Mese: Maggio 2020

Micol Fontana, la “grande dame” della moda italiana.

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Micol Fontana era e rimarrà, nell’immaginario collettivo, la signora della moda italiana lasciando dietro di sé un capitolo fondamentale della storia italiana, quella che ha messo insieme, durante anni gloriosi, creatività, artigianalità, economia e prestigio internazionale.

Tutto cominciò con lei, con loro: Micol, Zoe e Giovanna Fontana, tre sorelle cresciute nella sartoria della mamma, a Traversetolo, in provincia di Parma, e a un certo punto fuggite via, per tentare la fortuna, nel cuore di un’Italia dilaniata dalla guerra, poverissima e desiderosa di riscatto.

Era il 1943 quanto le tre giovani sartine salirono su un treno, giocandosi il loro colpo di dadi. Direzione: Roma. Milano no. “Troppo businesslike”, diceva Micol. A Roma si respirava un’aria diversa, intrisa d’arte, storia, qualità manifatturiera. Iniziarono con niente: un piccolo spazio in affitto, mobilio sgangherato, un salvadanaio per gli spiccioli e in principio solo riparazioni: rammendare, pazientemente, nell’attesa di conquistarsi sufficiente fiducia e di poter investire nell’acquisto dei tessuti.

 

Le tre sorelle Fontana: da sx Zoe, Micol, Giovanna

                             Le tre sorelle Fontana: da sx Zoe, Micol, Giovanna

La prima cliente importante fu Gioia Marconi, la figlia di Guglielmo Marconi. E poi via via, grazie al passaparola e a un innegabile talento, divennero delle habituè le dame dell’aristocrazia romana, le attrici di Cinecittà, le dive e le signore dell’alta società internazionale: da Jacqueline Kennedy a Grace di Monaco, da Elizabeth Taylor a Audrey Hepburn, da Ursula Andress a Ava Gardner, fino a una giovanissima Linda Christian, promessa sposa di Tyrone Power, a cui l’atelier Fontana confezionò l’abito di nozze nel 1949. Un successo esploso all’improvviso, dal nulla, come la più bella delle favole, tra la provincia minuta e il grande palcoscenico della Capitale.

Micol Fontana con Ava Gardener

Micol Fontana con Ava Gardner

Nel giro di pochi anni le sorelle Fontana incarnarono il mito del made in Italy, costruendone carattere e narrazione nel circuito della haute coture: nel loro atelier d’avanguardia ogni cosa nasceva dal lavoro manuale. Perizia tecnica, tessuti italiani di pregio, stile, maestria dei tagli e minuzia nel ricamo, classicità e sperimentazione.

Negli anni Cinquanta, quando il prêt-à-porter aveva già trovato terreno fertile fra le piazze francesi e americane, anche l’Italia si adeguava al nuovo trend: accanto all’alta moda, che sfornava confezioni di altissimo valore, rigorosamente su misura e indubbiamente costose, nascevano la Moda boutique e l’Alta Moda pronta.
Nulla, certamente, che potesse lasciare presagire il futuro boom industriale, le grandi catene fashion e i mercati globali: la dimensione era ancora quella della sartoria di classe, ma riuscendo a ridurre costi e tempi grazie a produzioni più veloci, piccole serie ispirate a pezzi unici, dettagli semplificati, tessuti più economici.

La moda usciva dai salotti dell’high society e conquistava anche la piccola e media borghesia. Le sorelle Fontana, manco a dirlo, in Italia, furono a capo di questa straordinaria rivoluzione.

1952 - Bozzetto per l’abito da sposa Donna Gioia Marconi Braga - courtesy Fondazione Micol Fontana, Roma

1952 – Bozzetto per l’abito da sposa Donna Gioia Marconi Braga – Fondazione Micol Fontana, Roma

Io credo che noi Italiani non sappiamo dare il valore che abbiamo nelle nostre mani”, diceva Micol in una video-intervista. “Il valore dell’artigianato italiano è unico”.

