Mese: febbraio 2022

Lasciarsi un giorno a Roma.

Lasciarsi un giorno a Roma è un film del 2021 diretto da Edoardo Leo, con Edoardo Leo, Marta Nieto, Claudia Gerini , Stefano Fresi e narra il rapporto complesso di coppie “navigate”.

I personaggi principali si trovano all’interno di una crisi profonda dettata dal successo della compagna che mette in crisi il maschio.
Zoe è un’affermata imprenditrice, mentre il suo compagno, Tommaso, è uno scrittore che arrotonda lo stipendio rispondendo alle lettere del cuore di donne per una rivista femminile.

Tommaso verrà a conoscenza dell’intenzione di Zoe di chiudere la loro relazione proprio per una lettera che lei scriverà alla posta del cuore della rivista per cui lui scrive sotto lo pseudonimo di Marquez.

L’altra coppia del film è composta dalla sindaca di Roma, fagocitata da impegni burocatrici che la tengono occpata h24 sul lavoro. Il marito, un professore, si trova chiuso nella morsa della carriera della moglie, costretto a rientrare in cliché che non gli appartengono e si deve occupare della figlia e della casa.
Le storie si intrecciano e i punti di vista di sofferenza sia femminili che maschili vengono portati alla luce mettendo in risalto le rispettive sofferenze.

Lo consiglio perché…
Seppure la trama sia il semplice ribaltimento di ruoli, ho trovato interessante come il regista sia stato in grado di dare voce alla frustrazione e alla fragilità maschile, permettendo ai personaggi maschili di parlare delle loro emozioni e sofferenze.

Sofferenze e frustrazioni che si possono leggere anche nei personaggi femminili del film. Per la prima volta i sentimenti si mescolano e restano il filo conduttore del film, mettendo in evidenza che non importa il genere a cui una persona appartiene, l’emozione è la medesima.

Laddove ci troviamo ad indagare scopriamo che l’emozione non è rosa o azzurra, non ha colore, se non quello legato allo stato d’animo.

Bello e intrigante vedere e toccare che anche “l’uomo che non deve chiedere mai” può parlare del suo “sentire”, interessante osservare l’umanità che ci collega tutti, indipendentemente dal ruolo, dal sesso.

Siamo quello che non conosciamo…

Nell’era dei tuttologi digitali chiunque ritiene di avere titolo per parlare con “competenza” di qualsiasi cosa. Le discussioni sui social network ne sono un plastico esempio. C’è gente che non riesce ad azzeccare il quoziente di una divisione nemmeno per sbaglio, ma nonostante ciò sale in cattedra per pontificare in materia di ingegneria, fisica e chimica.

Ma per i libri è diverso. Se qualcuno ci parla di libri famosi, quei must che è indispensabile aver letto (o “riletto”, come dicono i cultural chic), noi andiamo in crisi perché non conosciamo nemmeno il colore delle copertine. Immediatamente ci assale un senso di disagio, di imbarazzo e addirittura di colpa. Per un attimo rimaniamo sospesi, fra la ricerca del coraggio per confessare che non abbiamo mai letto la Recherche, l’UlisseAnna Karenina ed esprimere un commento per non passare da ignoranti. 

Eppure, in molte occasioni, riusciamo a cavarcela più che egregiamente. Perché leggere non è solo la fase terminale di un atto cominciato con la creazione da parte dello scrittore, ma è un processo di costruzione del nostro mondo più intimo. Tant’è che non esistono due persone che leggono lo stesso libro nello stesso modo, ovvero ricavandone le medesime sensazioni. La lettura delle pagine, dalla prima all’ultima, non è un fatto meccanico che si esaurisce in sé. Cambia la nostra percezione delle persone e delle cose, cambia il tempo, cambiamo noi. Letti oggi, lontani anni luce dagli obblighi scolastici e da noi stessi, I promessi sposi sono un altro libro.

In questa nuova dimensione che lascia sullo sfondo la lettura come mero esercizio sequenziale, ci troviamo immersi in uno spazio dove i nostri ricordi e, talvolta, i nostri fantasmi, diventano i mediatori indiscussi di una ricostruzione tout court del libro. E quest’ultimo è sempre una nostra invenzione, sia che l’abbiamo letto oppure no. È questo l’unico statuto possibile dei libri, cioè quello di (ri)creare continuamente nuovi mondi dentro di noi. Un territorio immaginifico che culmina con il paradosso di Oscar Wilde: “Non leggo mai libri che voglio recensire: non vorrei rimanerne influenzato”.

Sulla stessa lunghezza d’onda, si collocano le certezze del bibliotecario de L’uomo senza qualità di Musil. Non ha mai letto i libri che conserva sugli scaffali, ma li conosceva tutti. A dimostrazione del fatto che la cultura non deriva dal numero di pagine lette, ma dal senso di orientamento acquisito grazie alla visione d’insieme, derivata, a sua volta, dai segnali che le relazioni con gli altri ci lasciano, volontariamente o involontariamente. È il trucco di Guglielmo da Baskerville.

La lettura, o la non lettura, è sempre un viaggio. Per meglio dire, è il racconto di un viaggio, reale e fantastico allo stesso tempo. Ritornano la memoria, le connessioni, l’invenzione. Pare che Marco Polo non si sia spinto oltre Costantinopoli, eppure il racconto del suo viaggio nelle terre di Kubilai Khan è minuzioso, particolareggiato, verosimile. Ci dice tutto sui liocorni e nulla sulla Grande Muraglia che avrebbe dovuto vedere se davvero fosse stato dove ha detto.

Il mercante veneziano mente solo a sé stesso, perché le sue ricostruzioni fantasiose di animali pseudo-mitologici incontrano le “verità” che il suo tempo voleva ascoltare.

Come per i libri non letti, anche un viaggio che abbiamo fatto, ma che è scomparso dalla nostra memoria, resta un posto che ci ha visti transitare, sostare, pensare.

Alla fine, più che un luogo fisico, il nostro è sempre un viaggio che si snoda, ancora una volta, dentro di noi. In perenne equilibrio fra quello che immaginiamo e quello che non sappiamo.

Poesia e arte.

EDWARD HOPPER, “HOTEL ROOM, 1931

Quando trovo poesie che prendono ispirazione da un dipinto, resto affascinata: il connubio tra poesia e arte mi consente di valutare come un’altra persona interpreta i sentimenti e le sensazioni espresse dalla tela.

Il dipinto che vi propongo è del pittore statunitense Edward Hopper, Hotel Room, del 1931, esposto al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

A dargli voce e forma di poesia è la filologa spagnola Josefa Parra (Jerez de la Frontera, 1965): la dolorosa tristezza di un’attesa vana e senza speranze, come spesso appare nelle opere di Edward Hopper.

Josefa Parra

Una triste piccola speranza di Josefa Parra

Se c’era ancora una promessa

tra me e te, un’offerta

prolungata, una luce laggiù

da poter seguire;

se restava la speranza

sebbene fosse una triste

piccola speranza;

se anche le tue labbra

mai hanno pronunciato

la parola mortale che io desideravo,

o qualcosa che le assomigliasse,

penso che ancora avrei trovato

una ragione per aspettarti.

E chissà se il commercio di carne

non fu, in qualche modo, una promessa?

(da Alcoba del agua, Quórum, 2002)