Mese: febbraio 2016

Ma chi c’é dietro una donna forte?

Ho trovato una bella riflessione. Mi è piaciuta, la trascrivo qui.

Linda

Dietro ogni uomo forte c’è una donna forte. Ma chi c’è dietro una donna forte? Nessuno lo sa.. perché la donna forte non ti permette di guardare dentro di lei..
Lei prende vita tutte le mattine quando prende la sua maschera e quando nasconde i suoi sogni dentro la sua anima; come una Geisha, disegna il suo sorriso e caccia la tristezza dal suo sguardo. Non si specchia più di cinque minuti per paura  di scoprire le sue debolezze sepolte nel profondo della sua anima. Spesso non piange, le sue lacrime nascono dentro l’anima e muoiono sempre là, non sul suo viso. Cammina sicura di sé lasciando dietro di sé la scia del suo profumo e le tracce dei suoi passi.. E se per caso, crolla.. si rialzerà da sola.

L’anima di una donna prende fuoco in silenzio.. Amala e non chiederle niente perché i suoi occhi ti diranno se ti ama.. La donna forte indossa una maschera ogni giorno e un solo uomo può vederla senza. Quell’ uomo incornicerà il suo viso e amerà il suo sguardo, a volte, confuso, e chiuderà gli occhi per poter mantenere la sua immagine per sempre. La donna forte amerà in silenzio e soffrirà sempre in silenzio, nascondendo la sua tristezza sotto una maschera con un bel sorriso.

La donna forte ha il coraggio di aprire una porta vietata. Non negozierà mai con la vita e non regalerà l’anima ferita in cambio del potere, ma continuerà a disegnare sorrisi sul suo viso fino a quando troverà la medicina perfetta. Le donne forti, amale senza maschere, condivideranno con te la loro forza.

(Ionela Craciun, “La donna forte”)

Chi è Eva…

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Eva sono io. E’ ognuna di noi. E’ mia madre, irraggiungibile, anche se vicina e discreta come ogni madre dovrebbe essere.

Eva è l’idea che ogni donna si crea di se stessa… nel bene e nel male vivendo coraggiosamente.

E’ la mia dedica personale a ogni donna che lotta giorno dopo giorno in nome dell’amore, perché questo conoscono le donne.

Ciò contro l’ostinazione di ogni sopruso di cui sono vittime e di ogni altra forma di retorica morale.

L’altro frutto di Eva sono le emozioni e le parole di madri, figlie, sorelle, amiche che affrontano l’esistenza, intimamente più forti.

Sonia Tri

 

 

 

Joyce Lussu, grande scrittrice e grande donna

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(Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti), più nota con il nome da sposata di Joyce Lussu.

Moglie di Emilio Lussu (Firenze, 8 maggio 1912 – Roma, 4 novembre 1998) è stata una scrittrice, traduttrice e partigiana italiana, medaglia d’argento al valor militare.

“Mi sono innestata alla Sardegna e da allora siamo cresciuti insieme” .

La Lussu arrivò in Sardegna nel 1944 e nel suo spostarsi nell’isola incontra donne che, pur vissute in totale isolamento da ogni cultura e prive di strumenti moderni, “avevano maturità, saggezza e un forte senso di identità … una robusta dignità personale e una laicità che escludeva l’assuefazione al servilismo”.

Nel suo lavoro politico aveva occhio soprattutto al mondo delle donne , che bisognava far uscire dalle loro cucine, dal ruolo di casalinghe .

Durante gli incontri, quando Joyce andava per paese e paese, nelle sezioni dei partiti, chiedeva: “Dove sono le vostre mogli? Andate a casa e fate venire anche loro”.

Dedicherà una parte fondamentale della sua forte carica vitale al rapporto con i giovani, nell’ipotesi di un futuro di pace, da costruire con impegno costante e conoscenze adeguate del passato, degli errori, delle violenze e delle ingiustizie che non dovevano ripetersi.

Conserverà una certa diffidenza nei confronti delle istituzioni e delle persone che le rappresentano, riporrà però fiducia ed apertura verso le nuove generazioni.

Matilde Serao e il suo amore per il giornalismo

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Quando ancora Lilly Gruber o la  Milena Gabanelli erano ben lungi dal comparire sulla scena del giornalismo italiano, all’epoca in cui le redazioni erano luoghi per soli maschi, una donna dal piglio sicuro si faceva strada tra i fiumi di inchiostro grazie alla sua passione per la scrittura e l’informazione.

Mentre le sue colleghe imperversavano su riviste femministe e discutevano animatamente sul futuro della donna, lei, semplicemente, metteva in pratica.

