Mese: luglio 2022

Rita Atria: la “picciridda”dell’antimafia.

Rita Atria

“Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci“. 

Questa frase così tagliente, che inquadra in maniera tanto lucida la realtà omertosa in cui viviamo, non è stata pronunciata da un politico, da un intellettuale o da un magistrato, ma da una ragazza di 17 anni, che quel mondo, suo malgrado, lo conosceva fin troppo bene. Rita Atria nasce a Partanna, in provincia di Trapani, nel 1974 da Vito Atria e Giovanna Cannova. Suo padre appartiene a una cosca mafiosa trapanese e anche il fratello Nicola segue le sue orme, entrando nella cerchia di un boss locale. Rita entra in contatto con la morte troppo presto. Vito viene ucciso nel 1985, a seguito di un agguato, e Nicola viene eliminato 6 anni dopo, essendo ormai considerato pericoloso perché alla ricerca di vendetta per l’omicidio del padre.

Fino al 1991, Rita conosce solo un mondo in cui è l’omertà a farla da padrona, finché qualcuno non rompe la gabbia di cristallo e comincia a frantumare quel castello di silenzi e violenza: è Piera Aiello, sua cognata, la moglie di Nicola, che ha assistito all’omicidio del marito con la bambina di 3 anni tra le braccia. Piera collabora con la polizia, aiuta a identificare i killer e rompe l’omertà: sotto protezione, viene trasferita a Roma con la bambina. 

Nel frattempo, a Partanna, la ragazza si trova sempre più sola: la scelta di Piera è vissuta da tutti come un tradimento dell’onore della famiglia e nessuno sembra voler aver più a che fare con gli Atria. Rita nel novembre del 1991 vede davanti a sé un’alternativa possibile e sceglie di seguire l’esempio di sua cognata: si reca in gran segreto a Marsala dal Procuratore Borsellino per rivelargli tutto ciò che sa sugli affari mafiosi in cui è coinvolta la sua famiglia. Le conseguenze non tardano a ripercuotersi sulla diciassettenne, che, dopo essere stata minacciata e rinnegata persino dalla madre Giovanna, viene trasferita a Roma sotto falsa identità, entrando nel programma di protezione testimoni.

Paolo Borsellino

Il rapporto con Borsellino si fa sempre più intenso, il Procuratore diventa un punto di riferimento per la giovane Rita, che insieme a Piera fornisce informazioni cruciali per l’arresto di decine di mafiosi del trapanese, compreso l’ex sindaco di Partanna Culicchio. “L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.”. 

Queste parole risalgono al giugno del 1992, poche settimane prima dell’assassinio di Paolo Borsellino. Purtroppo, dopo aver appreso la notizia della morte dell’unica persona al mondo che le aveva dato ascolto, Rita perde totalmente la speranza e si uccide il 26 luglio, lanciandosi dalla finestra del suo rifugio romano, in Via Amelia. Lascia scritto sulle pagine del suo diario: “Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito. […] Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. […] Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta“.

A Partanna ormai è nota come una fimmina lingua longa e amica degli sbirri e, quando torna nel paese in una bara bianca, al suo funerale non partecipano neanche i familiari. Piera Aiello sceglie la foto e l’incisione per la tomba “La verità vive”: il coinvolgimento della nuora scatena l’ira della madre Giovanna Cannova, che, dando esito a minacce precedenti, distrugge a martellate la lapide della figlia.
Sul suicidio di Rita si è scritto tanto, ma una cosa non dobbiamo smettere di chiedercela: perché Rita si è sentita così sola? Perché una nostra testimone di giustizia è stata abbandonata al punto da darsi ormai per morta e scegliere di uccidersi da sola?
Cara Rita, non possiamo riportarti indietro, ma, anche grazie a te, non vinceranno loro e forse ce la faremo!.

BIBLIOGRAFIA

Sandra Rizza, Una ragazza contro la mafia, Palermo, La Luna, 1993 

https://liberavco.liberapiemonte.it/rita-atria/

http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/rita-atria/

Una istantanea su Monica Vitti: donna fuori dal comune.

