Mese: luglio 2021

Le donne alle Olimpiadi di Tokyo 2020: una parità (quasi) raggiunta.

Le Olimpiadi del 2021 sembrano destinate a passare alla storia. Se il rinvio di un anno e l’assenza del pubblico sono dei tristi primati, questa edizione può però vantare il maggior numero di quote rosa nella storia dei Giochi. 

Il comitato olimpico si è impegnato affinché a Tokyo 2020 la parità di genere fosse garantita, organizzando un’olimpiade più inclusiva per le donne. Su tutti i fronti

L’edizione di Tokyo 2020 sarà la prima a raggiungere la parità di genere, con il 49% di atlete, come fa sapere il comitato olimpico. A molti potrebbe non sembrare un fatto degno di nota, ma i numeri parlano chiaro.

Ci saranno ben 18 gare miste, il doppio rispetto a Rio 2016, e le atlete paralimpiche raggiungono il 40,5%: 1600 in più rispetto a cinque anni fa. Nel Regno Unito si sono qualificate 201 atlete e 175 uomini, mentre l’Italia partirà con 198 uomini e 186 donne, una differenza davvero sottile.

Nella storia italiana sarà la spedizione più numerosa di sempre, e gareggerà in 36 discipline diverse. I dati sono di buon auspicio per una parità perfetta da raggiungere alle Olimpiadi di Parigi 2024.

Come accanto ad ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, anche dietro un grande evento ci sono molte professioniste. È cresciuta infatti la percentuale di donne nel comitato esecutivo dei Giochi.

Dopo la nomina della nuova presidente, Hashimoto Seiko, ex pattinatrice e ministra dello Sport, il comitato organizzatore di Tokyo 2020 ha portato al 42% la percentuale di donne e ha creato un team di promozione dell’uguaglianza di genere, affidato alla direttrice sportiva, Kotani Mikako.

Anche in questo caso i numeri denotano un cambio di passo importante nella politica del CIO: da maggio 2020 le donne presiedono 11 delle 30 commissioni del CIO e sempre nel 2020 hanno raggiunto il 47,7% degli incarichi nelle commissioni, mentre erano il 20% nel 2013.

C’è voluto molto tempo prima di arrivare ad un’Olimpiade gender-balanced. Innanzitutto, le Olimpiadi moderne nacquero per soli uomini: il barone Pierre De Coubertin voleva ricalcare la tradizione greca e solo nel 1900 le prime atlete iniziarono a partecipare. Gareggiarono solo in 22 su 997 atleti in cinque sport (tennis, vela, croquet, equitazione e golf).

Le donne erano spesso scoraggiate dal cimentarsi in sport impegnativi, con le scuse dell’invecchiamento precoce, dell’infertilità e dei danni all’utero. La corsa femminile degli 800 metri fu eliminata dopo le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 e riammessa solo nel 1960. Guadagnarsi la partecipazione è stato quasi più difficile che gareggiare, ma le conquiste, anche se lentamente, alla fine sono arrivate. 

Nel 2012 a Londra le donne hanno gareggiato in tutti gli sport del programma olimpico e, nello stesso anno, L’Arabia Saudita, ha permesso alle atlete donne di partecipare. Alle Olimpiadi di Sochi nel 2014 le donne sono state ammesse al salto con gli sci, mentre a Rio 2016 le atlete rappresentavano il 45% dei partecipanti.

Avendo fatto dell’inclusività e della parità di genere un obiettivo primario, il CIO ha deciso di cambiare la formulazione del giuramento olimpico. La versione precedente risaliva ancora a Pierre De Coubertin. Il nuovo testo recita:

Promettiamo di prendere parte a questi Giochi Olimpici, nel rispetto delle regole e nello spirito di fair play, inclusione ed uguaglianza. Insieme siamo solidali e ci impegniamo nello sport senza doping, senza imbrogli, senza alcuna forma di discriminazione. Lo facciamo per l’onore delle nostre squadre, nel rispetto dei Principi Fondamentali dell’Olimpismo e per rendere il mondo un posto migliore attraverso lo sport.