Matilde Serao non era mai stata una femminista e, anzi, criticava le idee di indipendenza delle sue colleghe scrittrici, prima fra tutte la amata poetessa Sibilla Aleramo. Paradossalmente, lei contraria, diverrà un’icona di femminismo per le generazioni a venire.

Matilde intraprese la sua carriera sin da  bambina, quando, dopo  la scuola, correva a fare i compiti nella redazione giornalistica del padre: l’odore delle idee si mescolava a quello della carta, giorno dopo giorno entrando nel piccolo mondo della Serao in miniatura.

Il colpo di penna che la rese famosa fu la creazione e la conduzione della rubrica Api, Mosconi e Vespe diventata Mosconi su il Mattino, che trattava storie di vita mondana e non, tratteggiando bozzetti sferzanti sulla vita cittadina.

Collaborò a il Giornaleil Corriere del MattinoCapitan Fracassail Fanfulla della Domenica e la Domenica Letteraria, ma la vera svolta venne nella redazione del Corriere di Roma.

Qui, Matilde conobbe Edoardo Scarfoglio, che precedentemente denigrando il lavoro letterario della Serao, fatto di novelle e racconti, e la sua personalità giornalistica, che tentava di tenere il passo di una redazione di soli uomini, pensò bene di sposarla. La vecchia storia del chi disprezza compra.

I due ebbero quattro figli, tutti futuri giornalisti, e fondarono insieme il Mattino.

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Purtroppo il matrimonio finì a causa dei continui viaggi per reportage e scappatelle di Scarfoglio. Era il 1904 e la Serao, estromessa ormai anche dal Mattino per questioni pubbliche oltre che private, decise di riprendersi la sua vita. Era il 1904 e, prima donna a farlo, fondò una testata giornalistica di cui divenne direttrice. Si trattava de Il Giorno, che diede sempre filo da torcere alla testata giornalistica dell’ex marito. Altro che poesiole e lacrime!

Complice l’amato padre e la sua vita in redazione, la Serao passò il resto dei suoi giorni con penna e calamaio, riuscendo comunque a ritrovare l’amore.

Ma la Serao non fu solo giornalismo: da buona intellettuale qual era, la sua penna vergò molte opere, tra cui il famosissimo Ventre di Napoli, 1884, in cui descrisse per la prima volta le condizioni reali della popolazione napoletana, allora vittima dell’epidemia di colera.

Candidata al Nobel per la letteratura, per problemi con il regime fascista non l’ottenne, mentre fu dato alla scrittrice Grazia Deledda.

La storia di una donna in evoluzione che cresce grazie e con la scrittura, tramite la ricerca della verità e l’informazione.

Un esempio per chiunque, non solo donne.

Morì intenta a scrivere il suo ultimo pezzo, leggenda dice. Noi ci crediamo: fa sempre bene credere in qualcosa di positivo e la Serao è ormai simbolo di quella forza che dimostra quanto una vita a rincorrere le passioni, sebbene gli ostacoli siano molti e di diversa entità, paghi sempre.

Le Suffragette…e la storia di Edith Garrud!

Il 3 marzo prossimo uscirà al cinema Suffragette. Un film che racconta le imprese delle donne inglesi che, a inizio secolo scorso, hanno lottato e fatto la storia perché fossero riconosciuti i loro diritti, in campo economico, civile, giuridico e soprattutto politico, in primis il diritto al voto.

Da un punto di vista diverso però, non come la storia ce l’ha fino ad ora raccontato, e cioè di  donne pacifiche, manifestanti, e sfilate di cartelli. No, le suffragette hanno fatto ben altro e se consideriamo l’epoca in cui si sono svolti i fatti, tutto ciò assume un aspetto straordinario.

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Ma d’altronde la censura al giornalismo non permetteva la trasmissione dei fatti così come avvenivano, anzi ne sminuiva le azioni fino a distorcere completamente la realtà. Ci si è affidati agli archivi, alle lettere, ai diari privati. E sono così giunte a noi storie di lotta dura, lotta vera. Di donne che per la causa hanno sacrificato la loro vita privata o perdendola, come Emily Davison che si lanciò verso il cavallo di re Giorgio V per attaccare alle briglie il vessillo delle suffragette, ma ne morì travolta. Donne spiate, picchiate, imprigionate, costrette con la forza a mangiare durante gli scioperi della fame.

Sì, perché dopo quarant’anni di campagne pacifiche, dove nessuna promessa fu mantenuta, le suffragette decisero di abbandonare il loro  garbo e iniziarono ad agire con azioni radicali e violente. Tutto ciò per attirare l’attenzione sulla loro causa.

