Charlotte Salomon è una giovane artista ebrea berlinese, nata il 16 aprile del 1917 a Berlino e uccisa a soli 26 anni ad Auschwitz dove morì il 10 ottobre del 1943, lo stesso giorno del suo arrivo, incinta del suo bambino.
La sua opera “Vita? o teatro?” è una raccolta di tavole tra le più originali e significative che testimoniano l’intreccio tra le difficoltà della sua esistenza e la lettura acuta e consapevole della tragedia che si sta compiendo negli anni della guerra e dell’ascesa del totalitarismo nazista.
L’opera è composta da circa 1350 immagini con cui l’autrice ripercorre la propria vita in uno stile che riprende non solo la pittura, il fumetto, il teatro, alle volte anche il cinema, la musica, ma soprattutto ciò che è “racconto”. “Creare qualcosa di veramente folle e singolare” è il suo intento e “Vita? o teatro?” ne è il risultato “vitale”.
Charlotte Salomon rielabora i suoi lutti segnati dai suicidi delle donne della sua famiglia, in primo luogo quello della madre, il rapporto difficile con la seconda moglie del padre, cantante lirica molto conosciuta ed apprezzata, che diventa per lei un importante modello di riferimento mitizzato spesso contrastato e invidiato. Ma il racconto della sua vita s’intreccia inesorabilmente con la storia e le trasformazioni sociali segnate dalla violenza e dalla brutalità dell’avanzata del nazismo sino alla tragica testimonianza sulla Shoah.
Le sue tavole dipinte sono il racconto della sua esistenza e dell’epoca oscura in cui è vissuta. Necessaria è stata per lei la narrazione, essenziale per noi deve essere non solo il ricordo che non abbia una “memoria corta”, ma la rivolta contro l’aggressione da parte di ideologie arroganti, violente, autoritarie, fasciste per contrastare ogni tipo di genocidio specie quelli che si consumano nei nostri mari, sotto i nostri occhi ormai ogni giorno.
“Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. (Hannah Arendt)
Ho da poco terminato la lettura di questo libro e devo dire che ne sono rimasta entusiasta.
Un libro che intrattiene, scritto da una donna che ha chiaramente speso parecchio tempo ad analizzare molte fonti diverse per dare maggior spessore ai personaggi e che ci regala una versione della guerra di Troia al passo con i tempi ma non per questo meno appassionante o credibile.
Lo consiglio a tutti gli appassionati di mitologia greca.
Ma veniamo al libro e alla sua idea che è sicuramente adatta ai nostri tempi: prendere una seria nota a tutti e cambiarne il punto di vista. In questo caso si tratta della caduta di Troia, ma dal punto di vista delle donne. L’Iliade ha molti personaggi femminili, che però sono relegati a ruoli abbastanza secondari e per carità, non si può certo incolpare il povero Omero di non aver predetto di qualche millennio la parità dei sessi. Quello che possiamo fare però è ripensare questi personaggi, proprio come ha fatto l’autrice, Nathalie Haynes, nota classicista.
Si parla quindi di donne, la prima è Calliope, la musa della poesia invocata nell’incipit dell’Iliade, quella del “Narrami o diva”. Proprio lei prende la parola all’inizio, alla fine e ogni tanto tra un capitolo e l’altro: si rivolge direttamente al poeta e in toni anche abbastanza arguti e poco pazienti, già ci fa capire che il focus del libro non saranno le gesta di grandi uomini e che la guerra non è fatta solo di eroi.
I capitoli che seguono affrontano ognuno il punto di vista di una o più protagoniste: abbiamo il gruppo di troiane prigioniere, tra loro Ecabe, moglie di Priamo, Cassandra la ragazza sacerdotessa di Apollo con il dono della preveggenza e Andromaca, moglie di Ettore. Abbiamo poi le greche tra cui Penelope, moglie di Odisseo e Clitennestra, moglie di Agamennone e chiaramente Elena, moglie di Menelao ma fuggita con Paride. Oltre a queste abbiamo anche Pentesilea, regina delle Amazzoni e perfino le divinità tra cui le più famose Era, Afrodite e Atena.
