Mese: settembre 2022

Grace Kelly, da diva a principessa.

La vita di Grace Kelly non pare dissimile da quella di una principessa delle fiabe, anche se con un finale inaspettatamente tragico.

Grace Patricia Kelly nacque il 12 novembre del 1929 a Filadelfia, terzogenita di una delle famiglie più famose e facoltose della costa orientale degli Stati Uniti. Suo padre, John B. Kelly, meglio conosciuto come Jack, figlio di immigrati irlandesi, raggiunse la notorietà e il successo essendo tre volte campione olimpico di canottaggio; una volta ritiratosi divenne imprenditore e proprietario di una ditta di costruzioni, e collaborò più volte con la presidenza statunitense per l’ideazione di programmi sportivi. I suoi due fratelli erano a loro volta famosi: Walter C. era una star del teatro vaudeville e partecipò ad alcuni film per la Metro-Goldwyn-Meyer e la Paramount Pictures; George era un commediografo, sceneggiatore e regista che vinse anche un premio Pulitzer per le sue opere.

La madre di Grace, Margaret Majer, di discendenza tedesca, insegnava Educazione fisica all’università della Pennsylvania e aveva un passato da modella; rinunciò a lavorare quando divenne madre, dedicandosi alla cura delle figlie e del figlio – in ordine di età: Margaret, John Jr., Grace ed Elizabeth – finché non raggiunsero l’età scolare, dopodiché partecipò a varie organizzazioni civili e di beneficenza.

Grace ricevette un’educazione strettamente cattolica, studiando anche danza e recitazione. A dodici anni partecipò al suo primo spettacolo col ruolo di protagonista in Don’t Feed the Animals. Lo scarso rendimento scolastico le costò l’ammissione al Bennington College nel 1947, un duro colpo per il suo futuro lavorativo. Non che in realtà ne avesse bisogno considerando la grande ricchezza della sua famiglia, ma Kelly detestava l’idea di essere una semplice ereditiera che sperpera le fortune altrui; per questo, anche se contro il parere dei genitori, decise di perseguire il suo sogno di diventare un’attrice, ispirata dalle grandi dive di Hollywood come Ingrid Bergman. 

Fu lo zio George ad aiutarla a fare i primi passi nel mondo del cinema, riuscendo a farle superare una audizione dell’American Academy of Dramatic Arts a cui Grace partecipò portando una scena tratta da The Torch-Beares, scritta da George stesso. Sotto la guida dello zio e grazie alla propria diligenza e perseveranza ottenne il suo debutto a Broadway nel dramma Il padre di August Strindberg, per il quale vinse il Theatre World Award. Nello stesso periodo ottenne anche i primi contratti da modella.

Grace Kelly in La quattordicesima ora

Nel 1950 il produttore Delbert Mann la assunse come protagonista nell’adattamento televisivo del romanzo Bethel Merriday di Sinclair Lewis, parte della serie The Philco Television Playhouse, a cui partecipò anche per le puntate successive; nel frattempo continuò a lavorare nel teatro, con ruoli in diverse opere come The Rockingham Tea SetThe Apple Tree e The Mirror of Delusion. Impressionato dalle sue doti recitative, il produttore Henry Hathaway le assegnò una parte minore nel film La quattordicesima ora: Kelly, nel ruolo di una donna in procinto di firmare le carte del divorzio che cambia idea dopo aver visto il salvataggio di un suicida, ottenne grandi riconoscimenti pubblici ma la sua performance fu quasi ignorata dalla critica, che la relegò a una meteora dalla fama effimera.

Visto l’incerto futuro nel cinema, decise di continuare nel mondo del teatro, dove ormai aveva una solida reputazione, apparendo anche in singoli episodi di varie serie televisive, fra cui Actor StudioLights Out, Big Town, The Clock, The Web Danger. Fu al teatro Elitch del Colorado che le venne offerto il ruolo di co-protagonista nel western firmato Fred Zinneman High Noon (Mezzogiorno di fuoco), che fu il trampolino di lancio verso il successo: Grace interpretò la moglie quacquera dello sceriffo Will Kane ― la star Gary Cooper ― il quale deve affrontare la vendetta di un bandito arrestato anni prima. Il personaggio di Kelly, una donna profondamente religiosa e avversa alla violenza che per amore del marito non esita a uccidere, ispirò forti contestazioni nell’epoca del rigido e moralistico codice Hays, che regolava le scene di sesso e violenza nei film hollywoodiani. Il pubblico e la critica ancora una volta si ritrovarono spaccati quando dovettero giudicare il lavoro della giovane attrice: mentre il pubblico la lodò per aver saputo osare con un ruolo del genere e fece sbancare il botteghino al film, la critica fu molto più fredda, trovando la caratterizzazione del personaggio inconsistente; Alfred Hitchcock la definì «moscia, poco espressiva», ma non negava che avesse del potenziale non ancora sbocciato. 

Il libro del mese… “La vergogna” di Annie Ernaux

“Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri”.

Breve sinossi…

Romanzo dell’infanzia e dei suoi abissi, la vergogna ricostruisce con spietata lucidità una presa di consapevolezza: quella di una bambina di dodici anni testimone della “scena” spartiacque, rimasta a lungo indicibile, che le fa scoprire di colpo di essere dalla parte sbagliata della società. Inventariando i linguaggi, i riti e le norme che delimitavano il suo pensiero e la sua condotta di allora, Ernaux sprofonda nella memoria intima e collettiva – fatta di usanze, espressioni e modi di dire – e scompone l’habitat del mondo in cui era immersa: la scuola privata, i codici della religione cattolica, il culto della “buona educazione”, le leggi non scritte ma inviolabili della gerarchia sociale.