Edith Garrud è un nome che a leggerlo non dice nulla. Eppure Edith è stata una donna di quelle che la storia dovrebbe ricordare. Una delle prime a imparare e a insegnare l’arte marziale dello jujitsu, si prodigò per la causa delle suffragette e insegnò loro a difendersi e a combattere contro gli attacchi violenti della polizia.

Organizzava corsi segreti, insegnava l’uso della clava e la lotta corpo a corpo. Tanto che la stampa coniò il termine “Suffrajitsu” per descrivere le loro tecniche, quasi sempre di successo, nell’autodifesa, nei sabotaggi e nelle fughe.

Edith Garrud
Edith Garrud

La Garrud non è una delle protagoniste del film, ma a lei è ispirato uno dei personaggi principali. Perché è un esempio di forza, coraggio, astuzia, antesignana sotto tanti punti di vista.

Ma oserei dire che potrebbe essere un’ispirazione anche per noi. Oggi parliamo troppo spesso di mancanza di ideali, di solidarietà, e in effetti se ci rapportiamo a quanto la storia “vera” ci racconta, non possiamo che esserne d’accordo.

Troppe volte vogliamo, pretendiamo, critichiamo, lamentiamo… ma la rivoluzione non si fa seduti in poltrona. Mi capita spesso di vedere  passare per le strade manifestanti, che per quanto giusta sia la causa, sono sempre pochi. Mai una bella manifestazione di massa, seria.

É come se venisse meno la voglia di lottare, perché non si crede più a nulla. E non ci accorgiamo che diventiamo sempre più schiavi del sistema.

Edith Garrud insegnava autodifesa centocinque anni fa, queste donne lottavano per la libertà un secolo fa! Sono loro che dovrebbero ispirarci, non i politicanti di turno!

E la loro lotta non fu vana, nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò la proposta del diritto di voto limitato alle mogli dei capifamiglia, e in seguito con la legge del 2 luglio 1928, il suffragio fu esteso a tutte le donne del Regno Unito.

In Italia invece le donne dovettero aspettare di più, solo nel 1946 fu finalmente riconosciuto questo diritto. E su questo ho già scritto in un mio precedente articolo

Per la cronaca, nel 1966 al suo 94 ° compleanno, Edith Garrud fu la protagonista di un ampio articolo di approfondimento pubblicato sulla rivista Woman. Grande fino alla fine!

Anche la pittura parla di donne…

Le due Frida: Il dolore di una donna

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Le due Frida

Un quadro  che non solo rappresenta una donna, ma fu anche dipinto da una donna. La tela è “Le due Frida”, realizzata da Frida Kahlo, tra le pittrici più interessanti del secolo scorso.

Anche in questo caso, la fama del quadro e dell’artista sono in parte dovute a un film del 2002 interpretato da Salma Hayek  e dal titolo “Frida”.

Ma la vita della Kahlo, il suo difficile rapporto con la malattia e in parte le sue tormentate storie d’amore emergono benissimo anche dai suoi stessi quadri, che hanno una forte carica autobiografica.

Le due Frida, conservato oggi al Museo d’Arte Moderna di Città del Messico, è datato 1939 e risale a uno dei periodi più dolorosi della vita della pittrice.

La Kahlo si era infatti da poco recata in Europa, dove aveva incontrato i surrealisti, che dicevano di ammirarla ma dai quali si sentiva lontana. E, tornata in Messico, si era separata dal marito Diego Rivera, che la tradiva regolarmente.

Così le due Frida sono, a sinistra, una vestita in abiti europei, il cui cuore è spezzato e sanguinante, e una, a destra, in abiti tradizionali messicani, col cuore ancora visibile ma con in mano una foto di Rivera. Foto da cui parte una vena che si innesta sui due cuori.

Sullo sfondo, le nubi non lasciano presagire nulla di buono.

La vita di Frida, insomma, non viveva uno dei suoi momenti più sereni, anche se è difficile trovare felicità in quell’esistenza così martoriata. Il rapporto con Rivera si sarebbe riallacciato pochi mesi dopo, anche se sarebbe rimasto complicato e carico di dolore.

Frida, sofferente anche per la colonna vertebrale, avrebbe così continuato ad esternare nei suoi quadri la propria sofferenza, fino alla prematura scomparsa nel 1954.

 

Donne e politica… perché è così difficile parteciparvi!

