Mese: luglio 2019

Non ero amata…

                                       John Everett Millais “Ofelia”

Ofelia

Ah, come a lungo giacerò
nelle acque vitree, nella rete d’alghe,
prima di credere alfine alla semplice
verità: non ero amata.
Maria Pawlikowska

(da Baci, 1926 – Traduzione di Krystyna Jaworska)

La poeta polacca Maria Pawlikowska eccelse nella miniatura lirica, nelle quartine epigrammatiche capaci come questa di colpire sul loro termine come una stilettata.

La storia di Ofelia è famosa: Amleto, per impedire la congiura ordita dal padre di lei Polonio, che utilizza l’ingenua fanciulla per i suoi scopi e far credere pazzo Amleto, dichiara di non averla mai amata e la offende, abbandonando poi la scena.

Ofelia non para il colpo : “E io, la più infelice e derelitta / delle donne, ch’ho assaporato il miele / degli armoniosi voti del suo cuore, / debbo mirare adesso, desolata, / questo sublime, nobile intelletto / risuonare d’un suono fesso, stridulo, / come una bella campana stonata”, anzi comincia a impazzire e affoga in un ruscello mentre coglie fiori per farne ghirlande.

Maria Pawlikowska-Jasnorzewska, nata Kossak (Cracovia, 24 novembre 1891 – Manchester, 9 luglio 1945),, poeta polacca. Autrice prolifica, denominata la “Saffo polacca”, fu la regina della scena poetica del suo paese durante il periodo tra le due guerre.

Il colore rosa: storia, curiosità e racconti!

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Il colore universalmente più gradito pare essere l’azzurro, eppure siamo qui a parlare del colore rosa. Quello tra rosa e azzurro sembra essere uno scontro tra colori impossibili (cromaticamente), tuttavia sono strettamente connessi. Rappresentano una netta e palese dicotomia, semplice ed elementare: maschio/femmina.

Sicuramente quello dei colori attribuiti alla differenza di genere è uno degli stereotipi più scontati di sempre. Quindi è solo per questo motivo che esiste tanta spontanea e amorevole sudditanza nei confronti del colore rosa da parte di tutte – o quasi – le donne? Un amore incontrastato e indissolubile dato da un fiocco di nascita e un paio di vestitini?

La spiegazione invece appare essere assai più interessante, addirittura di tipo evolutivo. 

Alcuni studiosi inglesi sostengono che l’attitudine al colore rosa sia una predilezione naturale, risalente all’epoca in cui le donne si occupavano di raccolti. Donne che, nei secoli, hanno sviluppato una sempre più forte sensibilità nei confronti dei colori tendenti al rosso, ovvero quelli dei frutti maturi. Tuttavia l’associazione tra il rosa e la donna avviene solo in tempi relativamente recenti.

Scorgendo alcuni testi sulla storia della moda e del costume emerge che fino al 1800 il colore rosa era assolutamente adeguato per un uomo, tanto da essere presente sui suoi abiti, decorati da vistosi ricami floreali. I bambini, invece, vestivano di bianco, indistintamente dal sesso. 

È solo nei primi del ‘900 che scoviamo i primi riferimenti all’attribuzione dei colori al sesso.

Nel romanzo “Piccole Donne”, Louisa May Alcott fa riferimento a dei nastrini rosa e azzurro per distinguere due bambini di sesso opposto, giustificando tale scelta come un’influenza dettata della moda francese di quegli anni.

Qualche decennio dopo, invece, in una scena molto celebre del romanzo di Fitzgerald, “Il grande Gatsby” si presenta a un pranzo indossando un abito gessato rosa, confermando il fatto che questo colore era molto apprezzato dai giovani dandy americani dell’epoca e, soprattutto, che non era ancora un colore identitario.

Intorno agli anni ‘40 le cose iniziano a cambiare: gli uomini indossano colori sempre più scuri, per via dell’ambito lavorativo frequentato – principalmente legato al mondo degli affari – e le donne, invece, iniziano a indossare toni chiari e delicati, legati all’immaginario della “casalinga perfetta”. 

Inoltre, le teorie sulla sessualità di Freud hanno un impatto non indifferente sulla distinzione di genere e fu proprio in quegli anni che iniziò a concretizzarsi maggiormente la questione, iniziando a differenziare così i colori dell’abbigliamento e degli accessori dei bambini.

