“Non mi dispiace fare le code, c’è tempo per pensare…”
Mai come di questi tempi!
Amare la vita è non sprecarne neanche un attimo, trovare anche in ciò che pare noioso la bellezza…
E quale cosa più bella che, avere tempo e molto, per pensare, per guardare con stupore sempre nuovo il mondo, per leggere o scrivere un verso?.
Robert Doisneau, Fila davanti un negozio di alimentari.
Code
Non mi dispiace fare le code,
c’è tempo per pensare,
per guardare dentro la borsa,
dentro la tasca dell’auto,
tempo per programmare i giorni a venire
domani dopodomani,
per guardare negli occhi di quell’extra gentile
(che vetro scintillante mi ha fatto,
gli ho chiesto il sinistro domani il destro,
ogni giorno un pezzetto diverso)
tempo per guardare quel bel geranio al quarto piano,
sta bagnandolo una vecchina pulita, bellina,
tempo per leggere i titoli, il nome di una via,
tempo per cominciare questa poesia.
Vivian Lamarque
Vivian Lamarque (Tesero, 19 aprile 1946) è una scrittrice e poetessa italiana.
Ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in licei privati. Ha tradotto La Fontaine, Valéry, Prévert, Baudelaire. Dal 1992 scrive sul Corriere della Sera.
Il suo primo libro, “Teresino”, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima nel 1981.
Tra gli altri successivi premi, il Montale (1993), il Pen Club ed il Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo (1996) nella sezione poesia, il Camajore (2003), l’Elsa Morante (2005), il Cardarelli-Tarquinia (2006). Autrice anche di molte fiabe, ha ottenuto il Premio Rodari (1997) e il Premio Andersen (2000). Gran parte della sua produzione poetica è stata raccolta nell’Oscar Mondadori Poesie 1972-2002.
Robert Doisneau (Gentilly, 14 aprile 1912 – Montrouge, 1º aprile 1994) è stato un fotografo francese, autore del famosissimo “Bacio all’Hotel de Ville”.
“Henry Holiday, l’incontro immaginario fra Dante e Beatrice (con il vestito bianco) accompagnata dall’amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte Santa Trinità in Firenze (1883)“
Non deve avere avuto un’esistenza semplice e serena Gemma Donati.
Gemma…chi? Chi è costei? Forse qualcuno nel leggere il suo nome ci ha dovuto pensare un po’ prima di identificarla nella sua mente, o forse non la si è mai sentita particolarmente nominare. Eppure, essendo moglie di un uomo italiano altamente illustre e appartenendo lei stessa ad una famiglia che non passava certo inosservata a Firenze nel XIII secolo, avrebbe dovuto godere di altrettanta memoria. E invece di Gemma non si parla mai, se non in pochissime occasioni relegate a momenti di approfondimento critico e accademico.
Figlia di Manetto Donati, cugina di terzo grado di Corso, Forese e Piccarda Donati, Gemma era nata forse il 3 marzo 1265, stesso anno del suo sposo promesso, niente poco di meno che Dante, Dante Alighieri! Lui, il sommo poeta, idolo letterario di intere generazioni da sempre, l’autore dell’opera più letta, studiata, amata e tradotta al mondo dopo la Bibbia, un’opera che mette al centro più di ogni altra cosa l’amore, ogni forma di amore: quello di Dio per l’umanità e quello degli esseri umani per i propri simili.
Il destino di Gemma è quanto di più triste una donna si possa augurare. Promessa in matrimonio a Dante per interesse già dal 9 febbraio 1277, data vergata nell’atto notarile del fiorentino ser Oberto Aldovini, in cui si stabiliva anche la dote di Gemma in 200 fiorini, tra il 1285 e il 1290 la fanciulla si ritrovò sposata all’austero e in altre faccende affaccendato Dante, figlio di Alighiero di Bellincione di Alighiero, famiglia fiorentina di piccola nobiltà ma decaduta. L’unione con Gemma rappresentava il classico matrimonio combinato, promessi alla tenerissima età di dodici anni e con molta probabilità senza alcun fondamento d’amore, il che non è inusuale per l’epoca. Ma fin qui nulla di strano per una giovane in pieno Medioevo. Sarebbe stato un matrimonio ordinario come tanti, se non ci fosse stata la presenza incombente, ingombrante, strabordante di un’altra donna, l’unica che Dante amerà di amore assoluto e divinizzato: Bice, figlia di Folco Portinari, a noi nota, notissima come Beatrice.