“La crescente influenza delle donne é l’unica cosa rassicurante nella nostra vita politica”.  (Oscar Wilde)

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Così diceva Oscar Wilde a proposito delle donne e del loro contributo nella vita politica… non sono una fan di Wilde, ma certe sue frasi sono memorabili. E partendo da questa frase mi piace esprimere in questo articolo il mio pensiero su un argomento abbastanza dibattuto in questi ultimi tempi cercando di spiegare come mai l’universo femminile e quello politico non sempre s’incontrino.
Certamente viviamo una situazione palesemente contraddittoria… le donne oramai manifestano nella società un’identità adulta: sono cresciute, studiano, lavorano,
esprimono competenze, sanno scegliere e decidere, si appassionano e si impegnano su molteplici fronti, dalle associazioni, ai movimenti di pensiero, dal mondo della cultura, a quello dell’arte e a molto ancora.
 Eppure, malgrado ciò, fanno fatica a farsi notare – salvo per singole personalità che proprio con la loro presenza evidenziano l’eccezione – sulla scena della politica; avviene così che si lascino rappresentare con uno sguardo maschile, che sembra abbiano fatto proprio, se non addirittura introiettato… attente a piacere, piuttosto che a essere gradevoli, soddisfatte e realizzate non per le proprie capacità, quanto per effetto riflesso degli uomini che le hanno scelte, con il culto di una bellezza stereotipata dimenticando i pregi dell’autenticità del vuoto di relazioni autentiche e profonde, in questa “monotonia” di temi che si fa sordità, io noto uno dei motivi alla base dell’estraneità delle donne alla politica.
 Peraltro scorgo una profonda difficoltà della politica nostrana a rappresentare e dare prospettive autentiche al germogliare di nuove identità sociali. Una politica dove sembra sia scomparso il senso della “polis”, inteso come spazio comune dove si confrontano e si costruiscono strategie per il futuro.
Si assiste, invece, quotidianamente a un imbarbarimento della dialettica, dove i “barbari” sono gli estranei alla “polis”, coloro che non ne comprendono il linguaggio e che si alimenta della dialettica tra le posizioni. La politica non sa più parlare, perchè le sue parole – spesso “urlate” per coprirne la vacuità – non sanno palesare i bisogni profondi, non sanno esprimere le preoccupazioni più autentiche dei cittadini, alimentare il discorso e il confronto, e quindi nemmeno dare corpo ad eventuali possibili speranze. Soprattutto non riescono a far intravedere una prospettiva di futuro per la quale mobilitare le energie.
La rigenerazione della politica potrebbe passare anche per l’autonoma capacità delle donne di usare parole di “senso”, a partire dalla concretezza della propria condizione, parole che sappiano esprimere la propria identità e le proprie aspirazioni e al tempo stesso prefigurare le proposte di cambiamento possibili. D’altra parte il fatto che ci siano così poche donne nei luoghi che contano è una delle ragioni che non fanno esprimere qualità e competenze femminili, di cui tanto i nostri tempi e la poltica necessiterebbero.
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Ma di quali competenze e qualità la politica oggi, necessita. Senza dubbio…
– Dell‘ascolto, non un generico prestare orecchio, ma farsi toccare dalle richieste dell’altro in maniera autentica, alla ricerca di una risposta che risuoni confacente
– Dell’accoglienza, non formale accettazione, ma l’aprirsi, al fare spazio perché  possa stabilirsi quello che arriva da fuori, così che possa “contagiarci” e dare origine al nuovo;
– Della cura, ovverosia l’ attenzione scrupolosa, rispettosa e amorosa al crescere e al rafforzarsi dell’altro;
– Della creatività, intesa come la straordinaria capacità generativa che a partire dal sé, attraverso l’incontro prolifico con l’altro, dia il nuovo e alimenti il cambiamento e il divenire.
E’ di ciò che ha bisogno la politica perchè cittadini e cittadine, originari e nuovi arrivati, possano comunicare tra di loro; la polis è oggi aperta, i ritmi sono veloci e i cambiamenti continui, proprio per questo il “discorso politico” necessita di una grande capacità ricettiva, unita alla costante cura delle relazioni… In questo spazio della poltica, mutevole e dinamico, sempre più complesso, il contributo delle donne potrebbe essere in grado di
ri -fondarla e insieme ri- generarla.
 Si assiste, ahimé, a un processo inverso. Da qui nasce con urgenza la domanda: “Perché la straordinaria potenza delle donne non si fa potere?”
Non ho la risposta…
 Però per me é diventata una domanda assillante che ripropongo un po’ in giro, alla ricerca di risposte possibili, di risposte plurali da parte di donne e uomini, che non rinunciano a interrogarsi, a dialogare, a coltivare la speranza. Una domanda che apre una riflessione tenace sul potere, che sottende ogni ragionamento sulla politica.
Quale potere?
Tante forme di potere… quello che ha che vedere con l’agire, che le donne amano perché rimanda alla concretezza delle risposte da dare, all’espressione della creatività, all’impegno per vedere e comprendere meglio l’ambiente circostante.
 Quello che scaturisce dall’energia che si può sprigionare grazie alla capacità di mettere in relazione e far reagire persone diverse, orientandola verso traguardi condivisi.
 Quello che sorge dalla posizione che si ricopre e dalla responsabilità del ruolo!
E’ quest’ultima, a mio avviso, una forma di potere che è più estranea a noi donne, dalla
 quale vorremmo rifuggire, temendo la solitudine connessa all’esercizio del potere e il rischio che, assumendolo fino in fondo, potremmo trasformarci e perdere il nostro femminile.
Nella nostra difficile relazione con la politica, non possiamo schivare questa assunzione colma di responsabilità, anche se dobbiamo cercare forme nuove per esercitarla, trovando la voce per manifestare il nostro disagio e le nostre difficoltà costruendo forme di relazione che favoriscano la condivisione rendendo così più gioioso il gioco dei poteri.
 Io penso che potremo essere una straordinaria risorsa per la politica in una società come quella attuale se saremo centrate sulla nostra più autentica fiducia, responsabili verso noi stesse e verso gli altri, aperte al nuovo e al domani.
Non dimentichiamo, poi, che questa nostra società caratterizzata dall’incertezza e dalla precarietà, ha bisogno di presenze femminili che abbiano appreso di stare nel flusso della vita, riprogettando di continuo il proprio modo di essere, vivendo il cambiamento come momento di crescita, re-inventando l’esistenza e aprendo così nuove prospettive di speranza.

