Mese: ottobre 2018

Giulietta Masina: una donna lontana dagli stereotipi del suo tempo.

Raccontare un personaggio così importante come Giulietta Masina renderà ogni mia parola troppo riduttiva… ma ci proverò lo stesso!

All’anagrafe si chiama Giulia Anna Masina ed è nata a San Giorgio di Piano in provincia di Bologna, il 22 febbraio 1920. Il papà Gaetano è violinista e professore di musica, la mamma Angela Flavia Pasqualin, maestra. È la primogenita a cui seguono Eugenia e due gemelli Mario e Maria. Nel 1925, Giulia va a far visita per alcuni mesi agli zii materni, Eugenio Pasqualin e Giulia Sardi, che vivono a Roma in via Lutezia. I suoi zii sono un po’ fricchettoni, amanti dell’arte del teatro e della musica, viaggiatori d’Europa. Una volta, durante una serata a teatro, si dice che lo zio Eugenio abbia fatto salire la nipote sul palco e da vicinissimo le abbia indicato un famoso signore di nome Luigi Pirandello. 

Dopo la morte prematura di zio Pasqualin, Giulietta si trasferisce a Roma per tener compagnia a sua zia. Viene iscritta al collegio delle suore Orsoline dove frequenta il ginnasio e il liceo. Qui emerge la sua passione per la recitazione: si diletta come attrice nel teatro dell’istituto. Si iscrive all’università di Roma, alla facoltà di Lettere Moderne, e inizia a recitare agli spettacoli dell’università.  Silvio d’Amico addirittura vuole convincere Giulietta ad iscriversi all’Accademia d’Arte Drammatica di cui è presidente, ma per volere della zia, prima di dedicarsi alla recitazione, sua nipote deve laurearsi. Inizia a lavorare in radio con la compagnia teatrale dell’EIAR. Proprio negli studi dell’EIAR, nel 1942, conosce Federico Fellini con il quale si sposa un anno dopo.

Nel 1945, finita la guerra, riesce a laurearsi. Continua a recitare per il teatro dell’università nello spettacolo Angelica, scritto e diretto da Leo Ferrero, in cui recita al fianco di Marcello Mastroianni. Nel 1946 Giulietta inizia la sua carriera nel cinema grazie alla comparsa, nel celeberrimo capolavoro di Roberto Rossellini, Paisà. Nel 1948 avviene il suo primo vero esordio nel cinema grazie al ruolo nel film di Alberto Lattuada, Senza pietàGrazie al suo talento inestimabile e al genio di Federico Fellini, la notorietà di Giulietta Masina come attrice raggiunge i vertici mondiali con i suoi magistrali ruoli in Lo sceicco bianco (1951), La Strada (1954), Il bidone (1955), Luci del varietà (1950), Le notti di Cabiria (1957), Giulietta degli spiriti (1965), Ginger e Fred (1985).

La Strada di Fellini vince nel 1957 l’Oscar come miglior film straniero. L’anno dopo la stessa sorte spetta alle Notti di Cabiria che riceve l’oscar per miglior film straniero nel 1958. Ad annunciarlo è Fred Astaire e a ritirarlo è proprio lei, Giulietta.

Le interpretazioni attoriali di Masina sono innumerevoli ed ognuna ha segnato in modo imponente la storia del cinema italiano. Oltre ai film di Fellini ne cito alcuni: Persiane chiuse (1951) di Luigi Comencini; Cameriera bella presenza offresi…(1951) di Giorgio Pàstina; Europa ’51 (1952) di Roberto Rossellini; Fortunella (1958) di Eduardo De Filippo; Nella città d’inferno (1959) di Renato Castellani  in cui recita con Anna Magnani; Sogni e bisogni (1985) di Sergio Citti.

In cella:

Giulietta Masina non è stata solo una grande attrice e la moglie di Fellini, nonostante la loro storia d’amore abbia legato le loro vite in un mito indissolubile. Dal 1966 al ’69 fu la seguitissima conduttrice del programma radiofonico “Lettere a Giulietta Masina” di cui successivamente venne pubblicato il libro. Una singolare personalità fa di lei una donna lontana dagli stereotipi del suo tempo. Giulietta è anche la prima Godwill ambassador woman dell’Unicef e per questo ha girato tutto il mondo.