Tale giuramento è stato pronunciato da due atleti, due tecnici e due giudici lo scorso 23 luglio 2021 durante la cerimonia di apertura di questa edizione storica delle Olimpiadi.

«I record sono fatti per essere battuti, un oro olimpico resta per sempre»

Usain Bolt, velocista, vincitore di 8 ori olimpici

“Una donna”: un romanzo che ci riporta al presente e al coraggio di scegliere liberamente del proprio destino.

Ho letto e riletto Una donna di Sibilla Aleramo con lo stesso entusiasmo e curiosità della prima volta.

Io, una giovane donna alle prime letture femministe che da poco aveva cominciato a nutrirsi di libri e non erano tanti quelli da consultare. Mi sentivo chiamata in causa dalla protagonista, mi riconoscevo nel suo bisogno di emancipazione. Parlava anche di me, di noi!


Maria Feliciana Faccio, detta Rina, in arte Sibilla Aleramo nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Scrive Una donna nel 1901. Il libro uscirà qualche anno dopo nel 1906, con la casa editrice Sten. Sarà tradotto in molte lingue. Nel 1908 sarà tradotto in francese, poi in tedesco e in altre ancora. Per il suo contenuto rivoluzionario fu rifiutato in un primo momento sia dall’editore Treves che da Baldini e Castoldi. È riconosciuto da tutti come il primo libro femminista in Italia e la vita di Sibilla Aleramo ha segnato una tappa fondamentale nel processo di emancipazione femminile. 

Siamo ai primi del Novecento, con lei nasce l’immagine di una donna nuova, non più solo moglie o madre. Il libro ebbe molta fortuna. Dopo la prima edizione del 1906, ci fu l’edizione Feltrinelli del 1950, del 1973 e da ultimo quella del 1982 con la rilettura di Maria Conti. La letteratura straniera aveva già pubblicato libri femministi, Virginia Woolf per tutti. In un certo senso Sibilla Aleramo ha anticipato Virginia Woolf, Sibilla e Virginia vengono a trovarsi vicine entrambe prototipo della donna indipendente e autonoma. Se Virginia Woolf anelava a una stanza tutta per sé e all’indipendenza economica, vediamo che Sibilla seguirà le stesse indicazioni di rotta. L’importante è avere un foglio bianco su cui scrivere e disporre di denaro per sentirsi libere.

Una donna è un libro autobiografico, ma insieme un romanzo. La giovane protagonista si vede costretta a trasferirsi con la famiglia nella provincia marchigiana di fine Ottocento. Avrà una vita difficile in un contesto culturale molto arretrato. Molto amata dal padre, con una madre malata psichica, si adatta a trovare un posto nella famiglia e nella piccola cittadina di provincia. Ancora giovanissima, aveva appena quindici anni, si innamora di un giovane impiegato nella fabbrica di famiglia. Un amore infelice da cui nascerà un figlio. Per il bisogno di esprimere sé stessa però fuggirà appena possibile anche dall’amato figlio Walter. Complice proprio una piccola somma di denaro, 25 mila lire, ricevuta in eredità, potrà finalmente partire. 

L’indipendenza economica le era utile per sottrarsi all’autorità del marito, ecco un’altra similitudine con Virginia Woolf e la storia delle tre ghinee. In assenza di divorzio, aspettò molti anni prima di poter uscire dal contratto matrimoniale. La prima parte del libro ha una prosa ottocentesca ma nella seconda parte, invece, come se seguisse l’evoluzione del personaggio, la voce narrante sembra prendere il via e scorre fino alla fine intensa e moderna.

L’emancipazione femminile era già entrata nel nostro dibattito politico e culturale e il romanzo dell’Aleramo piombò sulla scena con la forza spudorata di un’autobiografia. Senza mai fare nomi (i personaggi sono sempre chiamati con il loro ruolo: marito, madre, figlio…) denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Venne definito il primo libro femminista in Italia, anche se non sempre le femministe amarono la sua autrice.