 

 

 

 

Schiava…

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Cosí schiava. Che roba!

Cosí barbaramente schiava. E dai!

Così ridicolmente schiava. Ma insomma

Che cosa sono io?

Meccanica, legata, ubbidiente,

in schiavitù biologica e credente. Basta,

scivolo nel sonno, qui comincia

il mio libero arbitrio, qui tocca a me

decidere che cosa mi accadrà,

come sarò, quali parole dire

nel sogno che mi assegno.

Patrizia Cavalli

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Il fatto sta che bisogna liberarsi da sé, nessuno ci libera al posto nostro…

1 Febbraio 1945 – In Italia viene introdotto il Suffragio Universale

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L’istituzione del voto alle donne… facciamo un po’ di storia
Pochi mesi prima della conclusione del secondo conflitto mondiale, il secondo governo Bonomi – su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi – introduceva in Italia il suffragio universale, con Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, “Estensione alle donne del diritto di voto”.
A 154 anni dalla “Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine” firmata da Olympe de Gouges che purtroppo le valse – nel 1793 – la ghigliottina, in Italia finalmente le donne si poterono recare alle urne. Una prima volta che assunse una valenza ancor maggiore poiché avvenne in occasione del Referendum del 2 giugno 1946 in cui gli italiani furono chiamati a scegliere fra Monarchia e Repubblica.
La struttura del decreto era la seguente:
* l’art. 1 ne sanciva l’esercizio alle condizioni previste dalla legge elettorale politica;
* l’art. 2 ordinava la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili;
* l’art. 3 stabiliva che, alle categorie escluse dal diritto di voto, dovevano aggiungersi le donne indicate nell’art. 354 del Regolamento per l’esecuzione del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, ovvero le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.
* Il Decreto n. 74 del 10 marzo 1946, “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente”, sanciva – un anno più tardi – l’eleggibilità delle donne.
Malgrado Palmiro Togliatti, con Alcide De Gasperi, ne fosse stato uno strenuo sostenitore, la partecipazione della componente femminile alla competizione elettorale generava non pochi timori all’interno dei partiti della sinistra, infatti l’influenza della chiesa sulle coscienze femminili veniva ritenuta determinante e in grado di orientare significativamente le elettrici. A fungere quale “cerniera di trasmissione tra le posizioni politiche della Democrazia Cristiana e quelle più spirituali delle donne di AC”, d’altro canto, era il Centro Italiano Femminile, creato dall’Istituto Cattolico di Attività Sociale allo scopo di condurre le masse femminili cattoliche ad esercitare in modo ‘appropriato’ il diritto di voto e ad attivare iniziative assistenziali e formative in grado anch’esse di produrre effetti in tal senso.
C’è da dire che in Italia, le donne potevano gia votare – solo per le amministrative – sin dal 1924. Benito Mussolini sulla carta le aveva riconosciuto il diritto di voto al fine di dimostrare che non temeva l’elettorato femminile, anzi. Fu però non solo un atto di pura demagogia, in quanto la dittatura aveva già deciso la proibizione di qualsiasi elezione per comuni e province, sostituendoli con i podestà ed i governatori; costitui un ulteriore ostacolo al cammino per il suffragio universale in Italia dove la legge del 1866 per l’unificazione della legislazione della nuova Italia, aveva privato del diritto di voto – solo amministrativo – le donne della Toscana e del Lombardo Veneto che lo avevano sino ad allora esercitato.
Poi una lunga serie di bocciature e decadenze di progetti anche se estremamente limitati. Nel 1871, ad esempio, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Giovanni Lanza propose che le donne “potranno mandare il loro voto per iscritto” insomma, che per carità non si presentino ai seggi, ma solo per le amministrative: “Qualche fondamento può esservi nelle costumanze per negar loro il voto politico”. Ma il progetto decade alla chiusura della sessione. Dieci anni dopo sarà un esponente della Sinistra, Agostino Depretis, a riproporre la necessità che le donne votino sempre solo per le amministrative. La commissione della Camera modifica il progetto, lo circoscrive ancora (niente voto per posta, semmai “per delega”, al marito) ma poi tutto si arena di nuovo, fino al 1945.