Come nessun altro, Annie Ernaux riesce a mettere a fuoco con bruciante distacco – da esemplare “etnologa di se stessa” – la più indifesa delle età, raccontando quel violento e reiterato sconcerto che è l’ingresso nella vita adulta. Da qui la Vergogna.

Ma che cos’è la vergogna? É un sentimento che sorge nel momento in cui si lascia l’infanzia e l’innocenza che appartiene a quel periodo della nostra vita.

Annie Ernaux

E quando succede? Nel caso di Annie Ernaux c’è un episodio ben preciso: un atto di violenza commesso dal padre verso la madre. Una domenica di giugno del 1952 è una data spartiacque nella vita di Annie Ernaux. Aveva dodici anni e si ritrovò ad assistere a una lite violenta tra i genitori, una scena “indicibile”, in cui il padre ebbe l’impulso di uccidere la madre.
Nasce così la “vergogna”, sensazione che la accompagnerà a lungo, separando la bambina che era prima di quella domenica dalla Annie del “dopo”. Nulla sarà più lo stesso, la vergogna le si incolla addosso qualunque cosa faccia. Non ne può parlare, non esistono parole per descrivere un episodio del genere, finché, a distanza di molti anni, decide di scriverne. E nel farlo, le sembra che la scena si ridimensioni, perché:

“Forse la narrazione, ogni narrazione, rende normale qualunque gesto, anche il più drammatico”.

Col suo linguaggio asciutto, spesso erroneamente definito algido e privo di sentimento, magnificamente reso dalla traduzione di Lorenzo Flabbi, la Ernaux tenta di reinserire l’accaduto nel suo contesto, in quel 1952 ormai lontano. Tra fotografie precedenti e successive a quella domenica, in cui cerca di individuare il tratto caratteristico della vergogna percepita, giornali dell’epoca, cartoline e altri, pochi, oggetti personali, l’autrice effettua una ricostruzione quasi chirurgica, lucida della sua vita di ragazzina.

“Quel che mi importa […] è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino inimmaginabile”.

È un viaggio a ritroso verso un mondo che non le appartiene più, verso regole di comportamento cui le sembrava naturale obbedire, verso una religiosità allora vissuta come necessaria, verso la scuola privata in cui, dopo quella domenica, si era sentita fuori posto.

“È la terra natale senza nome in cui, appena vi faccio ritorno, sono subito assalita da un torpore che mi sottrae ogni pensiero, pressoché ogni ricordo puntuale, come se fosse in procinto di inghiottirmi di nuovo”.

Era un paesino, il suo, in cui tutti si conoscevano e si tentava di mantenersi in equilibrio tra le domande fatte agli altri per estorcere informazioni sulla loro vita e l’esigenza di rendere inaccessibile la propria.
C’erano le ville dei ricchi e il quartiere come quello in cui viveva, abitato da persone che non si sognavano di mescolarsi a una classe sociale più elevata. La scuola privata consentiva una certa elasticità da questo punto di vista, sotto l’egida del cattolicesimo. Ma dopo quella terribile domenica, anche questo era stato spazzato via. La vergogna faceva sentire Annie indegna di quella comunità.

“Nella vergogna c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore”.

perché

“La vergogna non è altro che ripetizione e accumulo”.

Anche in altre opere, come Il Posto, si avverte questa sensazione, la vergogna nei confronti della famiglia, del lavoro dei suoi, della stanza in cui vivevano sopra la bottega, con la cucina nel retro, sempre esposti allo sguardo dei clienti.
Qui l’incursione nel passato accentua il distacco dalla Annie scrittrice, che espone al pubblico quello che dovrebbe restare privato.

“Mettere a nudo le regole del mondo dei miei dodici anni mi restituisce per qualche istante l’inafferrabile pesantezza, la sensazione di chiusura che avverto nei sogni. Le parole che ritrovo sono opache, rocce impossibili da smuovere. Prive di immagini precise. Prive persino di senso”.

Significativo, da questo punto di vista, il motto scelto dall’autrice:

“Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo”.
(Paul Auster, L’elogio della solitudine)

Benvenuto Settembre!

Ed ecco che è arrivato il famoso “ ne riparliamo a settembre “… perché in fondo il vero inizio dell’anno non dovrebbe essere il primo di gennaio, ma quello di settembre, quando ritorniamo e abbiamo davanti a noi progetti da iniziare o da portare a termine, prospettive o più semplicemente impegni rimandati per l’interruzione estiva.

Gennaio è freddo, pigro, ci vede ingrassati dai pranzi natalizi, settembre invece è un mese attivo, propositivo, tiepido e se anche in vacanza ci siamo concessi degli strappi alla normale alimentazione, almeno abbiamo nuotato, camminato e forse questo caldo un po’ di fame ce l’ha tolta.

Ricominceremo ad avere ritmi meno lenti e pomeriggi più attivi, Indosseremo nuovamente le camice di seta, gli abiti a mezza manica.

Ritroveremo gli amici, i colleghi, i soliti posti, ma soprattutto noi stesse.

Perché, vedete, il punto è proprio questo, il ritrovarsi, riprendersi, ricominciare da dove ci eravamo lasciate, diciamolo anche un po’ andare, per non pensare, non decidere e non affrontare.

Non dimentichiamo mai un cosa molto importante, noi siamo in grado di fronteggiare qualsiasi situazione, di opporci o di lottare se ci vogliono sopraffare, costringere o anche solo convincere, perché dietro al nostro stile da regine, abbiamo una tuta mimetica da soldato.

Buon settembre a tutte/ i !

La vostra Paola