In alcuni casi abbiamo un solo capitolo, come per Pentesilea, Temi o Eris, in altri casi invece ci sono diversi capitoli che aiutano l’arco narrativo ad avanzare, come per le troiane, Calliope oppure Penelope. L’inizio chiaramente parte con la caduta di Troia, a cui seguono il saccheggio e poi il ritorno a casa dei vari protagonisti. Numerosi sono i flashback ad eventi precedenti che ci aiutano a capire meglio l’intera faccenda.
Tra questi capitoli, quelli dedicati a Penelope sono molto interessanti: assumono il formato di lettere che lei scrive a suo marito Odisseo e in cui narra quello che a sua volta ha sentito raccontare dai poeti sulle sue peripezie. Nelle prime pagine il tono è comprensivo e pacato, sa che Odisseo è partito per Troia controvoglia e solo perché ha dovuto, man mano che gli anni passano dopo la fine della guerra però la comprensione si assottiglia. Penelope comincia ad infastidirsi e il tono delle lettere cambia drasticamente.
Altro capitolo notevole (almeno per me) è quello dedicato a Pentesilea, regina delle Amazzoni che decide di unirsi ai Troiani per sconfiggere i greci e quando arriva per la prima volta sul campo di battaglia lo descrive così: “Pentesilea si accorse che ormai i troiani erano un’accozzaglia di combattenti. Dov’erano gli eroi di cui aveva udito nel canto dei poeti? Ettore era morto certo, ma dov’erano Paride, Glauco, Enea? Si accigliò mentre passava in rassegna gli uomini, senza vederne nessuno che fosse alto o forte. I loro bicipiti erano meno possenti dei suoi. Dovevano pur esserci dei valorosi soldati tra loro, ma non erano i guerrieri che si era aspettata di trovare”.
Questo tema della demistificazione della guerra e dell’epicità ricorre in tutto il libro. La guerra la combattono gli uomini, ma le conseguenze colpiscono tutti e alla fine non sono gli uomini ad essere ridotti in schiavitù e dati in premio ai vincitori. Proprio gli uomini sono spesso rappresentati come vere e proprie macchiette, uno su tutti Agamennone, iracondo e subdolo, disprezzato dai suoi uomini e troppo arrogante per capirlo, oppure Achille, guerriero leggendario ma con una profondità di pensiero estremamente limitata, o anche Odisseo, sicuramente intelligente, ma rappresentato come viscido e molto egoista.
Molto interessanti sono anche i capitoli dedicati alle divinità, che spesso si rivelano più umane degli stessi esseri umani nelle loro passioni e sentimenti. Proprio loro sono la vera causa scatenante della decennale guerra.
Certamente l’approccio alla materia è sicuramente contemporaneo: del resto, quando si vuole ritrattare una storia come questa, un’altra chiave di lettura sarebbe impossibile. La dissonanza tra la materia prima e ciò che si vuole fare, però, fa’ sì che ci siano momenti in cui l’autrice vuole essere certa che i lettori stiano capendo il messaggio, peraltro perfettamente integrato nelle storie delle donne. In queste situazioni quindi fa parlare Calliope che esplicita per il lettore quello che sta succedendo.
Nonostante questo problema sia condiviso da altri romanzi che rientrano nel “genere” del retelling, questi libri sono sempre di più e hanno anche molto successo, per esempio Il canto di Calliope è stato candidato nel 2020 per il Women’s Prize for Fiction. I motivi di questo successo sono molteplici, ma uno è sicuramente il rinnovato interesse per la storia delle donne e l’attualità dei temi.
Se il movimento Me Too ci ha mostrato qualcosa è che, così come per condannare i nostri eroi del passato abbiamo avuto bisogno di molto tempo e di molte autrici che dessero voce a personaggi femminili rimasti nell’ombra, così oggi abbiamo bisogno di tempo e di un coro di voci perché emergano le testimonianze di chi è stato abusato e perché i colpevoli vengano affidati alla giustizia. Spesso serve che più donne si facciano avanti per condannare un uomo famoso, per esempio: anche se le donne hanno una voce, questa vale meno di quella di un uomo. Le cose, però, stanno cambiando e forse questo interesse nel ritrattare le storie del passato è una spia di questo cambiamento.