Nonostante tutto scriverà libri, sarà un punto di riferimento del movimento femminista italiano e straniero. Durante tutto il racconto delle sue vicende però ci accompagna il dolore di quella porta che si chiude alle sue spalle e lascia dietro il figlio. Non sarà stato facile percorrere quella strada nuova. E proprio a Walter dedicherà il libro.

In una puntata del programma di letteratura di Rai Cultura L’altro ’900 del 2019 così Sibilla Aleramo si racconta: «Non penso di aver fatto un’opera sublime, penso però di aver consegnato qualcosa di importante, una verità profonda che riguarda uno dei più importanti sentimenti umani che è l’amore, averlo consegnato sia pure in frammenti alle generazioni future». Le sue carte sono conservate presso la Fondazione Gramsci di Roma. Il libro diede anche lo spunto per un film dal titolo: Un viaggio chiamato amore di Michele Placido (2002), incentrato sulla relazione tra Sibilla Aleramo e Dino Campana (Laura Morante e Stefano Accorsi).

http://trovacinema.repubblica.it/film/un-viaggio-chiamato-amore/122512/

Ed ora, a distanza di un secolo, cosa è cambiato nel destino delle donne? Potremmo dire molto o poco e argomentare per ore. Una sola osservazione. Gli uomini non sono cresciuti abbastanza per condividere e comprendere il lavoro di cura e dare valore e riconoscimento alle donne.

Se i dati che ci arrivano sull’argomento non sono sempre positivi, sappiamo comunque che tanta strada è stata fatta dalle donne nel processo di emancipazione. A questo primo libro ne sono seguiti molti altri. Il Novecento, il secolo appena passato, è stato il secolo delle lotte per i diritti, da qualcuno definito il secolo delle donne. Forse ci aspettavamo qualcosa di più ma le generazioni future sapranno far tesoro del passato. Una Donna è un’opera letteraria che ha più di cent’anni e se li porta bene.

Sono tornata bella
e forse è questo l’ultimo mio autunno.
Bella più di quando gli piacqui nel sole,
bella, e vana ai suoi assenti occhi,
come una foglia d’ombra…
Ma certe notti,
nel silenzio che più non turba il pianto,
invocata mi sento
con disperata sete
dalla sua bocca lontana.


Sibilla Aleramo

Sibilla in un ritratto di Guttuso del 1951

Susana Chavez: Prima vittima di femminicidio a Ciudad Juárez del 2011.

Ni una màs…

Mai sentito parlare di Ciudad Juárez? Basta farsi un giro tra le classifiche delle città con più alto tasso di criminalità al mondo per trovarla tra le prime posizioni.
Da donna non mi sono mai sentita al sicuro a camminare per strada, visto ciò che si sente in giro… Figuriamoci qui!
Mi si accosta una macchina affianco e dopo qualche secondo di terrore mi rendo conto che dietro il finestrino c’è Susana Chávez: ci saremmo dovute incontrare direttamente in un bar, poche centinaia di metri più avanti, ma a questo punto un passaggio lo accetto volentieri.

Grazie, andiamo al bar di cui mi ha parlato al telefono?
“Ti prego, non darmi del Lei. Va bene, allora!

Sedute davanti a una birra gelata, in una delle poche vie tranquille di Ciudad Juárez, nasce subito un’intesa tra di noi. Sarà l’età, sarà che abbiamo due personalità affini, ma subito mi sembra di parlare con una vecchia amica…
“Quando hai cominciato a scrivere poesie?”
“Ero molto piccola, avevo undici anni. Ovviamente crescendo ho trascinato con me la mia poesia, è cresciuta anche lei”.

C’è un tema che attraversa la tua scrittura?”
“Sicuramente il protagonismo della natura, del simbolismo naturale. Da grande, ho trovato grande ispirazione anche nel mondo femminile, nelle mille sfaccettature che esistono nell’approccio delle donne alla propria corporeità. Credo che questo senso di vergogna che ci viene istillato fin da bambine abbia generato una cappa di silenzio, ma è proprio nel silenzio che una voce fa più rumore”.