Deve essere stato questo il vero grande dramma interiore di Gemma: la sua presenza di donna e moglie non ha avuto alcun riflesso nella vita e nella vasta opera di Dante. Non un cenno, non una menzione, ogni verso, ogni frase, ogni riferimento è rivolto alla donna che ha rapito Dante da quando aveva solo nove anni fino alla sua morte. Non solo: Beatrice era sposata a Simone de’ Bardi, ricco banchiere di Firenze, anche lei con un destino segnato dalla morte, probabilmente per il parto del primo figlio, essendo giovanissima, appena adolescente, quando viene, pure lei, destinata al matrimonio combinato.
A Beatrice il sommo poeta ha dedicato un intero, e meraviglioso, romanzo autobiografico, la Vita Nova, la sua presenza si intravede già nelle varie rime precedenti la Divina Commedia, è per lei che Dante ha la forza di attraversare la selva oscura della sua esistenza e di compiere un viaggio ultraterreno che lo porterà ad incontrarla, con sua immensa e indicibile gioia.
Insomma, un’intera esistenza, quella di Gemma, vissuta nel più totale “esilio” non volontario e nella rassegnazione, quella che accomuna gran parte delle donne del passato, non consce del tutto dei loro diritti ma ben istruite sui loro doveri verso il coniuge e verso il focolare domestico. Una rassegnazione che permette a Gemma di vivere accanto a Dante senza mai ribellarsi, a quanto ne sappiamo, e mettere al mondo ben tre figli certi e uno probabile: Pietro, Iacopo, Antonia e forse un Giovanni.
Sento già chi dice “ma con tutto quello che sta succedendo, ti pare il caso di parlare di questo?” oppure ” i problemi sono ben altri”
Io credo però che anche in questo momento drammatico del nostro Paese e forse ancor di più proprio per questo, dobbiamo farci delle domande sul perché ancora una volta chi sta gestendo tutta la situazione emergenziale del nostro Paese, a livello politico, sono solamente o quasi esclusivamente uomini.
È una domanda che mi faccio ogni giorno quando in televisione, alle 18 c’è il quotidiano collegamento con la Protezione civile, quando da ogni regione vanno in onda le interviste ai presidenti di Regione e agli assessori della sanità, quando nei vari talk show vengono intervistati primari, infettivologi, direttori di dipartimento.
Le uniche donne che ogni tanto appaiono in televisione o in qualche intervista sono le Ministre Lamorgese e De Micheli: sono ai vertici di Ministeri importanti e nevralgici per questo momento eccezionale e stanno gestendo con fermezza, senso di responsabilità e pacatezza questa fase, sobrie dal punto di vista della comunicazione e della visibilità.
È noto che il gender gap nella gestione del potere è enorme, sempre; ed anche in questa fase inevitabilmente lo constatiamo.
La fotografia dell’ infermiera stremata che si addormenta sul computer, raffrontata a quella del tavolo a cui siedono ogni sera tutti i responsabili della Protezione civile è ancora una volta emblematica di come sono suddivisi i ruoli fra uomini e donne nel nostro Paese.
Le donne in questa emergenza sanitaria ci sono e la stanno affrontando con una abnegazione incredibile; non parlo solo di quelle in prima linea negli ospedali e nei servizi socio assistenziali, parlo anche di tutte le donne che stanno dimostrando su svariati fronti contemporaneamente, una forza e una resilienza fuori dal comune.
La donna che, ogni giorno si fa carico del lavoro di cura dei figli, degli anziani e di tutta la famiglia in generale, quella donna che come giustamente dice Michela Murgia nella prefazione del libro “Bastava chiedere” “…assume su di sé (la funzione materna) perché è educata a pensare di esservi naturalmente più portata e lo fa prendendosi anche il carico emotivo di sapere che – se per caso non lo facesse o volesse smettere di farlo – l’intero sistema dei suoi rapporti verrebbe giù, dato che è costruito usando proprio quella funzione come punto di scarico di tutta la struttura.” in questo particolare momento è sovraccaricata di incombenze fisiche e mentali.