Parlare di Giulietta Masina senza parlare di Federico Fellini è praticamente impossibile. Quando si sono conosciuti lei aveva 21 anni: “Sembra un fachiro, somiglia a Gandhi. E’ tutt’occhi, occhi profondi, inquieti, indagatori– diceva Giulietta. È un peperino piccolo piccolo, mi piace tanto, mi fa tanto ridere” diceva lui di lei. Era il 1942 quando negli studi radiofonici di Via delle Botteghe Oscure negli studi dell’EIAR si registra una puntata di “Le avventure di Cico e Pallina”. Qui avviene il fatidico primo incontro tra l’attrice e il regista. Giulia Masina (ribattezzata Giulietta da Fellini stesso) è la voce del personaggio Pallina, Federico Fellini è uno degli autori. Fellini avrebbe voluto fare un film del suo racconto radiofonico e per questo si chiede se la voce di Pallina sarebbe potuta essere anche il volto del personaggio. Il film però non si è mai fatto ma loro diventarono marito e moglie solo nove mesi dopo. 

Come racconta Francesca Fellini, nipote dei due, in un’intervista  i giovani sposini non fanno viaggi di nozze ma vanno in un teatro in cui ricevono una sorpresa da un caro amico. Il caro amico è Alberto Sordi che appena entrano fa fermare lo spettacolo e appena si accendono le luci annuncia: “cari amici caro pubblico stanno per entrare due amici che  si sono appena sposati, celebrateli e ricordate che di loro sentirete presto parlare”. È stato profetico Alberto Sordi dato che nei successivi cinquant’anni, non solo di matrimonio, Giulietta e Federico hanno rappresentato il cinema italiano nel mondo.  Come già detto l’Oscar come miglior film straniero per La Strada, ritirato da Giulietta, è solo il primo di una lunga serie di successi.

Nel 1945 i due hanno un figlio, Pier Federico, purtroppo morto appena dodici giorni dopo la nascita. Anni dopo Giulietta ha affermato: “Non aver avuto figli, ci ha fatto diventare figlio e figlia dell’altro, così ha voluto il destino”. Giornali, interviste e storie raccontate sottolineano costantemente le diversità caratteriali di Fellini e Masina. Lui schivo, di poche parole, riservato e sempre ironico, lei entusiasta della vita, determinata, fumatrice incallita. Molti sono inoltre i pettegolezzi che girano intorno la loro storia d’amore e raccontano le numerose, ma comunque insignificanti, scappatelle di Fellini. Giulietta non ha mai perso la sua comprensione e integrità al riguardo, perché tanto alla fine per lui esisteva solo lei.

Una volta il grande regista dichiarò “Giulietta mi è parsa subito una misteriosa persona che richiamava una mia nostalgia di innocenza. Vi è una parte di incantesimi, magie, visioni, trasparenze la cui chiave è Giulietta. Mi prende per mano e mi porta in zone dove da solo non sarei mai arrivato”. E un’altra volta: Il nostro primo incontro io non me lo ricordo, perché in realtà io sono nato il giorno in cui ho visto Giulietta per la prima volta”. Come dimenticare il commovente Oscar alla carriere che Fellini ha ricevuto nel 1993 per mano di Marcello Mastroianni e Sofia Loren, in cui Giulietta non riesce a smettere di piangere non solo per l’emozione ma soprattutto perché quell’Oscar è dedicato a lei.

Giulietta Masina muore il 23 marzo 1994, all’età di settantatré anni, per un tumore ai polmoni, cinque mesi dopo la scomparsa di Fellini avvenuta il 31 ottobre 1993. Come richiesto prima di morire, il trombettista Mauro Maur  ha suonato il tema musicale di Nino Rota in La Strada  ai suoi funerali. Lei è stata seppellita a Rimini, vicino a Federico, con l’abito da sera di paillettes che indossava la notte degli Oscar. Tra le mani una foto di lui sorridente ed una rosa rossa.

