Mese: gennaio 2022

27 Gennaio, perché non si ripeta!

Cosa è la deportazione degli ebrei.

Un giorno, gli ebrei italiani furono esclusi da scuole, impieghi pubblici, vita civile, libertà sentimentale. I matrimoni “misti” furono vietati, per esempio. Se oggi vi innamoraste di Gal Gadot, insomma, sareste messi in galera o mandati in manicomio. Che era poi lo stesso. Passò qualche tempo. Gli ebrei italiani erano già scioccati per quel che era accaduto, ma uno che magari si chiamava Umberto Spizzichino o Vittorio Emanuele Anticoli non avrebbe mai potuto credere che il re d’Italia potesse consentire che si facesse come in Germania.

E invece accadde.

Nonostante una delle più strette consigliere (e amanti, probabilmente) del duce fosse Margherita Sarfatti. La povera Sarfatti dovette scampare all’arresto, braccata, in Svizzera e per poco non fu rimandata indietro. La sorella fu deportata. Tanto per parlare della galanteria del capoccione.
Fatto sta che un bel giorno, all’alba, i bambini come al solito pronti a scendere in ‘piazzetta’ per giocare, al sicuro, tra i palazzi di zii e amici di una vita, c’è un brulicare di camionette. I tedeschi bloccano il perimetro esterno, gli italiani, militari e milizie, danno qualche minuto per presentarsi con un paio di cambi. La gente viene messa in lista, o meglio spuntata dalla lista e caricata. Tutti in ordine, senza troppo fiatare. In fondo, se stai buono resti vivo.

Vagoni in stazione. La gente sta ancora in gruppo, familiari e amici stretti condividono lo spazio dei carri vuoti, senza sedili e senza bagno.
Il viaggio si interrompe ogni tanto, come un treno regionale di oggi, in mezzo alla campagna. Ma non ci sono finestrini e il tanfo di pipì ed escrementi è ovunque. Tutti sperano di arrivare, ovunque sia, il più presto possibile. Il viaggio si interrompe per alcuni nei campi oggi famosi, Buchenwald, Dachau, Auschwitz. Nessuno spiega nulla. Arbeit Macht Frei promette guai ma anche vita. Invece le famiglie vengono divise. Uomini da una parte, donne dall’altra. Pochi vengono scelti per esperimenti genetici o studio di medicinali o di protesi, anche strampalate.
Il grosso finisce al lavoro forzato, dopo aver lasciato abiti e ogni avere, dopo una rigorosa perquisizione, anche fisica, dentro gli orifizi, con risate annesse per chi è prestante o gradevole. Alcune donne vengono avviate alla prostituzione da campo, come anche uomini o bambini.
I campi sono quasi auto organizzati. Gli “affidabili” ebrei diventano kapo. Provano a salvarsi e diventano duri come gli aguzzini. Sperano di sopravvivere, ma anche tra loro, molti muoiono. Basta poco. Anche una sola risposta sbagliata.
Bambini allegri trasformati in mummie viventi o cadaveri. Professionisti o artigiani ridotti prima all’osso e poi improvvisamente arrivano a spegnersi mentre lavorano o sulle tavole dove ci si stringe, incuranti di pidocchi, cimici e topi. La fame è tale che in realtà i topi se la vedono male. Vengono mangiati.


I giorni non finiscono mai. Geloni, assideramenti, arti che saltano. Si mente per restare vivi. Ormai è chiaro che chi si lascia andare viene seppellito, prima, poi cremato. Se sei moribondo, non si aspetta più. Puoi essere cremato da vivo. A casa, chi è riuscito a non farsi prendere, vive col terrore. Le perquisizioni delle case dei “salvatori” sono continue. Appena qualcosa fuori dall’ordinario accade, tutti si nascondono in doppi fondi, dietro le pareti, negli scantinati. I cercatori, qualche volta imbeccati, qualche altra abituati a quel lavoro, trovano i nascondigli e anche gli scampati vanno incontro alla morte.
Tedeschi cattivi, ma gli italiani…

Anche gli italiani non scherzano… San Sabba, ma anche qualche decina di campi utilizzati per tenere i balcani in pugno, o per far sparire gli indesiderati, sono luoghi di fame, soprusi, violenze, non solo sessuali. Non si giustificano le foibe, ma la premessa è l’inumanità di tanti, troppi italiani che quando sono servili non si risparmiano niente. Arriva la liberazione degli ebrei, dopo la liberazione italiana. La gioia di essere vivi e la fine della fame per tutti, o quasi.