Dalla celebrazione al riconoscimento del diritto
È molto facile compiere una celebrazione. Il punto sta altrove: il riconoscimento del diritto di voto – un atto dovuto – viene calato dall’alto come elemosina. Gesto che costerà caro a Palmiro Togliatti, come poi le successive elezioni dimostreranno. Era stato introdotto il diritto di voto, ma non il diritto di parola. Il diritto di voto era importante e necessario, era cosa necessaria ma non sufficiente; infatti se a votare è metà della popolazione questo fatto provoca mutamenti e amputazioni nella democrazia.
Proviamo a tracciare un bilancio…
Il primo diverbio avvenne durante il parto del decreto. Ci si chiedeva diceva infatti: “le donne devono votare?”. La questione è mal posta e va affrontata da un’angolazione diametralmente opposta: “l’uomo deve votare per definizione?”. Dal momento che questa cosa non è incisa nel suo DNA ne consegue che si tratta di domande prive di senso e fatte senza riflettere. È inconcepibile parlare di “riconoscere”: bisogna iniziare ad utilizzare il verbo “dare” nel senso di distribuire a tutti i soggetti i diritti che spettano lorTuttavia le donne si ritrovano sotto esame, con un diritto di cittadinanza non consolidato. Infatti, seppur fondamentale, il diritto di voto non coincide col diritto di cittadinanza. A dimostrazione – semmai ne avvertissimo l’urgenza – vi è il fatto che le donne sono riuscite ad affermarsi nel lavoro durante un processo di emancipazione, ma non nei posti chiave della vita rappresentativa. Un esempio per tutti: l’esclusione delle donne dalla magistratura.
L’articolo 51 della Costituzione “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere negli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza” non garantì per molti anni la tutela di quel diritto. Tale accesso non fu accolto in modo esplicito dalla Costituente, la quale respinse l’emendamento aggiuntivo all’articolo sulla nomina dei magistrati “Le donne hanno accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura” che voleva essere introdotto nel timore, suscitato dall’andamentodel dibattito che l’articolo in questione non fosse sufficiente a garantire quell’accesso. Una donna avvocato rilevava che con il voto della Costituente era passata “l’assurda ipotesi di un individuo (donna) capace politicamente di partecipare alla formazione di una legge, capace di far parte del governo, ed incapace poi, per una non chiarita insufficienza mentale, di applicarla nei casi concreti”. Il divieto d’acceso delle donne alla magistratura venne ribadito negli anni da varie sentenze. Nel 1956 è pronto un disegno di legge, per opera di Aldo Moro, il quale socchiude le porte delle aule di giustizia alle donne, che potranno accedere esclusivamente alle giurie popolari con il limite massimo di tre su sei (norma che resterà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.
Concessione minima, ma sufficiente ad essere contestata dai magistrati, una casta chiusa e impenetrabile alla concorrenza, non avvezzi ad essere criticati – figuriamoci giudicati – dalle donne. Giuristi, magistrati, professori e politici riciclavano argomenti dell’800 per negare il titolo di elettore e quello di avvocato alle donne, con un’aggiunta: la convinzione che la donna non potesse essere in grado di giudicare in certi giorni del mese, di essere troppo emotiva, di non essere sufficientemente razionale, e l’elenco potrebbe continuare.
La legge Moro viene approvata e si attenuano un po’ i toni: “è opportuno l’intervento della donna in seno alla magistratura per i minorenni i cui problemi vanno risolti, più che con l’applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna”. Ancora funzioni che sono l’estensione della figura materna. Opinione largamente diffusa in quegli anni – anche tra i magistrati più aperti al problema – è: “l’idea di essere giudicati da donne provoca un senso di fastidio”. Nel 1958 viene indetto un concorso per uditore giudiziario, il primo gradino della carriera. Il bando di concorso precisa che i candidati devono essere di sesso maschile. La Costituzione è entrata in vigore da dieci anni, ma la parità nei concorsi statali non è per niente rispettata. Solo nel 1963 la legge n.66 rende giustizia all’art. 51 della Costituzione, ammettendo le donne a tutti i pubblici uffici senza distinzioni di carriere né limitazioni di grado.