Non solo si deve far carico del doppio lavoro, se ne ha un altro oltre quello domestico, inventandosi uno smart working casalingo, spesso molto difficile da mettere in pratica per le condizioni oggettive della casa (spazi limitati, figli con lezioni scolastiche virtuali ecc. ecc.), ma spesso è quella che prende su di sé e cerca di risolvere le ansie, le paure i tanti momenti di depressione di figli, mariti, genitori anziani, che inevitabilmente, in questi giorni, sono presenti nella vita di tutte noi.
Sarà forse proprio per questa forza che le donne sono meno contagiate dal coronavirus?
Dobbiamo dirlo ancora una volta sino allo sfinimento? Le donne ci sono , hanno tenacia, competenze e voglia di mettersi in gioco anche in momenti come questi. Il dramma che stiamo vivendo ci lascerà in eredità lutti, dolore, angoscia, ansia per il futuro, ma potrebbe anche essere un’opportunità per rivedere i meccanismi decisionali del nostro Paese, per cambiare il sistema dei valori della nostra società, per azzerare le disuguaglianze ed accorciare il gap di genere e quello generazionale, per ripensare in che mondo e in che ambiente noi vogliamo vivere e far crescere le nuove generazioni.Noi donne siamo pronte a questa sfida e se i poteri decisionali maschili non lo capiranno dovremo essere pronte ad imporci per cambiare questo sistema.
A Felicita Frai dedicarono scritti, volumi, poesie, per omaggiare la sua bravura si, ma anche la sua incredibile bellezza.
Il suo vero nome era Felice Frajova, nacque a Praga il 20 ottobre 1909 ma si trasferì appena maggiorenne in Italia, a Trieste, e decise di italianizzare un po’ il suo nome. Alta, bionda, occhi azzurri, era una donna provocante ammirata dagli uomini ed invidiata dalle donne.
Era provocante e sapeva di esserlo, lei stessa, ricordando la sua gioventù, disse:
“Ero radiosa, avevo dentro una luminosità, che la gente sentiva”
Fu tra le artiste più influenti degli anni ’40, probabilmente perché quella stessa luce che lei emanava, la metteva tutta nei suoi dipinti, così le sue donne-bambine vestite, nude o seminude, a volte provocanti e con le labbra carnose, erano tanto ammirate dal pubblico.
Sono donne dipinte da una donna
Ragazze con fiori
Ebbe diversi mariti e flirt ma il suo grande amore fu Achille Funi, il pittore ferrarese presentatole da Leonor Fini, che la prese sotto la sua ala, le fece da maestro, da collaboratore e da amante. Con lui studiò la tecnica dell’affresco e collaborò, nel 1936 alla decorazione de Il mito di Ferrara nella sala dell’Arengo del Palazzo Municipale. Lavorarono insieme a Ferrara, Milano, Tripoli, erano felici. Ma come lei stessa raccontò:
“Funi aveva paura di vivere. Un giorno mi disse: ho quarant’anni e devo smettere di fare l’amore. Temendo un futuro grigio, presi il primo treno e scappai piangendo a Milano. Sapevo d’aver perso la felicità.”
A Milano frequentò lo studio di De Chirico che tanto la elogiava per la sua bravura, partecipò a tutte le edizioni della triennale, lavorò molto dedicandosi anche all’incisione e all’illustrazione di libri come Viaggio attraverso lo specchio di Lewis Carroll, lo scrittore di Alice nel paese delle meraviglie. Ma non si fermò qui, lavorò alle decorazioni dei saloni di grandi transatlantici, tra cui l’Andrea Doria
È proprio a Milano che Felicita diventa l’artista famosa che oggi ricordiamo. Frequentò artisti del calibro di De Pisis, Carrà, Morandi, ebbe commissioni importanti e lei divenne la ritrattista delle donne.
Rappresentò la figura femminile in tutte le forme e colori, fece più di 100 ritratti, 100, come i suoi anni quando morì.
Si spense a Milano il 14 aprile 2010.
Nell’ultimo periodo della sua vita si avvicinò ad uno stile sempre più fiabesco. Donne come fiori è il titolo di uno dei suoi quadri. I capelli delle donne sono adornati dai fiori e i fiori quasi diventano farfalle, tutto incredibilmente leggero e poetico.
La sua fu una vita consacrata all’arte, ma quando in una delle sue ultime interviste, le viene chiesto chi è Felicita Frai, lei rispose:
“Un granello di sabbia che il vento ha fatto volare fuori posto, e mi domando: da dove sono uscita?”