Lei, che nel 1994 aveva istituto la Fondazione che porta il suo nome, conservandovi cimeli, abiti, accessori d’epoca, e usandola come strumento di formazione per le nuove generazioni, difese per tutta la vita la meraviglia e la semplicità di una vocazione: ripartire dal talento, dalla spinta intuitiva, dalla misura dello stile, dal guizzo generoso che accende l’occhio e orienta le mani; ripartire dalla manifattura come radice nobile e orizzonte umile, alimentando l’urgenza d’innovazione. Ma sempre all’ombra di una tradizione monumentale, custodita con rispetto.

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Jacqueline Kennedy, 1966

Così, Micol Fontana e le sue sorelle hanno conquistato il mondo, trasformando il proprio nome nel simbolo di un’eccellenza nazionale. Identità, internazionalità, sapienza artigianale e ricerca: una ricetta preziosa, un patrimonio immenso. Le fondamenta del made in Italy, per sempre incise nel volto luminoso e fiero della signora Micol.

L‘eleganza fatta di raffinatezza e di qualcosa di indefinibile, ma che si vede, si nota, si ammira, e che rende le donne più belle e più sicure. (Micol Fontana)

 

Invisibili. Come vivere da donne in un mondo a misura d’uomo.

“Gli uomini si danno per scontati. Delle donne non si parla nemmeno”.

La scrittrice e attivista Caroline Criado Perez lo scrive in un libro che in UK, dove è uscito, ha già venduto 250 mila copie, è in traduzione in 23 lingue e in Italia è uscito per Einaudi.

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Si intitola, guarda caso, Invisibili. Perché è così che le donne sono in una lunghissima serie di casi. Le donne guadagnano meno degli uomini a parità di lavoro, e questo lo sappiamo. Ma perché le file ai bagni delle donne sono sempre più lunghe? Perché in caso di incidente stradale le cinture di sicurezza hanno più probabilità di salvare un uomo rispetto a una donna?

Perché, sostiene Criado Perez, il mondo è pensato dagli uomini e per gli uomini. Le donne non vengono nemmeno prese in considerazione in una infinita serie di casi. Nonostante siano la maggioranza degli esseri viventi.

Il mondo in cui viviamo è un mondo ‘al maschile ove non altrimenti indicato‘. E vederlo spiegato così, nero su bianco, e corroborato da una serie di dati fa una certa impressione. E la parola uomo comprende troppo spesso – e a torto – anche le donne.

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Per cambiare le cose bisogna combattere e, talvolta, esporsi al pubblico ludibrio. Come fece nel 2017 Dany Cotton, la prima comandante donna dei pompieri di Londra, che suggerì di cambiare la parola fireman con firefighter. La povera Cotton fu sbeffeggiata a lungo, ma ora la parola firefighter è diventata di linguaggio comune.
Andando avanti con la lettura si scopre che le strade sono costruite pensando agli uomini (che di solito hanno l’appannaggio dell’auto più grossa o dell’unica auto in famiglia) mentre le donne usano di più i mezzi pubblici in tutti i Paesi presi in considerazione.

Eppure i mezzi pubblici non sono affatto pensati per la sicurezza delle donne. Per non parlare delle toilettes. La quantità di metri quadri destinata ai bagni maschili e femminili è sempre uguale, mentre sappiamo che le donne hanno bisogno di più tempo per espletare le proprie funzioni (fino a 2,3 volte di più) e spesso sono loro che accompagnano un bambino o un disabile.
L’elenco – un elenco lungo, preciso, punteggiato di dati, frutto di una ricerca attentissima – prosegue con i luoghi di lavoro, l’anticamera del medico e molto altro.
Invisibili è una lettura che potrebbe aprire gli occhi a tanti uomini, se avessero la pazienza di leggerlo.

Quanto alle donne, mi auguro che seguano il consiglio che Caroline Criado Perez mette nella dedica del libro: Siate sempre maledettamente difficili.


Informazioni sull’autrice: Femminista, attivista, scrittrice e giornalista britannica nata in Brasile, Caroline Criado Perez ha lanciato come prima campagna nazionale il progetto Women’s Room, che chiedeva una rappresentazione femminile migliore nel mondo dei media. Il suo libro del 2019 Invisible Women: Exposing Data Bias in a World Designed for Men è stato un bestseller per il Sunday Times.