Monica Vitti, ovvero la migliore di tutti, che ha fatto innamorare tutti. Vita, dolcezze e splendori dell’ultima mattatrice italiana.

Monica Vitti ci ha lasciato lo scorso 2 febbraio e ne scrivo solo oggi per una sorta di rispetto nei confronti di una grande donna oltre che di una straordinaria artista. Monica Vitti ha davvero lavorato con i più grandi, ha molto faticato, ma si è anche divertita. È stata la musa di Michelangelo Antonioni e una fantastica compagna di avventure di Alberto Sordi.

È stata amata molto in vita e celebrata, forse non abbastanza, anche per via della malattia neurodegenerativa che l’ha colpita e che non le ha forse permesso di lavorare e vincere ancora. Chissà la sua bellezza e il suo talento in eta’ matura quanto altro avrebbero potuto regalarci.

Ha vinto molto nella sua lunga vita: David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), 3 Nastri d’Argento, 12 Globi d’oro (di cui due alla carriera) e un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio BAFTA.

Una presenza bellissima ed anche un po’ buffa, una umanità e una verve straripante, una risata e una voce inconfondibile. Insomma una donna non convenzionale, in nessun aspetto, in tempi in cui essere altro, essere differenti, aveva il suo peso e caricava addosso maggiori responsabilità e giudizi.

Si racconta che l’incontro con Antonioni fece saltare tutti i suoi progetti matrimoniali con un fidanzato architetto. Diventando la musa di Michelangelo Antonioni iniziò la sua carriera, interpretando ruoli dedicati alle nevrosi di coppia e alle molte inquietudini della donna moderna. Dimostrò successivamente con Mario Monicelli, ne La Ragazza con la pistola, la sua grande attitudine alla comicità, una comicità elegante che le veniva incredibilmente naturale. Sdoganò prima di tutte, contro ogni stereotipo di genere, che si poteva essere belle, brave e anche di una ironia irresistibile. Mica male!

Le sue donne sono spesso eroine tragicomiche, svagate, nevrotiche, ma trovano una forma di riscatto nella propria autenticità. Una metafora anche della sua carriera, nella quale è riuscita a superare la diffidenza del pubblico per affermarsi come attrice popolare, dopo la tetralogia di Antonioni, che per un periodo la cristallizza nel ruolo di “musa dell’incomunicabilità”.

Una donna, insomma, fuori dal comune in molte cose, un animo complesso, anche nella sua scelta di non avere figli, che raccontò al grandissimo Enzo Tortora molti anni fa. “A 14 anni e mezzo ho deciso che non avrei mai avuto un figlio, perché lo ritengo una delle cose più difficili che possa fare una donna”. 

Non era aristocratica, non aveva la pretesa di insegnare come si sta al mondo, era colta e popolare, due parole che sapeva tenere insieme. Prima di lei, le donne dovevano giocare sulle proprie imperfezioni. Poi è arrivata Monica e tutto è cambiato. Con i suoi occhi allegri, i suoi capelli arruffati, la sua voce inconfondibile.

Monica Vitti ha vissuto in modo straordinario e ha reso meravigliosa ogni cosa da lei sfiorata. È forse questa una delle cose più difficili per chiunque, donne e uomini. Un modo incredibilmente abile e generoso di darsi al mondo. 

Proprio per questo, per molte, è difficile dirle addio. E anche per questo oggi ci fanno tanto male i capelli (cit.).

“Far ridere è stata sempre la mia ambizione, veder ridere, poi, vedere la gente felice, mi fa stare meglio. Scoprire di far ridere è stato come scoprire di essere figlia del re”.

Monica Vitti

Sylvia Plath e le altre poetesse…perché scelsero il suicidio?

Molto si è scritto su quella sorta di dolorosa epidemia di suicidi che caratterizzò la “poesia al femminile” del Novecento. Basti ricordare la triste storia e la solitaria fine della poetessa Antonia Pozzi e della fotografa Francesca Woodman (che si tolsero la vita la prima a 26 e la seconda a 22 anni).

Ma la poetessa milanese e la fotografa americana non furono che due esempi nel lungo e tragico elenco di donne che videro nella morte auto-inflitta una liberazione dal dolore di quel mondo che Pascoli aveva definito  un “atomo opaco del male”. 