È negli anni ’50 che avviene, quasi inspiegabilmente, una precisa assegnazione dei colori: il rosa viene identificato come il colore femminile per eccellenza. Non solo nell’abbigliamento, ma anche nei beni di consumo e addirittura nelle automobili; impossibile dimenticare la famosa Cadillac rosa che determinò il suo posto sull’olimpo del lusso automobilistico americano dell’epoca. Il prezzo era sopra i 7000 dollari, una cifra esorbitante per quegli anni.

Un colore tanto amato quanto odiato, quello associato alla femminilità. Motivo per cui, tra gli anni sessanta e settanta, venne fortemente additato dai movimenti femministi che, non avevano tanto un problema strettamente legato al colore, quanto al sillogismo: rosa= bambina/fragilità/donna. 

Da questo momento in poi un po’ d’ironia sul tema, nonché l’inizio del riscatto. Nasce in quel periodo il fumetto di Barbapapà; nella rappresentazione vediamo come protagonista una famiglia in cui vi è un uomo-padre, raffigurato interamente in rosa, e una madre, raffigurata in colore nero. Furono gli anni ottanta a imporre, definitivamente, l’idea dei colori che marcatamente segnalavano il genere d’appartenenza. Le strategie di marketing in questo periodo storico diventano sempre più vincenti. Un crescendo di successi in quegli anni, e Barbie – la bambola più famosa del pianeta – consolida in tutto e per tutto la “femminilizzazione” del rosa.

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Il boom è in corso. Quasi tutte le bambine ne diventano avvezze. La cameretta ha i muri rosa, il primo zaino per la scuola è rosa, così come i fiocchi per i capelli o i costumi di carnevale da principesse e, per non farci mancare nulla, anche il pigiama per andare a dormire. Insomma, la lista è molto lunga.

Nel corso degli anni abbiamo accettato più o meno tutte con il sorriso questa predisposizione. Spesso senza chiederci chi avesse preso questa decisione e perché. Sembrava “sensata”. D’altronde quale altro colore avrebbe potuto esprimere altrettanto bene la delicatezza di una donna? In psicologia il significato del colore rosa è di tranquillità e serenità. Forse anche per questo motivo è sembrato normale, nella società occidentale e di quegli anni, spingere l’associazione tra questo colore e la sfera femminile. La storia che ha reso il rosa il colore per eccellenza delle donne è complessa e non manca di matrici maschiliste, che tutte noi rifiutiamo.

Detto questo però, oggi, le donne lo utilizzano con molta personalità e senza timore. Il rosa è diventato uno dei colori più amati nella moda, nei social e nell’arredo.

Negli ultimi anni le multinazionali hanno fanno incetta di oggetti per “pink addicted” e le cosiddette “quote rosa” nelle aziende sono diventate un modello da perseguire, che funziona e accresce sempre maggiormente.                       

Una fetta di mercato importante quella legata a questo mondo, sempre più in espansione.Il colore può dunque aiutare la percezione positiva e aumentare le ‘conversion’ – in termini digitali.

Il muro rosa di Paul Smith ad esempio, a West Hollywood – Los Angeles, è uno dei più fotografati di sempre. Blogger, influencer e persone comuni provenienti da tutto il mondo vi si recano in centinaia ogni giorno solo per farsi una foto, accrescendo così sempre di più la popolarità del marchio. Nella grande mela invece, negli ultimi anni, c’è stato un boom dei fotografatissimi Cafè rosa. A seguire il trend non poteva mancare nella City. A Londra, infatti, in tempi non lontani, sono nati il famoso Elan Cafè e la floreale pasticceria più amata dalle donne arabe Peggy Porschen.
Da New York alla capitale britannica i luoghi di culto per le affezionate del rosa sono numerosi. È davvero molto difficile prendere posto per un brunch o uno spuntino in questi locali; le code sono davvero lunghissime e le ragazze trascinano fidanzati e famiglia per il piacere di scattare una foto da postare sui loro social. Dunque, rosa a profusione.

Figlio del consumismo americano e bersaglio come peggior nemico delle ‘gender theories’, oggi questo colore diventa alleato.

Non a caso, il rosa è il simbolo del movimento femminista, nonché quello della prevenzione del tumore al seno ( anche se a me non piace molto!) . Ogni anno, nel mese di ottobre, per la “Breast Cancer Campaign”, campagna di sensibilizzazione ideata da Evelyn H. Lauder,  viene illuminato di rosa uno dei monumenti più rappresentativi di oltre 70 nazioni, per suscitare interesse nei confronti di un tema di grande rilevanza sociale.

