittrice inglese, pensa in un primo momento al suicidio, ma cambia infine idea decidendo di aspettare fino alla nascita del secondo figlio per abbandonare la sua famiglia per sempre. 

Clarissa Vaughn vuole organizzare una festa per l’ex amante ed amico poeta malato di AIDS che ha recentemente vinto un premio prestigioso per le sue opere. Anche in questo caso la donna inizia la sua giornata tentando di essere positiva e fiduciosa, ma una prima breve visita al poeta mette in discussione il suo umore.

L’amico dichiara di essere stato vivo per lei fin troppi anni e che doveva lasciarlo andare. Queste parole tortureranno Clarissa durante tutta la giornata e la preparazione della festa. È davvero lui ad essere sopravvissuto per lei o, forse, il contrario?

Tutte e tre queste donne sono rimaste vive per qualcun altro e hanno cominciato le loro giornate mascherandosi da persone felici per qualcun altro; Virginia Woolf, alla fine del film, e le altre due, alla fine di questa giornata particolare, si saranno liberate dei loro pesi.

La prima si toglie la vita per donare speranza al marito a cui scrive nella lettera d’addio: “so che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti”. La seconda, Laura, non riesce a suicidarsi con un bimbo in grembo e per questo aspetterà di partorirlo per andarsene e non tornare mai più. La terza, Clarissa dovrà essere salvata da qualcun altro che si sacrificherà per lei, liberandola dal senso di colpa. 

Virginia, Laura e Clarissa appartengono a tre epoche e tre vite completamente diverse: un’artista, una casalinga e un’editrice. La prima non ha figli; la seconda li ha, ma non li vuole; la terza ha voluto una figlia tanto ardentemente da sottoporsi all’inseminazione artificiale per averla.

Non è la maternità o l’amore ad accomunare queste donne; è più che altro il senso di costrizione e di dovere nei confronti dei più cari. Da un marito sfinito, a un figlio indesiderato, a un amico in fin di vita. Le donne di questo film donano parte della propria vita a qualcun altro, forse più che per amore, per compassione.

Il film propone un’importante riflessione sulla figura femminile, presentando tre personaggi completamente diversi tra loro che vivono in tre epoche distanti. Oltre al genere biologico, c’è poco altro che accomuna queste donne: Virginia è sfrontata, testarda e orgogliosa; Laura è confusa e indecisa; Clarissa è affettuosa ed emotiva. La domanda che sorge spontanea è: la compassione provata da queste donne è un fattore comune legato al sesso, al carattere o forse più al genere femminile come concepito dalla società

“Le donne dagli occhi grandi” di Ángeles Mastretta.

Le donne dagli occhi grandi guardano il mondo con meraviglia ed entusiasmo, con rabbia, tormento e determinazione, con voglia di vivere e di combattere. 

    Le donne dagli occhi grandi, sono tante, tutte affascinanti, ciascuna con la propria unica e particolare bellezza concentrata in un particolare del viso, in una ciocca di capelli, nel modo di incedere, di parlare o di sorridere.

    Le donne con gli occhi grandi amano con passione, fanno dell’oggetto del loro desiderio il centro della propria vita, pronte a sacrificarsi, a mentire, a negare se stesse, a fare le valige e partire.

Donne per le quali “l’amicizia tra uomini e donne è un bene imperdonabile “, donne che hanno “un tale subbuglio nel cuore”  che per ventilarlo lasciano le porte aperte “così che chiunque poteva entrare e chiedere affetto e favori senza neppure bussare”, donne che danno baci “di quelli che le donne innamorate regalano perché non sanno più dove metterli”.

Con questo Donne dagli occhi grandi  Ángeles Mastretta (1949) ci parla di donne e ci parla d’amore e passione, ma anche di amicizia, paura e morte. E lo fa attraverso tanti piccoli racconti, ognuno con protagonista una donna diversa, che si ritrova ad affrontare quello che la vita le mette davanti. Dalla passione sfrenata alle delusioni d’amore. Dai matrimoni felici a quelli di convenienza. Dalla voglia di ribellarsi all’obbligo di obbedire a convenzioni e imposizioni familiari. Dalla paura di vivere a quella di morire. 

Attraverso queste donne, queste zie,  Ángeles Mastretta offre uno spaccato della società messicana e di un’epoca, da un punto di vista prettamente femminile, senza però mai scadere nello sdolcinato o nel melenso. Sono donne forti, intelligenti (e che come succede e alla zia Daniela, si innamorano come  “s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota“), che combattono ogni giorno per essere se stesse.

Le donne sono sempre in primo piano, con tutte le loro complessità che ne fanno dei personaggi unici e interessanti… lo stile è fluido, spontaneo, perché in realtà questo libro nasce come un lungo racconto che lei stessa fa alla figlia minore, che si trova in ospedale. Seduta al capezzale della bambina, comincia a raccontarle le storie delle donne della sua famiglia, che erano state importanti per lei.

Questa narrazione che dovrebbe essere un balsamo per la bambina, diventa medicina per l’intera umanità!

Eccovi un breve stralcio…

“La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno e aveva pensato: “Quest’uomo si crede Dio”. Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani  e di passioni sconosciute, s’innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Gòngora. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perchè c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo  per il sesso opposto e le sue incertezze. Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza  abbagliante, una virtù angelica  e un talento d’artista. Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi  tra i mortali, dedicando tutta se stessa ai desideri e alle stramberie  di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegargli il suo amore”.

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Sono belle, tutte queste donne dagli occhi grandi, come lo sono un po’ tutte le donne che lottano, amano e vivono davvero. 

” A volte a Marzo” di Maria Àngels Anglada

A volte a marzo l’aria diventava calda.
Ali d’aprile sorridevano al campanile,
il chiarore del tempo muoveva dolcemente
i giardini delle case e i giardini del sangue.
Gli alberi sfuocavano. Poco oltre, le labbra di agrifoglio
delle fanciulle baciavano quel vento amoroso
e i merli si annidavano tra il sambuco e l’edera.
Ma era ancora inverno nei giardini del sangue:
come bambini che si svegliano di notte e piangono,
erano stati cullati con i racconti della paura.
Nei giardini del sangue la primavera era
una freschezza sterile. Il tempo, non sempre cupo, 
serbava la luce dei dolci giorni nei calici maturi
e a poco a poco fiorirono gli anni della sua estate.

A volte, entro marzo, l’aria ritornava calda.

(da Kiparíssia, 1980)

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Maria Àngels Anglada i d’Abadal (Vic , 9 marzo 1930 – Figueres , 23 aprile 1999),  poetessa, scrittrice e saggista catalana.

Laureata in Filologia Classica, coltivò la critica letteraria, con particolare attenzione alla letteratura catalana e italiana e alla mitologia greca.

La sua poesia è opera di sintesi tra classicismo e modernità.