Nessuno vuole più ricordare le infamie, le delazioni, quella che pochi giorni prima era una colpa, la religione, viene semplicemente ignorata. Gli ebrei non si fidano. Sanno che ogni portiere di ogni stabile ha sulla coscienza molte decine di arresti e di morti. Ma anche compagni di scuola, iscritti al fascio, coloro che credono alla “scienza” di partito.
Nasce il dibattito. Non si eseguono più condanne sommarie, resta però il problema di cosa fare. Agli ebrei sono state confiscate cose e case. Non possono tornare verso nulla.
Inglesi e francesi non vogliono sentir parlare di stato degli ebrei. Il mondo è grande, ma mentre un’operazione segreta esfiltra i nazisti in America Latina, agli ebrei viene promessa una terra lì vicino.
Ci sono dubbi, ma se non c’è altro da fare, gli ebrei attendono di sapere.

L’America Latina è sbarrata per loro. Venti anni di propaganda hanno lasciato il segno. Che poi, la propaganda è cominciata sotterranea già da tanto. Comincia all’epoca dell’Impero Romano, si acuisce da Costantino in poi. Ha alcuni vertici ai tempi di Isabella di Castiglia e prosegue fino al 1870, a Roma. Si interrompe solo per cinquant’anni, perché ai Savoia fa comodo criticare aspramente il Papa e provocarlo. Fatto sta che gli ebrei non li vuole nessuno nel ’45 e ancora una volta hanno solo nemici. Esiste un gruppo piccolissimo. Li chiamano sionisti. Vogliono tornare dove gruppi consistenti sono sempre rimasti, in Palestina. Comprano da decenni appezzamenti di terreno. Fino alle leggi razziali, i fascisti italiani li aiutano. L’idea è di farli andare via dall’Italia, in silenzio, ma via. Addirittura dopo le leggi razziali anche un’accelerazione, per togliere il problema di torno quanto più è possibile. Per facilitare il processo di emigrazione e pulizia etnica il fascio istruisce anche piccoli gruppi all’organizzazione militare. Gradi, divise, tecniche di lotta sono quelle italiane. Fino alle deportazioni, il fascio ha aiutato gli ebrei, si racconta. No, voleva solo toglierseli di torno con poco rumore.

Gli ebrei senza patria decidono, a gruppi di andarsene, poveri e senza niente in mano verso la Palestina, unico luogo al mondo dove potrebbe esserci terra e protezione di altri come loro. Fanno da soli, perché sono soli. Inglesi e francesi si adoperano perché il progetto non vada in porto. Porti bloccati, embargo, speronamenti, arresti colorano il tentativo dei sopravvissuti di andare in un posto che sperano essere sicuro, su una terra di proprietà, dopo anni in cui il diritto alla proprietà era stato nuovamente cancellato, per loro.
Le armi ebraiche non ci sono. Nemmeno l’Haganah (organizzazione paramilitare ebraica in Palestina) esiste. Sarà costituita dopo, quando le tecniche di guerriglia e le milizie spontanee sono troppe e difficilmente controllabili. Alcune operano con tecniche terroristiche. Per fare una guerra di difesa, il terrorismo dell’esercito degli ebrei deve finire. E finirà. Armi in pugno, tra Haganah appena costituito e milizie che non vogliono obbedire.
Resta l’embargo. Niente armi. Gli arabi ricordano e ascoltano ancora le parole del gran muftì di Gerusalemme. Pochi mesi prima andava perfettamente d’accordo con i nazisti. Deve essere guerra contro gli ebrei. Devono essere cancellati. Le perorazioni dei religiosi non mobilitano gli Stati arabi, da subito. Gli ebrei riescono a difendersi col poco che hanno. Ma poi la pressione diventa enorme, estenuante. Bisogna assicurarsi dei punti strategici per riuscire a organizzare una difesa ma nemmeno i trattori possono arrivare nella terra d’Israele.