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Ágnes Heller… fiera di essere donna!

 

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“….sentire e pensare da donna. Proprio per questo aveva accenti critici per quell’emancipazione così mal interpretata, come se si trattasse solo di prendere il potere imitando i maschi. La liberazione, insieme a un diverso rapporto con il potere, è ancora di là da venire. Ma in tale contesto puntava l’indice contro la politica: «Curiosamente la Sinistra non si è fidata delle donne, sebbene le prime donne politicamente influenti siano state quelle attive nei movimenti socialisti».”

Chi era Ágnes Heller

Sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata sotto il comunismo, poi estromessa dall’università e diffamata dal regime sovranista di Viktor Orbán, Agnes Heller è stata per generazioni, nel secolo scorso e in questo secolo, la massima grande dame e il cervello di punta del pensiero critico e della sfida lucida e senza paura a ogni totalitarismo e ad ogni autocrate. Da poco aveva compiuto 90 anni, era sana e lucida, vivacissima e pronta a nuovi eventi pubblici, anche in Italia. È andata a fare una nuotata nel lago Balaton ma non è tornata, gli amici l’hanno attesa invano a riva poi la polizia ha trovato il suo corpo. Forse arresto cardiaco, l’annegamento è probabile. Ci ha lasciati lo scorso 19 Luglio.

Nata a Budapest il 12 maggio 1929, figlia della colta borghesia ebraica, sopravvissuta ad Auschwitz insieme alla madre (il resto della famiglia morì nei lager nazisti) e alle persecuzioni del regime comunista, Heller era stata allieva di Gyorgy Lukács ed esponente di spicco della cosiddetta “scuola di Budapest”

La sua ricerca, ispirata a una lettura del marxismo in chiave antieconomicista e antropologica, è stata prevalentemente rivolta alla ricostruzione di un orizzonte etico. Marxista eterodossa e dissenziente durante il regime comunista, Heller era stata l’alfiere della teoria dei “bisogni radicali” (intesi come il vero terreno di scontro tra soggettività e potere) e della “rivoluzione della vita quotidiana”.

Tra le sue opere principali spiccano ‘Sociologia della vita quotidiana’ (1970), ‘La teoria marxista della rivoluzione e la rivoluzione della vita quotidiana’ (1972), ‘La teoria dei bisogni in Marx’ (1974), ‘Le forme dell’uguaglianza’ (1978), ‘Morale e rivoluzione’ (1979), ‘La filosofia radicale’ (1979).

Assistente di Lukács all’Università di Budapest, Heller ne fu espulsa nel 1959 e i suoi scritti sottoposti al veto di pubblicazione; riammessa nel 1963 all’Accademia delle Scienze ungherese, divenne tra i più noti esponenti della cosiddetta Scuola filosofica di Budapest, nel 1978 accettò un incarico presso l’Università di Melbourne (Australia) per trasferirsi poi all’Università di New York, dove ha ricoperto la cattedra intitolata a Hannah Arendt. É stata vincitrice del Sonning Prize nel 2006.

Nel 2018 è stata pubblicata in Italia la raccolta di saggi ‘Marx. Un filosofo ebreo-tedesco’ (Castelvecchi) e nel 2019 il suo ultimo libro ‘Orbanismo. Il caso dell’Ungheria: dalla democrazia liberale alla tirannia’ (Castelvecchi). Castelvecchi ha pubblicato anche ‘Breve storia della mia filosofia’ (2016) e ‘La memoria autobiografica’ e ‘Solo se sono libera’ (2017)

Le cattive abitudini delle donne…

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“Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.

Le donne spesso si vergognano di avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con grandi cappelli e bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo di incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù che non sarà tanto facile vincere”.

Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, 199

Il ricordo delle donne “ribelli” di ieri. Una riflessione, oggi!

La violenza contro la donna, in tutte le sue forme, è sempre un’espressione conclamata di disprezzo verso il genere femminile e non può mai essere banalizzato.

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Una foto di gruppo scattata negli anni Trenta che proviene dal dipartimento di salute mentale della Asl di Teramo

Gli ospedali psichiatrici esistevano in Italia già dal XV secolo, privi di normative, spesso fatiscenti, luoghi di sperimentazione, dove il malato era sottoposto a torture piuttosto che a cure e terapie, condannato a un vero e proprio regime di detenzione. La prima legge a regolamentarli è quella del 1904, proposta due anni prima da Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno D’Italia. Era una legge che comunque non teneva conto del malato come persona con i propri diritti e bisogni, sanciva il principio secondo il quale a essere internati potevano essere anche persone che non avevano un disturbo psichico, ma che erano ritenute pericolose e improduttive, o semplicemente di “pubblico scandalo”.