 

Francesca Morvillo, l’eroina dell’antimafia che rischia l’oblio!

Non è facile parlare di Francesca Morvillo, da sempre descritta dai media come “la moglie di” Giovanni Falcone, la donna sulla cui esistenza c’è sempre stato un grande riserbo, anche da parte del magistrato antimafia, probabilmente come forma di protezione nei confronti della persona amata.

 

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Figlia di un sostituto procuratore e sorella di un magistrato, si laurea a pieni voti a soli ventidue anni, all’Università degli Studi di Palermo. Solo in tre esami  ottiene trenta, tutti gli altri sono con la lode.

Credo che avesse una mente sottile e un linguaggio giuridico perfetto, perché  certi risultati nelle discipline giuridiche non si raggiungono senza uno “studio matto e disperatissimo”, a dispetto di chi, non conoscendolo,  ancora sostiene che il diritto è solo studio a memoria (sic).  Morvillo riceverà il “Premio Maggiore” per la migliore tesi di laurea dell’anno in discipline penalistiche.
“Stato di diritto e misure di sicurezza” è il titolo del suo lavoro, da cui si intuisce l’interesse di Francesca per uno dei più bei concetti delle nostre materie, quello dello Stato di diritto contemplato.

Dopo la laurea prepara il concorso in magistratura, settore nel quale l’accesso alle donne è consentito solo dal 1963, con quindici anni di ritardo dall’affermazione rivoluzionaria della “piena uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso”, proclamata dalla carta costituzionale. Anche da tale scelta si evince lo spirito coraggioso e di sfida ai luoghi comuni di questa donna mite e determinata, oltre che preparatissima.
Mentre studia per il concorso, insegna all’Istituto penitenziario per i minorenni di Palermo, il Malaspina. Secondo una delle poche testimonianze che la ricordano, quella della sua amica e collega Maria Grazia Ambrosini, ex Presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo: «Aveva un innato trasporto per i giovani. Questo sentimento le consentì una comprensione più profonda della loro personalità, delle problematiche che li investivano e quindi della ricerca delle modalità più idonee per aiutarli a superare i periodi di crisi. Aveva l’esigenza di restituire a ciascun ragazzo la dignità che è propria di ogni essere umano». Vinto il concorso in magistratura, diventa giudice presso il Tribunale di Agrigento, poi Sostituta procuratrice presso il Tribunale per i minorenni di Palermo, poi consigliera di Corte d’appello. Sempre secondo Maria Grazia Ambrosini: «(Francesca) aveva una grande dote che dovrebbe essere essenziale in un magistrato, l’umiltà, e il profondo rispetto per i diritti degli altri, per la dignità che vedeva in ogni essere umano con cui entrava in contatto, dal più umile al più autorevole, dal più misero al più degno di considerazione». Morvillo sarà anche docente di Legislativa del minore presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, nella scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Palermo.

Chissà quali saranno stati i commenti all’ingresso di Francesca nei Palazzi di giustizia che ha frequentato, nella migliore delle ipotesi paternalistici, se non addirittura ironici o irridenti. Solo pochi anni prima Giovanni Leone, Costituente e principe del foro, futuro Presidente della Repubblica, aveva affermato, nella seduta dell’Assemblea Costituente del 14 novembre 1947, «Ma alle più alte Magistrature, dove occorre resistere e reagire all’eccesso di apporti sentimentali, dove occorre invece distillare il massimo di tecnicità, penso che la donna non debba essere ammessa; perché solo gli uomini possono avere quel grado di equilibrio e di preparazione necessaria per tale funzione». La storia lo avrebbe smentito clamorosamente, perché dal 1963 le vincitrici di concorso sono continuamente aumentate e dal 2015 c’è stato il sorpasso sugli uomini. Oggi il 63% dei vincitori di concorso in Magistratura è rappresentato da donne.
Morvillo si sposa ma il suo matrimonio non è felice e quando, nel 1979, a casa di amici, conosce Giovanni Falcone, anche lui in crisi nel suo rapporto coniugale, le due anime si riconoscono ed inizia una storia d’amore semiclandestina, mal sopportata inizialmente dalla famiglia Morvillo.