Questo è il panorama per quanto riguarda il lavoro. Passando alle mura domestiche notiamo quanto a lungo è sopravvissuto lo jus corrigendi (il potere correttivo che comprendeva anche la “coazione fisica”, in sostanza botte e maltrattamenti). Verrà abrogato con una sentenza della Corte di Cassazione del 1956 la quale stabilisce che al marito non spetta nei confronti della moglie lo jus corrigendi, il tutto nonostante l’articolo 29 della Costituzione sancisse l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Una triste nota a margine, ma da non dimenticare, è che fino al 1956 era sì punito l’abuso dello jus corrigendi, ma per abuso si intendeva un ricovero ospedaliero di almeno venti giorni. La conclusione da trarre è che l’Italia, fino a qualche decennio fa, si è comportata come come tanti altri paesi che oggi additiamo come modelli negativi.
Vediamo come sono andate le cose
Le donne hanno compiuto nella scuola e nell’istruzione in genere un processo di emancipazione passiva, andando via, via ad occupare i posti di lavoro scartati dalla popolazione maschile. Dall’inizio del XX secolo c’è stata lotta per ottenere posti all’interno di strutture come le ferrovie o delle poste. La presenza delle donne nel mondo del lavoro è documentata dai censimenti della popolazione italiana, che fotografarono, in decenni successivi, l’evolversi del fenomeno e le sue sfaccettature. In particolare, il censimento del 1881 evidenziò che il 51% della popolazione femminile (contro l’84.6% di quella maschile) era occupato stabilmente in un’occupazione extradomestica che la caratterizzava tanto da classificarla ai fini di un documento ufficiale quale appunto un censimento. Il 27% delle donne era occupato in agricoltura, il 16.9% nell’industria, un 4% era definito personale di servizio, mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava percentuali inferiori all’1%.
Oggi la scuola non forma più donne ma maschiette. Si è instaurato un codice imitativo verso il cattivo gusto difficile da estirpare. Per dare un valore reale al voto femminile questo processo deve essere accompagnato da un reale cambiamento sociale. Come mai nei libri di storia sono riportate soltanto guerre? Gli eventi di pace vengono volutamente oscurati. Ogni richiesta di integrazione ed ogni aggiornamento dei testi scolastici è puramente decorativo. Questo fatto è particolarmente enfatizzato in Italia poiché la storia è stata scritta originariamente dalla dinastia dei Savoia. Dunque tutto appare rovesciato rispetto come dovrebbe essere: questi non sono i nostri interessi.
L’acquisizione del diritto di voto senza una piena cittadinanza oltre ad essere un freno per la democrazia, rallenta tutte le attività del Paese. Settori come agricoltura e la scuola sono, per la maggior parte dei casi femminili, questo significa che l’assenza delle donne bloccherebbe tali settori. Senza l’apporto femminile vi è un deficit democratico. Resta un dato innegabile la costante crescita occupazionale, ma è altrettanto vero che l’Italia è sempre più la Cenerentola d’Europa. Lo testimonia il fatto che dopo il 1963 le donne hanno letteralmente “preso d’assalto” la magistratura, cosa che non era accaduta per settori come l’istruzione dove il lavoro non era conquistato ma ceduto.
Ora fermiamoci a riflettere: il Codice Penale al Titolo XII, art. 575 (Omicidio) così recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.” È sufficiente un grado di istruzione minimo per comprendere che in Italia uccidere una donna non è reato. Ne consegue l’uregenza della riscrittura del diritto. È ormai di fondamentale importanza la creazione di luoghi di studio ove sia possibile prendere in esame i codici, ma questa struttura – allo stato dell’arte – non è stata ancora pensata. Un passo avanti è la Direttiva Prodi/Finocchiaro del 27 marzo 1997 la quale impone che tutti i testi normativi vengano scritti con linguaggio inclusivo (uomo e donna).
Tuttavia nella grammatica non è raro incontrare la regola che afferma “prevale il genere maschile”. Innanzitutto non se ne comprende il motivo (forse è più nobile), dunque questa definizione non può essere accettata poiché l’italiano non è una lingua morta, dunque è aperta a modificazioni e revisioni. Si dice che per talune professioni (come avvocato, ministro) non si usa il femminile poiché non è presente nella lingua e nella tradizione italiana. Nulla di più falso. Il “Salve Regina” (la più celebre delle quattro antifone mariane, composta probabilmente da San Bernardo di Chiaravalle, deceduto nel 1153) in un suo passo recita “Eja ergo, advocata nostra” il quale in italiano viene tradotto senza timore alcuno con “Orsù dunque, avvocata nostra”. Per non parlare di Ugo Foscolo dove, nell'”Ai Novelli Repubblicani”, scrive “né il falso e il ver distingue:/quindi ministra omai/d’oligarchica rabbia/sogna menzogne e guai.”. Naturalmente l’elenco potrebbe continuare ma non è questo il punto: se accettiamo a cuor leggero vocaboli come cliccare o dribblare, come mai fatichiamo tanto ad inserire nel nostro lessico quotidiano termini come rettrice?