“Che cosa intendi dire?”
“Che si può, si deve, partire dal proprio silenzio, dalla propria marginalità per ritagliarsi uno spazio di libertà, di autonomia. In poche parole: non è mai troppo tardi!”

“Secondo te la poesia ha il potere di cambiare il mondo?”
“A questo non so risponderti. Sono convinta che possa risvegliare le coscienze e magari, aiutare a far alzare la voce. Questo è sempre stato il mio scopo, sia come attivista sia come poetessa”.

“Cos’è che rende così grave la situazione in questa regione del Chihuahua?”
“Dal 1993 in questa zona viene portato avanti un genocidio di genere senza fine, che cresce ogni anno che passa, tanto che siamo arrivati a una media di tre donne uccise ogni due giorni. È difficile individuare i fattori che hanno contribuito a creare questa orrenda condizione in Messico, sicuramente c’è un problema culturale, c’è la criminalità organizzata e ci sono le maquiladoras…”

“Scusa l’ignoranza, ma cosa sono le maquiladoras?”
“Qui in Messico sono stabilimenti industriali controllati dagli Stati Uniti dove vengono assemblati prodotti che poi tornano al paese d’origine. I diritti umani nelle maquiladoras praticamente non esistono e ci lavorano moltissime ragazze per pochi dollari al giorno. Molte delle vittime di femminicidio in Messico sono operaie delle maquiladoras, che vengono rapite, violentate e uccise lungo il percorso che fanno tutti i giorni per andare e tornare dalle periferie e dalle zone rurali di questa regione”.



Ciudad Juàrez: la mattanza delle donne

Tu che ne hai viste veramente tante, pensi ci sia ancora una speranza per Ciudad Juárez?”
“Finché il governo non si deciderà ad aprire gli occhi, a interrompere il suo silenzio complice, continueremo ad essere decimate e potrà solo andare peggio. Ora come ora provo una sensazione di vuoto, abbandono e impotenza, come molti altri suppongo. Immaginare un miglioramento per quanto mi riguarda è difficile, ma nutro ancora delle speranze perché sono una donna di fede!”

Una Ciudad Juárez diversa Susana non l’ha potuta vedere. Il 6 gennaio del 2011 l’hanno ritrovata morta sul ciglio della strada, abbandonata come un sacco di spazzatura.
Aveva 36 anni.
Dopo il ritrovamento, il cadavere è stato trattenuto dalle autorità per cinque giorni e si è fatto di tutto per slegare l’omicidio di Susana dal suo attivismo politico.
“Era ubriaca…Ha incontrato tre ragazzi fuori controllo al bar, la situazione è sfuggita di mano…” hanno detto gli inquirenti, che, in parole povere, suona come il solito, vergognoso “se l’è andata a cercare…”

L’assassinio di Susana Chávez si iscrive invariabilmente nell’ambito dei femminicidi, un crimine che si aggiunge a quello di migliaia di donne assassinate per ragioni violente. È la radiografia della mascolinità più primitiva, quella che lacera, offende, ferisce, aggredisce, insulta e dilania la società. Abbiamo bisogno di costruire tra tutti una mascolinità senza violenza, attacchi e impunità.

Una chitarra le dà il commiato al cimitero. Sua madre mette un foglio nella bara. È la poesia che Susana Chávez scrisse in onore a una morta di Ciudad Juárez: “Sangue mio, sangue di alba, sangue di luna tagliata a metà, sangue del silenzio”.


SUSANA CHAVEZ: nata a Ciudad Juárez nel 1974 è stata una giornalista, poetessa e attivista per i diritti umani messicana. Iniziò a scrivere poesie a 11 anni, partecipando a molti dei festival letterari e forum culturali Messicani, offrendo anche letture delle sue poesie durante le manifestazioni per le donne scomparse e assassinate. Laureata in psicologia alla Universidad Autónoma de Ciudad Juárez, al momento della morte stava lavorando a un libro di poemi e scriveva inoltre sul suo blog Primera Tormenta.
È conosciuta come l’autrice dello slogan “ni una mujer menos, ni una muerta más” (“non una donna di meno, non una morta in più”), usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juàrez.