Fonte: freeda

Le donne ammaccate

Quanta verità in questi versi…


Le donne ammaccate.

Che privilegio averle incontrate.

Quanta nobiltà nelle loro ferite.

Quanto si è fortunati ad averle come amiche.

Rosapercaso

Le donne ammaccate.

Che non sono sicure di essersi rialzate.

Che non si sentono più donne abbastanza.

Che non indovinano mai la distanza.

Le donne ammaccate.

Con il loro dubbio di essere sbagliate.

Che piangono a tradimento.

Poi sorridono e alzano il mento.

Le donne ammaccate.

Che si guardano allo specchio spaesate.

Che non hanno più voglia di essere forti.

Che non sanno distinguere le fragilità dai torti.

Le donne ammaccate.

Che alla paura non sono abituate.

Che non cercano nello sguardo altrui il rimedio.

E indossano il dolore come un sortilegio.

Le donne ammaccate.

Più assomigliano a se stesse più si sentono amate.

Spalancano la porta alla follia sopita.

E custodiscono la forza come il ventre la vita.

Le donne ammaccate.

Che privilegio averle incontrate.

Quanta nobiltà nelle loro ferite.

Quanto si è fortunati ad averle come amiche.

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Donne…

“Quando le donne cominciano a partecipare attivamente alla lotta, nessun potere al mondo può impedirci di conquistare la libertà prima della morte”.

donne1

Albert Luthuli, Premio Nobel per la pace nel 1960

 

Ballate delle donne

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:

quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:

quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:

perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente:

femmina penso, se penso l’umano:
la mia compagna, ti prendo per mano.

 

Edoardo Sanguineti, da “Il gatto Lupesco – Poesie (1982-2001

Le Sorelle Brontë… Tre nomi, tre sorelle, tre pseudonimi maschili!

is-this-a-photo-of-the-br-0081-400x265Qualche  anno fa Seamus Molloy,, un collezionista di Halifax, nello Yorkshire, ha acquistato su eBay, per sole 20 sterline, una fotografia molto vecchia, che ritraeva tre donne austere, sedute l’una accanto all’altra. Secondo Molloy la fotografia era in realtà la copia di un’originale, scattata nel 1840, e le donne in questione non erano tre sconosciute qualsiasi, ma  le sorelle Brontê.

Secondo gli esperti ci sono buone probabilità che non esista alcuna fotografia delle sorelle Brontë, eppure la questione aveva suscitato moltissimo interesse e rilanciato la storia di queste tre sorelle, nate e cresciute in condizioni complicate, che avevano pubblicato tre romanzi nello stesso anno. Di questi tre, due sono ancora oggi tra i romanzi più letti e apprezzati al mondo. Ma partiamo dall’inizio, da un cognome che non è il loro.

In origine Charlotte, Emily e Anne non si chiamavano Brontë di cognome, ma Brunty. Il loro padre, Patrick Brunty, era un pastore anglicano di origini irlandesi con una smodata passione per l’ammiraglio Nelson. Quando, nel 1799, Nelson fu nominato duca di Bronte da Ferdinando di Borbone, Patrick Brunty decise di modificare il suo cognome da Brunty a Brontë, aggiungendo la dieresi sulla “e”, proprio per indicare che, trattandosi di un nome italiano, la e andava pronunciata. Dopo essere stato ammesso a Cambridge e dopo essere stato nominato pastore, Patrick Brontë sposò Mary Bramwell, dalla quale ebbe sei figli: Mary, Elizabeth, Charlotte, Patrick, Emily e Anne.

Ben presto la famiglia si trasferì a Haworth, nello Yorkshire, dove dopo poco la madre Mary morì. I sei bambini vennero quindi educati a casa, dal padre e dalla zia, che era fortemente metodista. La vita della famiglia Brontë non fu affatto semplice: alla morte della madre seguì quella delle due primogenite, Mary ed Elizabeth, per tubercolosi. Patrick, che alla morte della madre venne soprannominato con il cognome di lei, e cioè Branwell, ebbe un’esistenza tormentata, fatta di amori non corrisposti, alcol e oppio. Charlotte, Emily e Anne cercarono di migliorare la propria educazione, alle volte anche soggiornando in altri paesi per perfezionare la conoscenza di altre lingue: è il caso ad esempio di Charlotte ed Emily che vissero a Bruxelles per un periodo. Lavorarono spesso come istitutrici ma il loro principale obiettivo era riuscire ad aprire una scuola a Howarth.