Come affrontare la carriera professionale
Possiamo trovare donne dove è possibile l’affermazione individuale e dove la selezione avviene per concorso. Questo non perché le donne sono migliori degli uomini ma per il semplice fatto che sono più motivate. Il meccanismo si inceppa laddove l’attribuzione di responsabilità dirigenziali passa attraverso criteri discrezionali, o meccanismi poco trasparenti di cooptazione e regole di selezione non fondati, almeno non prioritariamente, sulla competenza. È questo il fenomeno del cosiddetto “soffitto di cristallo”, immagine che dà l’idea della difficoltà femminile di arrivare ai massimi livelli di carriera nell’amministrazione come nelle professioni. Questo fenomeno assume aspetti innegabili nella carriera universitaria e nella ricerca scientifica, dove le donne costituiscono la maggioranza, ma è cosa rara nei millenni incontrare una direttrice di dipartimento.
Va da sé che per l’accesso agli ultimi livelli il requisito base è “l’attitudine al comando”, cosa spesso estranea al mondo femminile. Queste cose vanno dette per ricordare quanto sia difficile stabilire criteri di eccellenza su basi quantitative e quanto sia pericoloso introdurre elementi qualitativi, fatto che spesso si può chiamare con un volgare nepotismo. L’assenza delle donne nei gradi più alti della carriera lavorativa è un impoverimento per tutta la società.
Che Fare?
* Chiedere sempre concorsi;
* dove è presente un diritto sancito esigerne sempre il rispetto;
* lo scandalo della debole rappresentanza politica femminile è palese. La democrazia non è il diritto di voto, non solo: abbiamo esempi di regimi con la presenza del diritto di voto.
Quante donne hanno chiesto di poter fare il servizio di leva. Sono stati ottenuti diritti senza che nessuno li abbia chiesti: queste non sono concessioni. La resistenza è stata un fenomeno completamente diverso in quanto era un movimento politico ed era prevista l’obiezione di coscienza, la disubbidienza (anche per paura). E questa cosa, a tutt’oggi, non è stata riconosciuta: sono passati cinquant’anni e si sono sentiti solo pregiudizi. Occorre una rivoluzione culturale.
* C’è una ripresa del patriarcato in tutto il mondo, questo fenomeno genera autoritarismo e va contrastato;
* non serve a nulla eleggere donne che si candidano solo per lustrare la lista, che poi – se elette – verranno manipolate a piacere. Occorre un patto concreto: oggi candidiamo ed eleggiamo una donna, ma sappiamo che alle prossime elezioni questa si raddoppierà;
* infine va disinquinato il linguaggio politico da tutte le metafore belliche che lo circondano. Un politico se deve esporre un pensiero privato dei termini quali “tattica”, “strategia”, “piano d’azione” è perso come un bambino in un bosco nella notte. Strategia deve essere sostituito con “migliori pratiche”, e così via. Non è un’operazione estetica: produce un cambio di mentalità.
Il diritto di voto resterà una pura formalità fino a quando le strutture politiche non saranno popolate da donne libere (a costo di operazioni sgradevoli ed indolori). Una donna può – anzi deve – essere ambiziosa, cosa diversa dall’esser competitiva. L’ambizione significa dire “so che sarei capace di…” e uscire dalla corazza di timidezza che inibisce ogni passo avanti. Le donne non sono nate né per essere modeste, né per essere sottomesse. È una vergogna elemosinare il diritto.
La nostra storia è popolata da luci ed ombre. Non è sufficiente il diritto di voto per sbloccare le libertà sociali. A titolo di esempio servono due occhi per vedere la profondità del mondo in cui viviamo. Con un occhio solo il mondo viene percepito piatto. Lo stesso per quello che udiamo: con un orecchio solo non si percepisce da dove proviene la voce, anche in questo caso il suono si appiattisce. Preferisco un parlamento costituito per metà da uomini mediocri e per la restante metà da donne mediocri che un parlamento composto da soli uomini mediocri.