Qui la scheda di questo libro sperando di avervi fatto cosa gradita!
La pergamena della seduzione unisce sapientemente una precisa ricostruzione storica della vita di Giovanna la Pazza con una vicenda ambientata negli anni sessanta.
Lucia ha 17 anni, è orfana ed è stata mandata a Madrid a studiare in un collegio di monache. Conosce casualmente un professore quarantenne, appartenente a un’antica famiglia nobiliare. Questi è ossessionato dalla figura di Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, andata giovanissima in sposa a Filippo il Bello. Manuel convince Lucia a indossare antichi abiti, simili a quelli che indossava Giovanna e, raccontandole la vera storia di questa principessa, la fa entrare pian piano nella psicologia della stessa e le fa rivivere il suo passato. Quello che nasce quasi come gioco si rivela un percorso complicato, che coinvolge Lucia e ne stravolge la vita.
L’aspetto più interessante del romanzo è la revisione storica della vicenda di Giovanna, ingiustamente rimasta nei libri di storia come “la pazza”. In realtà, come molti storici hanno confermato, lei era una donna passionale, colta, indipendente, schiacciata dalle ambizioni del marito e da quelle del padre. Tradita da tutti, madre, padre, marito, figli, viene rinchiusa per quarantasei anni, sino alla morte, in una fortezza, senza alcun contatto con il mondo esterno.
Dice l’autrice “qualsiasi donna con la piena coscienza di sè, messa davanti agli arbitri e ai soprusi che ha dovuto affrontare, si sarebbe almeno depressa. E la depressione anche cronica non ha nulla a che fare con la schizofrenia“.
Mi ha avvinto la storia di questa donna, tanto da invogliarmi ad approfondire la sua vicenda umana. Meno riuscita e un po’ morbosa, invece, la relazione tra Lucia e Manuel. Molto abile la scrittrice nell’analizzare la psicologia femminile e gli aspetti dell’innamoramento.
Un romanzo avvincente, ben scritto.
Oltre al libro mi ha conquistato la vita dell’autrice.
Gioconda Belli è giornalista, poetessa e scrittrice. La sua vita è come un romanzo.
Nasce nel 1948 in Nicaragua, in una famiglia di origine italiana, emigrata in Sudamerica per lavorare alla costruzione del canale di Panama. Seconda di 5 figli, Gioconda vive in una famiglie benestante, per cui può studiare e perfezionarsi sia in Spagna che in America. Si diploma in giornalismo a Filadelfia. A 18 anni si sposa con una cerimonia sfarzosa, nasce la prima figlia, Maryam, e Gioconda si comporta come una disincantata signora borghese.
L’incontro con un uomo che chiama “il Poeta”, di cui diviene l’amante, l’introduce nel movimento del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale: conduce una doppia vita, in apparenza tranquilla borghese, in sostanza rivoluzionaria. Nel 1970 pubblica una raccolta di poesie, in cui esprime le proprie tensioni interne. Ha un’altra figlia, Melissa, si separa dal marito e s’innamora di un dirigente sandinista, Marcos (Eduardo Contrera Escobar), impegnandosi attivamente nel movimento.
Nel 1975 affida le figlie ai genitori e fugge in Messico, per evitare l’arresto. Si stabilisce in Costa Rica dal 1976, per decisione di Marcos, per organizzare i rifugiati. Marcos viene ucciso e per Gioconda è un grande dolore, anche se lui l’aveva abbandonata per un’altra donna. Divorzia dal marito e si fa raggiungere dalle figlie. Sposa il brasiliano Sergio de Castro, da cui ha un figlio, Camillo. Intensifica il proprio impegno politico, viaggiando molto per perorare la causa sandinista.
Tornata in patria, nel 1979, in seguito alla vittoria del fronte sandinista ottiene cariche all’interno del governo rivoluzionario. Quando potrebbe vivere tranquillamente, s’innamora pazzamente del comandante Modesto, uno dei membri della Direzione Nazionale, e rompe il matrimonio, iniziando una relazione complessa. Divergenze con il partito spingono Gioconda a dimettersi dalle cariche e prendere un periodo di ripensamento.