Falcone è arrivato a Palermo da un anno, chiamato da Rocco Chinnici, dopo l’assassinio del giudice Terranova e del suo agente di scorta Lenin Mancuso, nel 1978. La mattanza palermitana continuerà con l’uccisione del segretario regionale della Dc Michele Reina e del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano. Uno a uno cadranno sotto i colpi dei mitra o delle bombe il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello del nostro Presidente della Repubblica, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il Procuratore di Palermo Gaetano Costa (1980), il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro (1982), il capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia (1983), il commissario Beppe Montana, il dirigente della squadra investigativa di Palermo Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia (1985), l’ex sindaco Dc di Palermo Giuseppe Insalaco, il giudice Antonino Saetta (1988). Insieme a questi saranno uccisi tanti uomini delle forze dell’ordine e ignari passanti.

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Gioconda Belli, “Donne che non si pentono di niente”.

 

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Pablo Picasso,  Girl before a Mirror, Paris, 1932

Dalla donna che sono
mi succede a volte di osservare
nelle altre le donne che potevo essere;
donne garbate
esempio di virtù
laboriose brave mogli,
come mia madre avrebbe voluto.
Non so perché
tutta la vita ho trascorso a ribellarmi
a loro.
Odio le loro minacce sul mio corpo
la colpa che le loro vite impeccabili,
per strano maleficio
mi ispirano;
mi ribello contro le loro buone azioni,
contro i pianti notturni sotto il cuscino
di nascosto dal marito,
contro la loro vergogna della nudità sotto la biancheria intima
stirata e inamidata.
Queste donne, tuttavia,
mi guardano dal fondo dei loro specchi;
alzano un dito accusatore
e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo
e vorrei guadagnarmi il consenso universale,
essere la “ brava bambina”, la “donna per bene”
la gioconda irreprensibile,
prendere dieci in condotta
dal partito, dallo Stato, dagli amici,
dalla famiglia, dai figli e da tutti gli altri esseri
che popolano abbondantemente questo mondo.
In questa contraddizione inevitabile
tra quel che doveva essere e quel che è,
ho combattuto numerose battaglie mortali,
battaglie inutili, loro contro di me
– loro contro di me che sono me stessa –
Con la “psiche dolorante”, scarmigliata,
trasgredendo progetti ancestrali
lacero le donne che vivono in me
che, fin dall’infanzia, mi guardano torvo
perché non rientro nello stampo perfetto
dei loro sogni
perché oso essere quella folle, inattendibile,
tenera e vulnerabile,
che si innamora come una triste puttana
di cause giuste, di uomini belli e di parole
giocose
perché, da adulta, ho osato vivere l’infanzia
proibita

e ho fatto l’amore sulle scrivanie nelle ore
d’ufficio
e ho rotto vincoli inviolabili e ho osato godere
del corpo sano e sinuoso di cui i geni di tutti
i miei avi mi hanno dotata.
Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.
Non mi pento di niente, come disse Edith Pia£.
Ma nei pozzi oscuri in cui sprofondo;
al mattino, appena apro gli occhi
sento le lacrime che premono,
nonostante la felicità
che ho finalmente conquistato
rompendo cappe e strati di roccia terziaria
e quaternaria,
vedo le altre donne che sono in me, sedute nel
vestibolo
che mi guardano con occhi dolenti
che brandiscono condanne contro la mia felicità.!
Assurde brave bambine
mi circondano e danzano musiche infantili
contro di me;
contro questa donna
fatta
piena
la donna dal seno sodo
e i fianchi larghi
che, per mia madre e contro di lei,
mi piace essere.

Gioconda Belli

Note biografiche

Gioconda Belli (Managua, Nicaragua, 1948) è autrice di opere di riconosciuto prestigio internazionale, per le quali ha ricevuto il premio Mariano Fiallos Gil, il premio Casa de las Américas, il premio internazionale di generazione del ’27 e il premio internazionale Ciudad de Melilla.