La svolta la dà Golda Meir. Piccola donna che va in America e spiega cosa accade in quella piccola porzione di terra che si affaccia sul Mediterraneo. Le pressioni politiche in USA crescono. Gli inglesi devono recedere dal loro embargo, almeno le armi leggere possono arrivare e finalmente anche i trattori che vengono trasformati in blindati, per arrivare a Gerusalemme e combattere i nemici dalle alture.
Un Paese nato perché nessuno ha mai voluto dare a tutti gli uomini gli stessi diritti. Nemmeno quelli di proprietà e dell’habeas corpus.

Ecco che cosa è stata la deportazione degli ebrei. Uno sterminio che ha costretto poche centinaia di migliaia di uomini a trovarsi da sola una terra dove sopravvivere. La voglia di vivere ha fatto diventare quel piccolo Paese una terra ricca dove studio, ricerca avanzata, guerra convivono. E dove prima c’era solo deserto. E da quel deserto sono nati alberi che dovrebbero ricordare a tutti noi l’infamia del bullismo religioso che sfocia in persecuzione etnica e miserabile pregiudizio violento.
Io, cristiana di battesimo da cento generazioni, probabilmente, ricordo e non dimentico. Ricordo tutto. E penso a quella bambina che. anche se scampata alla prima retata, ha dovuto nascondersi senza poter nemmeno starnutire, ad ogni rastrellamento. E se ha starnutito, ha anche provato il senso di colpa per aver fatto ammazzare padre, madre, fratelli e cugini. Per colpa di uno starnuto? No. Per colpa di chi ha pensato di ammazzare chiunque arbitrariamente, chiamandolo “ebreo”, come fosse un’offesa.
Per colpa di gente come me. Ma non proprio come me. Da gente come me, ma miserabile davvero. Ecco cos’è la deportazione degli ebrei: la differenza tra un noi umano e un “loro” indifferente, e alla fine crudele. Capace di dire poi, “eh, ma facevano tutti così. E poi, che volete, alcuni sono ancora vivi”. Come se la morte non fosse qualcosa che colpisce individui. Uno ad uno.

Ecco cos’è la deportazione degli ebrei, quindi: lasciare che si distingua tra i bimbi e decidere quale bimbo può giocare e quale deve morire.
Io no, noi no. Noi crediamo che tutti i bimbi dovranno essere donne e uomini liberi e devono tutti giocare ed avere potere sul proprio corpo e sulle cose che possono produrre e comprare. Siamo un solo popolo. Chi distingue, consente la deportazione degli ebrei.

E per favore, non confondiamo i passi di carta e i numeri tatuati sulle braccia. C’è una bella differenza tra l’essere ammazzati senza motivo e non poter andare al ristorante per un paio di mesi, peraltro perché in questo modo, magari sbagliando, un’autorità civile pensa di mettervi al riparo dalla morte.

Per favore, non banalizziamo le atrocità con le beghe, per quanto discutibili. Anche chi banalizza, alla fine, avrebbe facilitato la deportazione degli ebrei. Perché avrebbe detto certamente: perché io sono obbligato a fare il vaccino e loro nel ghetto no? Senza nemmeno pensare che nel ghetto il vaccino non sarebbe stato fatto solo perché se fossero morti nessuno se ne sarebbe preoccupato. Ecco la differenza!
Buona memoria. A tutte/i.

“Milioni di scale: la storia di Eugenio e Drusilla”.