Nel 1984 incontra il giornalista americano Charlie Castaldi, che sposa nel 1987. Inizia una seconda vita, tra America e Nicaragua, dedicandosi prevalentemente alla letteratura. Ha un’altra figlia, Adriana. La raccolta di poesie La costola di Eva ottiene successo internazionale, così come il primo romanzo La donna abitata, pubblicato nel 1989. Seguono: Sofia dei presagi, Waslala, Il paese sotto la pelle, La pergamena della seduzione e L’infinito nel palmo della mano.
Due cose che non ho deciso io hanno determinato la mia vita: il paese in cui sono nata e il sesso col quale sono venuta al mondo […] Non sono stata ribelle fin da piccola. Al contrario. Niente faceva presagire ai miei genitori che la creatura ammodo, dolce e garbata, delle mie fotografie infantili si sarebbe trasformata nella donna rivoluzionaria che tolse loro il sonno. […] Sono stata due donne e ho vissuto due vite. Una delle due donne voleva far tutto secondo i canoni classici della femminilità: sposarsi, fare figli, nutrirli, essere docile e compiacente. L’altra aspirava ai privilegi maschili: sentirsi indipendente, essere considerata per se stessa, avere una vita pubblica, la possibilità di muoversi, amanti. Ho consumato gran parte della vita alla ricerca di un equilibrio tra queste due donne, per unirne le forze, per non essere dilaniata dalle loro battaglie a morsi e graffi. Penso di avere ottenuto, alla fine che entrambe le donne coesistessero sotto la stessa pelle. Senza rinunciare a sentirmi donna, credo di essere riuscita a essere anche uomo“. ( da, Il paese sotto la pelle)
Esplorò in barca vela il Mediterraneo fino a quando, a 23 anni, abbandonò le regate e cominciò a viaggiare con la compagna Annemarie Schwarzenbach dall’Europa all’ Afghanistan .
Ella Maillart (1903-1997) era nata a Ginevra, padre commerciante di pellicce, uomo di vedute liberali e madre di origine danese, appassionata di sport. Da ragazzina si distinse nello sci, nella vela e fondò a 16 anni il primo circolo femminile di hockey su ghiaccio della Svizzera francese.
Era appassionata di mappe, avventure e viaggi in terre lontane e diventò una grande esploratrice, scrittrice e fotografa.
Nel 1932 attraversò da sola il Turkestan russo, vivendo con le tribù nomadi locali. Al suo ritorno raccontò il viaggio nel libro “Vagabonda nel Turkestan”.
Nel 1939, con la compagna Annemarie Schwarrzenbach, (un’anima fragile e tormentata in fuga da un matrimonio di facciata e con una dipendenza dalla morfina), inquieta scrittrice, fotografa e giornalista, viaggiò dalla Svizzera all’Afghanistan a bordo di una Ford. (Foto)
Si lasciarono a Kabul, proseguendo ciascuna per la propria strada.
Ella Maillart raccontò quell’avventura nel libro “La via crudele. Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul”, definendola “un viaggio più psicologico che geografico”.
Annemarie pubblicò “La via per Kabul, Turchia, Persia, Afghanistan 1939-40”; morì due anni dopo in Engadina poco più che trentenne, per le ferite dovute a una banale caduta da bicicletta
Negli anni successivi, Ella Maillart fece trekking per 8 mesi da Pechino lungo la Via della Seta, si trasferì in India durante la Seconda Guerra Mondiale, prendendo lezioni spirituali dai grandi maestri e a 91 anni intraprese l’ultimo viaggio della sua vita, fino a Goa.
Ella Maillart
Morì a Chandolin nel 1997 in Svizzera, all’età di 94 anni, dopo aver testimoniato con la sua vita che il corretto equilibrio si può trovare a contatto con le popolazioni semplici e primitive: i nomadi, i montanari, i marinai.
Le sono stati dedicati numerosi libri e il film “Ella Maillart: Double Journey” del 2015 che racconta le tappe salienti del viaggio in Afghanistan e India, documentato attraverso i diari, le fotografie e i filmati in 16mm.