Il suo primo romanzo, The Inhabited Woman (1988), è stato tradotto in undici lingue con enorme successo, soprattutto in Italia e in Germania, dove ha superato il milione di lettori in venticinque edizioni e ha vinto il premio per bibliotecari, redattori e librai per il romanzo politico del 1989 e il premio Anna Seghers dell’Accademia delle arti. È anche autrice dei romanzi Sofía de los presagios (1990), Waslala (1996; Seix Barral, 2006) e El pergamino de la sedución (Seix Barral, 2005), e El País bajo mi piel (2001), le sue memorie durante il periodo sandinista.

“Donne senza uomini” di Shahrnush Parsipur.

“In Iran i tradizionalisti pensano alla donna come essere senza pulsioni sessuali. Sono necessarie solo come contenitore per le gravidanze e non svolgono alcun ruolo nella creazione stessa dei figli. Una donna che mostra desideri sessuali è considerata una prostituta e quindi sono costrette a nascondere la loro attrazione verso gli uomini e il sesso”.

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Voglio parlare di un libro che iniziato a leggere con titubanza mi ha poi folgorato.

Sono rimasta spiazzata a leggere alcune pagine di questo romanzo, nonostante il tema non leggero, la lettura scorre in maniera gradevole e induce a riflettere.

È il racconto di diverse donne, ciascuna con la propria storia, ciascuna che cerca in qualche modo di soddisfare i propri desideri.

Alcuni sono desideri semplici, come la voglia di matrimonio, poi ci sono desideri vissuti come fardelli: sopravvivere alla propria verginità o al fratello che ha la facoltà di ucciderti se solo la sera rientri tardi.

Nel romanzo le storie di queste donne diverse tra loro s’intrecciano tra loro, come s’intrecciano i temi riguardanti sessualità, famiglia, femminilità, tradizioni e voglia di andare oltre. La loro voglia d’indipendenza si scontra con il muro dell’intolleranza degli uomini. A causa dei temi che ha trattato, i libri di Shahrnush Parsipur, in Iran, sono stati banditi. Alcuni si trovano nel mercato nero, come Memorie dalla prigione che ha così venduto circa un milione di copie.

L’autrice ha lottato con coraggio per richiamare l’attenzione sulla voglia d’indipendenza delle donne iraniane, prendendo la parola in un mondo dove la parola appartiene solo agli uomini e dove le donne in silenzio devono solo cucinare e fare figli.

«Shahrnush Parsipur assegna dei ruoli ai suoi personaggi femminili che le donne effettivamente hanno nella vita reale, allo scopo di richiamare l’attenzione verso quella quotidiana oppressione delle donne e per far riflettere, ironicamente, sulle altre condizioni sociali nelle quali il suo romanzo è stato elaborato e che, alla fine, l’hanno condotta al carcere.

Tuttavia i suoi personaggi fuggono da questi ruoli restrittivi, evidenziando il contrasto tra la loro situazione iniziale e una vita più appagante. Una simile retorica contesta l’ideologia e le ambizioni dello Stato, attraverso gli incontestabili ritratti dell’agonia di coloro che vivono sotto una forma di supremazia maschile istituzionalizzata.»

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Niki de Saint Phalle: la vita dell’artista delle “nana”

«Gli uomini sono molto inventivi. Hanno inventato tutte queste macchine e l’era industriale, ma non hanno nessuna idea di come migliorare il mondo».
(Niki de Saint Phalle)

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Niki de Saint Phalle ha tutto per riuscire. Suo padre è un uomo d’affari francese, sua madre è una ereditiera americana dalla bellezza perfetta. Vivono a New York d’inverno e in Francia d’estate, per prendere il meglio dei due mondi. È nel castello dei nonni paterni – pieno di armature, quadri, vecchi zii eccentrici che girano nudi per il parco e vecchie zie suonate che leggono le carte e i tarocchi – che nasce il suo gusto per il meraviglioso e la fiaba. Niki è una bambina bella e piena di fantasia, ama la natura, adora passare il tempo con la servitù e fugge la madre tutta presa dai suoi impegni mondani. Non sa ancora cosa sarà ma sa che non diventerà una bella ragazza da sposare a un uomo ricco. Nel diario scrive: “Corri per salvarti la vita! Dove? Lontano! Molto lontano!”.