Con l’avvento del fascismo le cose peggiorarono. Il Codice Rocco entrò in vigore nel 1931 e stabilì che gli internati fossero iscritti al casellario giudiziario. Ciò che agevolava ulteriormente l’internamento di molte persone non malate era il fatto che a segnalarle alle strutture poteva essere chiunque, mentre la testimonianza del soggetto segnalato non veniva considerata.

Fra la popolazione, a pagare il prezzo più alto furono le donne: madri, mogli, figlie, vedove, artiste rinchiuse nei manicomi perché non corrispondevano al modello di donna promosso dallo Stato. La donna, infatti, doveva assolvere il solo ruolo a lei destinato, quello di accuditrice della famiglia e soprattutto genitrice di nuova prole per favorire lo sviluppo della patria. Erano considerate “donne deviate” quante rifiutavano con determinazione di sposarsi o di avere una gravidanza e chi voleva proseguire gli studi anziché dedicarsi alla vita domestica.

Spesso erano gli stessi famigliari a condurle negli istituti psichiatrici, giudicando figlie o sorelle insane per quell’atteggiamento trasgressivo, l’abitudine a uscire da casa troppo spesso, a dedicarsi a hobby e amicizie trascurando i propri doveri di donne, mogli o madri. Bastava dimostrarsi apertamente insofferenti a queste regole, cercare una vita differente a quella impostata dalla società dell’epoca, essere tenaci e libere, per essere considerate sovversive, pericolose, di scandalo pubblico.

Le bambine di qualunque età, specie se orfane, a volte passavano direttamente dall’orfanotrofio all’istituto di igiene mentale. Lo Stato imponeva che fossero le province di pertinenza a sostenere le spese di mantenimento di quanti erano rinchiusi nei manicomi; anche per questo molte famiglie povere o incapaci di prendersi cura dei figli iperattivi o con lievi disabilità decidevano di internarli. Le spese di trasferimento dai più remoti paesini fino alle strutture psichiatriche erano interamente a carico dei comuni di provenienza. Era nell’interesse della nazione confinare nel buio e nel silenzio dei manicomi i più deboli  o per “deficienza etica e amoralità come nel caso delle prostitute

Si entrava in istituto per un periodo di osservazione e si poteva non uscirne più. I criteri di giudizio dei medici si basavano sul modello di normalità che lo Stato aveva stabilito, menzionando spesso nelle cartelle cliniche delle pazienti il fattore endogeno congenito o acquisito che ne rappresentava la condizione favorevole allo sviluppo delle malattie mentali. Tutti i comportamenti ritenuti “trasgressivi” erano sintomo di alienazione mentale.

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Chi era Fillide Melandroni, la cortigiana ritratta da Caravaggio? 

 

Caravaggio la conobbe per strada, lei in atteggiamento ammiccante è intenta ad adescare i clienti. Caravaggio la vede, si invaghisce della sua avvenente bellezza offerta a poco prezzo. Inizia a frequentarla come cliente, poi nasce una simpatia tra i due. Durante un incontro le propone di posare per lui. La ragazza ne è entusiasta e nel 1557 la ritrae per la prima volta con un ramoscello fiorito. La relazione tra i due  durò diversi anni  tanto che l’artista fece di lei la sua musa ispiratrice. Ma la vita di entrambi ebbe risvolti diversi Nati entrambi sotto una stella impietosa che li condannò alla fama, ma non alla serenità, né la Melandroni né il Merisi conclusero infatti la loro esistenza in pace. Allontanata da Roma con un atto ufficiale del Papa la prima e fuggiasco spirato su una spiaggia di Porto d’Ercole il secondo. Del loro canone inverso ci resta però l’emozione, veicolata per l’eternità nelle opere del grande artista

Fillide Melandroni, la musa di
Caravaggio, Marta e Maria Maddalena ca 1598, Detroit, Institut of Arts

La ragazza nacque a Siena da Cinzia Guiducci ed Enea Melandroni,ultimo discendente di una nobile famiglia senese. Il giorno 8 gennaio del 1581, domenica, la bambina ricevette il sacramento del battesimo al fonte di San Giovanni. Quando partorì Fillide la madre, Cinzia, aveva da poco compiuto i sedici anni di età. La bimba si trasferì insieme alla madre e al fratello Silvio, figlio di primo letto di Enea Melandroni, a Roma.