Nel 1845, tra uno spostamento e l’altro, si ritrovarono tutte a Howarth; in questa occasione Charlotte scoprì per caso che anche Emily e Anna avevano scritto dei versi, esattamente come aveva fatto lei. Si decise a pubblicarli, ma, in un’epoca come quella vittoriana, in cui essere donna non era cosa semplice, per evitare i pregiudizi, decise di farlo utilizzando degli pseudonimi maschili per ognuna di loro. Le sorelle Brontë divennero i fratelli Bell. In particolare Charlotte divenne Currer Bell, Emily divenne Ellis Bell e Anna, Acton Bell.

Nel 1846 venne pubblicato un volume contenente le poesie scritte dalle te sorelle. Si intitolava Poems By Currer, Ellis and Acton Bell, e non ebbe molto successo. L’anno successivo, però, le tre sorelle fecero un secondo tentativo, ognuna con un suo romanzo: Charlotte cercò di pubblicare The Professor, Emily Cime Tempestose e Anne Agnes GreyThomas Newby, l’editore a cui erano stati proposti i romanzi, accettò solo gli ultimi due e rifiutò The Professor (che venne poi pubblicato postumo). Fu così che Charlotte scrisse, e poi propose, Jane Eyre.  

I romanzi uscirono tutti nello stesso anno, il 1847, e conobbero sorti letterarie diverse. Nel 1848 morì Bramwell, mentre Anne pubblicò il suo secondo romanzo, La signora di Wildfell Hall. La morte di Branwell fu un colpo durissimo per Emily, che in quel periodo si era ammalata di tubercolosi e decise di smettere di curarsi: morì qualche mese dopo. L’anno successivo, nel 1849, sempre di tubercolosi, morì anche Anne. Restò in vita solo Charlotte, che pubblicò altri due libri, Shirley e Villette, si sposò e morì nel 1854, di parto.

Diciamo subito che da un punto di vista letterario quella a cui andò peggio fu Anne. Agnes Grey non ebbe particolare successo, nonostante George Moore lo avesse descritto come “la prosa narrativa più perfetta della letteratura inglese… Semplice e bella come un vestito di mussolina, l’unica storia nella letteratura inglese in cui stile, personaggi e tema siano in perfetto unisono”.

Tutt’altra cosa fu invece per Charlotte. Jane Eyre riscosse fin da subito un successo incredibile, non solo per la trama ma anche per il messaggio femminile e femminista di cui si faceva portatore. Oltre a oggettivare un tema, come quello delle passioni, nascosto e represso in epoca vittoriana, Jayne Eyre è un’esempio di fermezza, indipendenza e coraggio: una donna che si guadagna da vivere, che riesce a contare solo su se stessa e che non ha paura di innamorarsi di un uomo sposato.

Se Jane Eyre ebbe più successo all’epoca possiamo forse dire che Cime Tempestosene ebbe di meno quando uscì, ma a partire dal 1900 fu considerato il  romanzo per eccellenza delle sorelle Bronte. Storia di un amore passionale, violento e contraddittorio, Cime Tempestose è un romanzo complicato in cui il confine tra bene e male, amore e vendetta diventa labilissimo. Eppure è una delle storie d’amore più potenti che siano mai state scritte, fonte di ispirazione non solo di film, ma anche di canzoni. 

Non è facile parlare di Cime Tempestose e descriverlo a chi non l’ha letto, perché si tratta di un’esperienza fortemente soggettiva. Per capire qualcosa di più, però, ci si può affidare alle parole che usò Virginia Woolf per parlare della differenza tra il romanzo di Charlotte e quello di Emily:

Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma non c’è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. […] Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far parlare il vento e ruggire il tuono.