Drusilla Tanzi, piccola di statura, obiettivamente bruttina tipo Marcie dei Peanuts, miope a tal punto che sembrava indossare dei bicchieri anziché degli occhiali, spesso malata, è stata la musa principale del grande poeta Eugenio Montale. Il premio Nobel  l’ha anche sposata quando entrambi erano avanti con gli anni, nonostante il poeta avesse avuto in tutta la sua vita amanti giovani, belle e colte. Tuttavia ha sempre preferito lei, fino in fondo… come mai?

Molti sottovalutano le potenzialità seducenti di certe donne obiettivamente non belle, ma dotate di altri talenti. Così come molte donne, guardandosi allo specchio e non ritrovandosi nei canoni di bellezza della propria epoca, si scoraggiano e si rassegnano, non considerando che una bruttina stagionata, come ad esempio Drusilla, può avere una vita sentimentale più movimentata di tante donne bellissime.

“Ho conosciuto una simpatica e intelligente sua ammiratrice … porta il bizzarro nome di Drusilla…” con questa lettera di Montale a Svevo, facciamo conoscenza con questa donna, diversamente bella, in uno scritto datato 1927.

Drusilla ha quarantadue anni e Montale  trentuno. Lei, inoltre, è sposata e con un figlio. Nonostante tutto tra i due sboccia un sentimento molto forte, che resisterà a molte intemperie. Montale le dà il nomignolo di “Mosca”, per via della grande miopia, ma si innamora di lei nonostante sia sposata con un altro, Matteo Marangoni, celebre critico d’arte.

Il poeta però è giovane e sensibilissimo, nonostante l’apparenza seria e quasi scontrosa, al fascino femminile. Libero da impegni matrimoniali con Drusilla, si lascerà affascinare da molte donne, fino alla fine dei suoi giorni, ciclicamente. La prima donna rilevante nella storia sentimentale di Montale era davvero irresistibile, una giovane americana dagli occhi azzurri,  pettinata alla maschietta, Irma Brandeis, da lui immortalata nelle poesie di quel periodo come Clizia.  Irma, innamoratissima, vorrebbe che Montale la seguisse in America negli anni trenta, tra l’altro gli anni del fascismo e delle leggi razziali (“Clizia” era ebrea), ma Drusilla, con cui porta avanti una storia parallela, minaccia due volte il suicidio. Il poeta non parte.  Vince Drusilla, la bruttina.

La seconda donna è celeberrima, è la grande poetessa italiana Maria Luisa Spaziani che incontra quando lei ha ventisei anni e lui cinquantadue, lei bella e talentata, lui goffo ma già intellettuale acclamato dal pubblico. Si daranno nelle lettere i nomignoli di Volpe e Orso. Lei non è ancora sposata ma sta per farlo, lui in realtà non riesce a darle più di un’affettuosa amicizia. Lei si sposa. Si frequentano anche successivamente, ma a livello soprattutto intellettuale. Torna a vincere Drusilla, la bruttina.

Come ha potuto Drusilla sbaragliare una simile concorrenza? Perché Montale era così legato a questa donna?. La risposta si può leggere nelle poesie più belle del Montale della maturità: la raccolta denominata Xenia, che nasconde la sua Drusilla in ben ventotto liriche, tutte dedicate a lei, da poco scomparsa.

È a lei e solo a lei che egli dedica una delle più belle poesie d’amore del Novecento:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora,
ne più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Il dolore del poeta per la sua perdita è inestinguibile.

Dopo la sua morte Montale capisce perché amava Drusilla… Drusilla, nonostante le “distrazioni” del suo uomo, è stata sempre la sua guida, il suo punto di riferimento e il loro rapporto ha il sapore della quotidianità affettuosa e partecipe, dell’amore consolidato e irrinunciabile.