Virginia Woolf

L’inglese Virginia Woolf, scrittrice, saggista e poetessa, animatrice del   circolo di Bloomsbury, vivaio di talenti anticonformisti, dove la sperimentazione letteraria e gli amori saffici si alternavano alle lezioni di economia di Keynes, pose termine ai suoi giorni affogandosi nel torrente Ouse (quasi novella Ofelia).

Marina Cvetaieva

Mai dimenticate, poi, la moscovita Marina Cvetaieva, anima nomade e solitaria, impiccatasi ad una trave nella sua abitazione, l’argentina Alfonsina Storni (di famiglia svizzero-italiana del Canton Ticino) che si lasciò annegare nelle acque del Mar del Plata, e ancora la svedese Karyn Boye e poi, appunto, la Pozzi e la Woodman e Anne Sexton, americana autrice dei “Love Poems“, affetta da sindrome maniaco-depressiva (oggi meglio nota come disturbo bipolare) e, ancora, Sylvia Plath, forse la più famosa di questo tristissimo elenco. E infine un’altra poetessa dell’obiettivo come Francesca Woodman: la controversa, inquietante Diane Arbus.

Per quanto diverse siano state le loro singole storie, tutti i loro nomi  sono legati dal filo rosso di una nevrosi, di una diversità vissuta come un disagio psichico in grado di usurare quotidianamente ogni residuo contatto col mondo circostante. Hanno sicuramente ragione quanti vedono nel periodo storico, nel breve, funesto trionfo delle dittature nazionaliste, nella persecuzione degli ebrei e nell’ossessione staliniana del nemico interno, una delle cause che favorirono l’estraniamento di alcune delle poetesse uccisesi nel Novecento.

Antonia Pozzi, “malata di nervi”, (così si diceva ai tempi…) soffrì molto anche per la persecuzione di cui furono vittime molti suoi amici ebrei, così come la dolce Marina Ivanovna Cvetaieva che scelse la morte, nel 1941 (come la Woolf), perché ormai incapace di sopportare le vessazioni cui era sottoposta assieme a buona parte degli intellettuali sovietici dal regime staliniano.

Una tesi sostenuta anche da chi era incline a considerare la malattia mentale come una manifestazione di un malessere sociale, primo fra tutti Wilhelm Reich (seguito oltre vent’anni dopo dal nostro grande Franco Basaglia), proprio in quegli anni costretto, lui austriaco ma ebreo, a trovare ricovero negli Stati Uniti che non furono tuttavia per lui la “land of opportunity“. Reich morì infatti nel penitenziario di Lewisburg dove un giudice americano (forse un seguace del senatore McCarthy) lo aveva spedito perché “comunista”, ma in realtà e soprattutto, per i suoi rivoluzionari scritti sulla repressione della sessualità.

Sylvia Plath

E nel Novecento, secolo di guerre mondiali e sanguinose rivoluzioni,  di guerre civili e guerre fredde, la “normalità” non era normale. L’enigma di tanti suicidi forse si scioglie tentando di comprendere l’impossibilità di tante poetesse a sintonizzarsi con un’epoca di violenza in cui, pur tuttavia, le donne avevano cominciato la loro lunga lotta per i diritti, dalle suffragette inglesi dei primi del secolo alle femministe del ’68 e oltre.

Diane Arbus

Sylvia Plath e Diane Arbus furono forse gli ultimi  “casi” in questa lunga scia di sangue che caratterizzò parte della letteratura femminile del ventesimo secolo. Anche loro forse travolte dallo Spirito del tempo, dalla malattia mentale che incarnava. Molto malata era Sylvia, divenuta un’icona delle generazioni nate nella seconda metà del secolo.

La newyorkese Arbus, di origini russe, manifestò invece il suo disagio interiore attraverso la proiezione dei suoi propri fantasmi sui “Freaks“: nani, gemelli siamesi, ermafroditi ed altri sfortunati esseri umani. Forse sperando di liberarsi delle sue più profonde angosce. Ma non fu così e nel luglio del 1971, Diane perse la sua partita con la depressione e si uccise.

La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.” 

Virginia Wolf