Ritratto della cortigiana Fillide, 1597 c., Berlino, Kaiser Friedrich Museum, dipinto disperso.

Un buco nero assorbì le informazioni della famiglia sino all’aprile del 1594 quando riapparve nella storia Fillide che, all’epoca tredicenne, si prostituiva occasionalmente a causa dello stato di indigenza in cui versava la famiglia dovuto, anche, ma non solo, ad una malattia della madre. Enea, il padre, non si trasferì a Roma con la famiglia.

Le notizie della vita di strada della piccola Fillide sono rintracciabili nel verbale del tribunale Criminale del Governatore del 23 aprile del 1594: “donna Fillide d’Enea Senese, in compagnia di due uomini e di Anna Bianchini, romana, era incappata dietro al Monastero di San Silvestro nei sbirri di ronda. E poiché i quattro andavano in giro al buio e fuor delli luoghi soliti tutti furono presi e menati prigionieri in Tor di Nona”.

Una piccola precisazione prima di continuare la narrazione: il termine “fuor delli luoghi soliti”  indicava che la ragazza, insieme all’amica Anna, si prostituivano lontano dal bordello. Nel 1595 morì la madre di Fillide, Cinzia,  appena trentenne

La ragazza, quattordicenne, con l’aiuto della zia Piera, che aveva seguito la sorella Cinzia a Roma, e dell’amica di quei giorni, Anna Bianchini, si dovette occupare del fratello più piccolo, Niccolò.

L’indigenza e l’emarginazione furono affrontate anche grazie all’aiuto del fratello Silvio, che lavorava come cuoco in una delle tante osterie della città. Sino al 1597 Fillide abitò sotto Trinità dei Monti, in una locanda dove le ragazze intrattenevano, con la compiacenza dell’oste, personaggi ambigui e di malaffare. Alcune circostanze condussero Fillide in prigione, al cospetto dei magistrati di città.

La ragazza, grazie all’istruzione ricevuta nei primi anni della sua vita, si rivolgeva con modi corretti ai magistrati, utilizzando un linguaggio che le altre prostitute non potevano nemmeno pensare di copiare. Fillide era diversa, completamente, dalle sue colleghe. Non solo nei modi, anche negli obiettivi di vita. La ragazza visse quel periodo nell’attesa della grande occasione che gli potesse cambiare la vita.

Nel 1598 tutto mutò nella sua vita. A sedici anni d’età entrò in contatto con dei fratelli originari di Terni, i Tomassoni, che, sfruttando le conoscenze altolocate, gestivano un giro di cortigiane tra notai e cardinali. La vita di Fillide cambiò radicalmente.

Si trasferì, con il piccolo Niccolò, in Strada Aragonia, potendo permettersi una serva puttana di nome Francesca. La casa divenne un bordello altolocato, dove si beveva, si giocava a dadi e si consumavano rapporti sessuali. Molti dei visitatori, o amici, di Fillide si presentavano armati presso la sua abitazione, trasgredendo a uno dei tanti bandi del governatore di Roma.

Durante una festa, nell’estate del 1598, gli sbirri si presentano a casa di Fillide. Tutti fuggirono dall’abitazione, anche nei modi più disparati, tranne Ranuccio Tomassoni, che rimase al fianco della ragazza per garantirle protezione. Il giorno seguente Fillide e Ranuccio furono rimessi in libertà.

L’anno seguente, il 1599, fu quello della svolta.

Ranuccio Tomassoni, protettore della giovane, mise in contatto Fillide con Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il pittore prese la ragazza come modella per l’opera raffigurante Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto. Nell’epoca immediatamente posteriore al Concilio di Trento l’aver prestato il proprio corpo ad un’immagine pubblica, per di più devozionale, fu considerato più disdicevole rispetto alla vendita quotidiana di quello stesso corpo. Un prete, parroco della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, censì Fillide sul libro delle anime come cortigiana scandalosa.

 

Caravaggio, Portrait

La vita riservò nuovamente delle sorprese all’ancora giovane Fillide.

Nell’estate del 1600 il suo protettore, Ranuccio, s’innamorò di un’altra ragazza, tale Prudenza, allontanandosi dal suo primo amore. Fillide non accettò tale relazione amorosa e si scagliò violentemente contro la nuova ragazza di Ranuccio. Probabilmente non fu solo gelosia ma anche un tentativo di difendere la posizione di predominanza assunta nel giro delle cortigiane dei Tomassoni.