Niki  sente presto che il suo futuro è a Parigi.  Appena può passa le vacanze a casa di zia Hélène, ricca e bohémienne, che alleva i suoi nove figli in un allegro disordine. Nell’attesa di scappare oltre Atlantico, Niki posa come modella per Vogue e Harper’s Bazaar e sogna di diventare attrice. Quando trova una testa matta come lei – Harry Mathews, rampollo di genitori ricchi destinato a diventare avvocato, anche se passa il tempo a scrivere poesie – capisce che ha trovato un perfetto compagno di evasione. Ha 17 anni, lui solo uno di più. Lo sposa in municipio, di nascosto dai genitori, e l’anno dopo mette al mondo la sua prima figlia, Laura, che adora ma che non sa neanche tenere in braccio nel modo giusto. Per fortuna Harry mostra uno spiccato senso paterno, che salverà la situazione, per Laura e per Philip, arrivato qualche anno dopo.

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Con i soldi ricevuti in regalo dalla nonna di Harry, nel 1952 si trasferiscono a Parigi. Niki fa servizi fotografici per Vogue ed Elle; Harry scrive poesie e vivono di rendita. Niki combatte sempre contro il suo trauma infantile, che non ha confidato neanche al marito. Quando Harry scopre il suo arsenale nascosto sotto il letto, la convince a farsi curare. Niki resta quasi due mesi in un ospedale, subisce una serie di elettroshock e una cura all’insulina ed è  in questa occasione riemerge la vicenda degli abusi paterni subiti da adolescente.. Per non impazzire, chiusa nell’ospedale psichiatrico, Niki incolla, pasticcia, disegna, fa collage con tutto quello che trova. Quando torna a casa ha trovato la sua strada: sarà un’artista. Non studia, incapace di seguire qualsiasi maestro, ma gira per Parigi guardando: «La mia scuola sono stati i musei e le cattedrali ». Comincia con quadri collage, creando già da allora un’arte originale. La donna è sempre al centro del quadro, prima oggetto poi soggetto. Infine, Nana in corsa per il mondo per diffondere il “Nana Power”.

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Harry è un buon marito, ma non le basta. Niki lo capisce quando incontra Jean Tinguely, un artista svizzero posseduto come lei dal fuoco della creazione. Ha inventato le sculture cinetiche, è un esperto di saldature e meccaniche e fin dal primo sguardo è totalmente innamorato di Niki e convinto del suo genio. Grazie a Jean, Niki scopre la dimensione della scultura. Nel 1957 si separa di comune accordo da Harry, che continua a occuparsi dei figli, e va a vivere con Jean. È il 1960 e l’inizio di una intensa unione sentimentale e artistica. Lei lo chiama “mio amore, mio compagno, mio rivale”. Lui la definisce la più grande scultrice di tutti i tempi: «Niki è un mostro sacro, una calamità naturale. Ha una energia colossale e sa come usarla». Niki  non ha paura di niente.

Un giorno, per liberarsi dall’ossessione per un uomo che l’attira troppo, ruba una sua camicia, la appende in un quadro, mette un bersaglio al posto della testa e si diverte a colpirlo con le freccette. «Era un quadro vudu, un esorcismo», dirà. Chiede a Jean di procurarle un fucile e realizza delle grandi installazioni tra quadro e scultura, con sacchetti di colori e di sostanze diverse (uova, succo di pomodoro, spaghetti), che lei fa esplodere tirando con un fucile.

 

È il 1961 e il mondo dell’arte comincia a capire che quella bella ragazza ha qualcosa da dire. Nessuno sa da dove nasce la violenza che esprime, e neppure il gesto trasgressivo che la salva. Un gallerista di Parigi organizza una mostra dove il pubblico può a sua volta sparare sui quadri. Poi è una galleria di New York a invitarla in America, dove l’energia della scena artistica è perfetta per questa scultrice atipica, che nasconde i suoi demoni dentro un’idea di arte trasgressiva e piena di vita, che è già parte del movimento di liberazione della donna. Anni dopo Niki dirà: «Nel 1961 ho sparato su mio papà, su tutti gli uomini, sui piccoli, sui grandi, sugli importanti, sui grossi, su mio fratello, la società, la chiesa, il convento, la scuola, la mia famiglia, tutti gli uomini, ancora su mio papà, su me stessa».