È commovente come lui la cerchi ovunque, come desideri che ancora lo consigli, gli parli, come aveva sempre fatto nelle loro vita insieme, da donna moderna, coraggiosa, combattiva qual era, ed estremamente intelligente. Drusilla, infatti, è una donna piena di sorprese: è persino un personaggio letterario. Infatti è la zia Drusilla: “colei che rompeva sempre gli occhiali” in “Lessico famigliare” di Natalia Ginsburg, di cui era veramente la zia nella vita. E anche Montale appare in un breve cameo nel libro, come suo compagno, assieme a lei anche in quell’occasione.

Se all’inizio il loro rapporto ha risentito del ricatto emotivo della “Mosca”, nel momento della minaccia del suicidio, ha forse suscitato in Montale lo stimolo di quello che si suole definire “amore generoso”. Nel corso degli anni questo sentimento si è stabilizzato , diventando fortissimo. Il poeta continuerá a volerle bene e a stare sempre con lei, fino a sposarla quando lei rimarrà vedova del suo primo marito.

La cerimonia ufficiale avverrà quando Drusilla sarà ultra settantenne, ancora accanto al suo uomo che l’ha scelta ancora una volta. Ma stavolta come sua moglie.

Niente male per una bruttina stagionata!

P.s: a tal proposito consiglio la lettura di un simpaticissimo romanzo ( anche se un po´ datato!) di Carmen Convito la bruttina stagionata

Madres Paralelas.

Due donne, compagne di stanza, condividono i dolori e i timori per il parto imminente: una, Janis, fotografa affermata, è felice di questa gravidanza inattesa arrivata quasi fuori tempo massimo; l’altra, Ana, è un’adolescente insicura, con genitori distratti e assenti, terrorizzata all’idea di crescere un figlio. Hanno entrambe una bimba, si scambiano i numeri di telefono e promettono di risentirsi al più presto.

Nel frattempo entriamo nelle loro vite, col tran tran di neonate da accudire, balie affidabili da reperire, notti insonni e momenti di tenerezza che ripagano le neo-mamme degli affanni che devono affrontare. Madri single che se la devono cavare da sole, in tutto.

Pedro Almodóvar firma forse la sua pellicola meno almodovariana, meno grottesca ed eccentrica in cui le due figure femminili sono messe a fuoco, anzi a nudo, in senso letterale e figurato. Janis e Ana, che dopo qualche mese si ritrovano per caso in un bar di Madrid, saranno costrette a un destino parallelo anche se i rispettivi ruoli cambieranno spesso e in modo traumatico.

Accanto alle loro storie private quella della Spagna, del suo passato, mai sufficientemente indagato anzi sotterrato come le vittime del franchismo, cui solo a partire dal 2007, con il governo Zapatero, si decise di dare degna sepoltura. 

Penélope Cruz (Janis), musa indiscussa di Pedro, torna nei panni della madre dopo il bellissimo Dolor y Gloria  una madre adulta eppure fragile, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa; Ana, invece, dopo il parto, acquista sicurezza e il legame con la bambina è fortissimo. A interpretarla Milena Smit, giovane astro nascente, dagli occhi color smeraldo e dal fisico androgino.

Ad affiancarle l’immancabile Rossy De Palma e la quasi novantenne Julieta Serrano. Una marea di donne: mature, anziane, adolescenti e neonate a fronte di uomini scappati, morti, addirittura sconosciuti, tranne Arturo, il patologo forense amico di Janis che autorizza l’inumazione dei resti degli antifranchisti sepolti nelle fosse comuni.

Tra quei corpi violati ma mai dimenticati, anche il bisnonno di Janis, morto per la libertà. Nella scena finale in cui tutto il paese si raduna per l’evento, nei volti commossi, nelle mani allacciate delle due protagoniste, c’è il riscatto da un passato di sopraffazione e il passaggio del testimone nelle mani delle generazioni future.

La voce rauca e struggente di Janis Joplin ad accompagnare un Almodovar imperdibile.“Madres Paralelas” Premiato al Festival di Venezia, Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Penelope Cruz.