La lite che scaturì dopo l’aggressione di Fillide a Prudenza fu di tale gravità che condusse la ragazza senese in carcere. A differenza delle occasioni precedenti nessun uomo si prodigò per evitare il carcere e la condanna.

Tutto mutò nuovamente…. Fillide dovette esercitare il mestiere in autonomia, cercando di approfittare dei rapporti con i clienti potenti che aveva conosciuto durante la protezione di Ranuccio Tomassoni. Le brutte sorprese intanto erano in agguato.

Nell’estate del 1601 fu arrestata mentre si recava a casa del cardinale Benedetto Giustiniani, in Rione Sant’Eustachio, in compagnia di Ulisse Masetti, novello sposo e collaboratore del cardinale. Durante i giorni seguenti i due ragazzi furono sottoposti a stringenti interrogatori da parte dei magistrati. Entrambi cercarono di evitare di infangare il nome del cardinale e di sfuggire all’accusa di aver sottratto un novello sposo al letto coniugale, per Fillide, e di adulterio, per il Masetti. A due giorni dal loro arresto nessuno aveva pagato la taxa malefici, di 50 scudi, per far uscire i ragazzi dal carcere di Tor di Nona. Furono entrambi rinviati a giudizio.

 

Fillide ricadde nell’indigenza e nell’emarginazione dei primi anni romani.
Decise di chiedere l’aiuto della famiglia. Si ricongiunse con la zia Piera che nel frattempo era rimasta vedova di un certo Giovanni con il quale si era nel frattempo sposata. Aggressiva più che mai la Melandroni aggredì un’altra cortigiana, Amabilia Antonietti, cercando di malmenare anche la sorella gravida e prossima la parto. Nuovamente arrestata, Fillide rientra nella sfera di protezione dei Tomassoni ma cambiando uomo di riferimento: questa volta ad occuparsi di lei fu Giovan Francesco, il più autorevole dei fratelli.

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Caravaggio, Santa Caterina d’Alessandri 1598- 1599

La cortigiana «scandalosa» di qualche anno prima, inaspettatamente, entrò in rapporto con la parrocchia di S. Maria del Popolo, curò le pratiche devozionali e si dedicò a opere di carità. Nel 1604 risulta essere a capo di un complesso ed eterogeneo nucleo familiare composto dalla zia Piera, dal fratello Silvio, da un servitore, da una cortigiana e da un bimbo di 4 anni, uno dei fanciulli esposti dello “Spedale di Santo Spirito” in Sassia.

Nel frattempo aveva avviato una relazione amorosa con Giulio Strozzi, nobiluomo veneziano e figlio illegittimo di Roberto, notissimo banchiere fiorentino. Il legame tra i due ragazzi è testimoniato dal Ritratto di Fillide che Giulio Strozzi commissionò a Caravaggio.

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Fillide nei quadri di Caravaggio (in senso orario) Ritratto di una cortigiana, Marta e maria Maddalena, Santa Caterina , Giuditta e Oloferne 

Fillide e Giulio vivono anni di agiatezza economica e tranquillità. Forse la ragazza raggiunse anche un poco di felicità. Tutto però cambiò nuovamente alla morte del padre di Giulio. Il ragazzo entrò in possesso di una cospicua eredità e i parenti, cercando di scongiurare il matrimonio tra Giulio e Fillide, decidono di rivolgersi al papa, Paolo V.
Nella primavera del 1612 si diffonde rapidamente la notizia che “all’improvviso d’ordine del Papa è stata presa una tal Fillide famosa cortigiana e mandata fuori Roma con ordine che non vi debba più tornare”. Dopo aver riparato ad Orvieto e Siena torna a Roma.
La tormentata esistenza di Fillide si concluse  a Roma il 3 luglio 1618 e fu seppellita, secondo le sue volontà, nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina.

Del ritratto che Caravaggio le dipinse un decennio prima, “Ritratto della  cortigiana Fillide”) su commissione di Giulio Strozzi, che la donna conservò sempre con cura ed affetto nella propria abitazione,  la stessa  ne dispose la restituzione al perduto amore della giovinezza.

Purtroppo il ritratto acquistato dal museo di Berlino dopo la dispersione della collezione Giustiniani, è bruciato nel rogo nella torre antiaerea che fungeva da deposito, nel maggio del 1945, quando Berlino era già capitolata.