Quando non sono in viaggio per le loro esposizioni, lei e Jean vivono in un albergo abbandonato nella campagna a sud di Parigi, che Jean ha risistemato da solo in modo creativo, abbattendo muri e allargando finestre in pieno inverno, mentre Niki strillava minacciando di emigrare in America del Sud. Ognuno ha il suo spazio per creare. È qui che Niki, partendo dal profilo della moglie incinta disegnata da un amico artista, che lei vuole assolutamente riempire di immagini colorate, crea le prime delle sue tante Nana, che le danno la fama globale.

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Emma Goldman, una anarchica e una femminista molto speciale!

 

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Nacque figlia indesiderata, Emma Goldman (soprannominata Emma la Rossa), il 27 giugno 1869, nell’impero russo, in una modesta famiglia ebrea. Il padre voleva un erede maschio. La donna che aveva sposato, una vedova con due figlie, non gradì la terza. Emma crebbe con le percosse dei genitori, il  padre aveva “sempre a portata di mano la frusta e lo sgabello, simboli della mia vergogna e della mia tragedia” ricorderà nelle sue memorie (Autobiografia. Vivendo la mia vita, ).

Per l’esperienza della sua infanzia, non volle avere figli. Si sposò più volte, ebbe vari amanti, ai quali si unì con passione, ma subordinò sempre l’amore personale all’amore universale per l’umanità reietta, asservita alle classi dominanti.

Dedicò tutta la sua esistenza  alla lotta per la liberazione del proletariato, per l’emancipazione della donna, per una società senza classi dominanti. Ma osteggiò il fanatismo, disprezzò il conformismo, condannò il terrorismo, anche quando avevano abiti rivoluzionari.

Oltre alla propaganda legata all’ideale anarchico Emma Goldman tenne varie conferenze a sostegno della causa femminista: sull’emancipazione della donna, sulla libertà di pensiero e sulla libertà sessuale, sull’uso dei contraccettivi e il controllo delle nascite.

Sosteneva che le donne dovessero avere pieno controllo del proprio corpo e non solo decidere quanti figli avere, ma anche ritenere se averne o meno, poiché non credeva che lo scopo della donna fosse necessariamente quello di diventare madre.

Scrisse cinque saggi dedicati alla questione femminile: al tema del suffragio, della prostituzione, del matrimonio, della sessualità e dell’amore. Le sue idee femministe apparvero alle autorità più pericolose delle sue convinzioni rivoluzionarie e anarchiche.

Aveva dodici anni quando la famiglia si trasferì a San Pietroburgo. Il padre ostacolò la passione di Emma per lo studio, perché sosteneva che la donna dovesse solo servire il marito e dargli dei figli. Ma un altro modello di donna fu rivelato all’adolescente Emma dal romanzo Che fare? del populista Nikolaj Cernyševskij, dove la protagonista si ribella al matrimonio imposto dalla famiglia, e sposa un giovane rivoluzionario, per votarsi con lui alla liberazione del popolo.

Nello stesso periodo, il romanzo di Cernyševskij impressionò profondamente Vladimir Il’ič Ul’janov, di un anno più giovane di Emma, l’adolescente figlio di un “nobile” nel 1902, con lo pseudonimo di Lenin, Vladimir intitolò Che fare? un opuscolo dove esponeva la concezione, remotissima dall’anarchia, di partito di avanguardia, formato da rivoluzionari di professione, totalmente dediti alla causa della rivoluzione proletaria.

Se singolare fu la comune suggestione del romanzo su un giovane “nobile” e su una derelitta fanciulla ebrea, ancora più singolare fu la simultaneità della loro iniziazione alla militanza rivoluzionaria.

Per Vladimir, cresciuto in una famiglia agiata e devota allo zar, con genitori severi ma amorevoli, studente modello per disciplina e brillanti successi scolastici, la scelta rivoluzionaria avvenne inattesa e improvvisa alla fine del 1887, a diciassette anni, dopo l’impiccagione del fratello Alessandro perché aveva organizzato un attentato alla vita dello zar.

Per Emma, angariata dai genitori, senza adeguata istruzione, cresciuta in un ambiente antisemita, a quindici anni operaia in fabbrica, la vocazione rivoluzionaria avvenne in seguito alla impiccagione di cinque anarchici a Chicago nel novembre 1887.

Dopo aver lavorato in fabbrica a San Pietroburgo, nel gennaio 1886 Emma raggiunse una sorella emigrata negli Stati Uniti. Lavorava come operaia, quando, in quello stesso anno, furono condannati a morte giovani anarchici, accusati di aver assassinato alcuni poliziotti durante una dimostrazione.

La diciassettenne operaia seguì appassionatamente il processo, che definirà «la più gigantesca macchinazione di tutta la storia degli Stati Uniti». Il 15 agosto 1889, si trasferì a New York. Qui avvenne l’incontro con un diciottenne anarchico russo, Aleksandr Berkaman, e con il quarantenne tedesco Johann Most, uno dei maggiori esponenti dell’anarchismo negli Stati Uniti. Fu, scriverà Emma, la sua «vera data di nascita». A vent’ anni divenne rivoluzionaria nel movimento anarchico internazionalista.

Dotata di talento oratorio, iniziò a viaggiare per gli Stati Uniti per fare comizi e conferenze. Cominciò a scrivere articoli su periodici anarchici. Fu arrestata nel 1893 per incitamento alla sommossa, ma gettò un bicchiere d’acqua in faccia al poliziotto che le prometteva la libertà in cambio di informazioni sugli anarchici.

Si immerse nello studio del pensiero anarchico, del socialismo, della filosofia, dell’economia, della questione sociale, della condizione della donna. Dal 1895 fu in Europa, dove incontrò i patriarchi e le matriarche dell’anarchismo, come Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta e la comunarda Louise Michel. A Vienna scoprì il pensiero di Nietszche, che divenne una sua passione intellettuale, e seguì le lezioni di Sigmund Freud sulla repressione sessuale.

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La Disubbidienza…

Oriana Fallaci è stata una giornalista, ma soprattutto una donna, dal carattere fiero e indomito.

95614166_1510021229171344_880126918794412032_nDai suoi scritti traspare un’arguzia sottile e una determinazione che l’hanno sempre caratterizzata.

Lei stessa si definiva una ribelle. “Sono una donna disobbediente, insofferente a qualsiasi imposizione”. E lo dimostrò più volte, nel corso della carriera così come nella vita.

Con il suo occhio straordinariamente critico, Oriana Fallaci è stata una figura di gran rilievo sulla scena culturale italiana. Una persona che non ha mai ritirato la mano dopo aver lanciato il sasso. Ma anche un’osservatrice lucida, a volte implacabile, nella rabbia come negli slanci di passione.

E soprattutto una donna straordinaria che merita di essere ricordata. Per la sua vita, la sua carriera professionale, ma anche per l’impatto che ha avuto (e ha tutt’oggi) sui media e sulla società.

“La paura è un peccato”: citazioni dalle lettere di Oriana Fallaci

Io non sono un venditore di parole. Sono un venditore di idee che paga sempre per le sue idee, giuste o sbagliate. E quando gli stupidi hanno paura di me e non vogliono essere intervistati da me io rispondo: «Non hanno paura di me. Hanno paura della verità». Essere giornalista per me significa essere disubbidiente. Ed essere disubbidiente per me significa, tra l’altro, stare all’opposizione. Per stare all’opposizione bisogna dire la verità E la verità è sempre il contrario di ciò  che ci viene raccontato. La storia si scrive sulla verità e non sulle leggende.

” Il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza “ Oriana Fallaci.

Alla luce degli ultimi avvenimenti politici le parole di Oriana Fallaci sono più che mai veritiere. Per stare all’opposizione bisogna dire la verità, ma non sempre è così! L’abbiamo visto, ieri, al Parlamento… uno spettacolo miserevole!