Mese: novembre 2022

Sei giovani donne riscrivono la Storia.

È appena passato, negli Stati Uniti, il Giorno del Ringraziamento. Sinonimo di buon cibo, tacchini, gratitudine, tempo in famiglia.
Ma quel giorno è, per la popolazione nativa americana, un giorno di dolore e ingiustizia.

Dal momento che la Storia la scrive chi vince, sei giovani donne native americane si sono prese la responsabilità di mettere le cose in chiaro.

Sono Laurel Cotton, Duannette Reyome, Evannah Moniz-Reyome, Kiera Thompson, Wacantkiya Mani Win Eagle e Wanbli Waunsila Win Eagle, e hanno collaborato con Teen Vogue nel 2016 per spiegare la vera storia dietro il Ringraziamento.

Sedute dietro un tavolo apparecchiato con piatti tradizionali del Ringraziamento, le ragazze, a turno, hanno descritto la loro frustrazione nel dover crescere guardando l’intero paese celebrare una festa che aveva per loro connotazioni dolorose.

“Buon Ringraziamento, America. Sono Daunnette e sono qui con le mie amiche per raccontarti la vera storia di questa festa…
La vera storia dietro il Ringraziamento era che, dopo ogni uccisione di un intero nostro villaggio, questi coloni europei lo celebravano e lo chiamavano Ringraziamento. Ma è stato solo quando Abraham Lincoln è diventato presidente che è diventata una festa ufficiale.

Ha ordinato che 38 nativi americani del Dakota fossero impiccati per crimini di guerra”. “Ci prendiamo questo tempo per ricordare i nostri anziani che hanno perso la vita. Di solito mia madre prepara un piatto dei nativi americani per noi e noi preghiamo”.

“Crescendo, sarei un po’ seccata che non sapessero cosa è successo davvero il giorno del Ringraziamento e che in realtà stanno celebrando la morte di molte persone e di molte tribù che sono andate perdute”.

“Siamo grate per essere nate indigene in questo continente perché le nostre persone anziane hanno mantenuto la nostra cultura per tutti questi anni nonostante tutto quello che hanno passato. Il Ringraziamento è radicato in un errore storico… La colonizzazione è stata intrinsecamente oppressiva e brutale”.

Mrs. Harris Goes to Paris: sognando un abito Dior dalla Gran Bretagna operaia

In uscita nelle sale il 17 novembre, distribuito da Universal Pictures Italia, un piccolo film sull’utopia del quotidiano con Lesley Manville, tra favola e dramma.

Ambientato nella Londra degli anni Cinquanta, ‘Mrs. Harris Goes to Paris’, diretto dal produttore e regista britannico Anthony Fabian, racconta il sogno della indomita Signora Harris – una governante che da anni attende invano il marito disperso nella Seconda Guerra Mondiale – quello di possedere un abito firmato Christian Dior. 

Presentato alla 17a edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public, il film è l’adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore americano Paul Gallico (Mrs. ‘Arris Goes to Paris, del 1958), opera che ebbe grande successo e divenne il primo di quattro libri sull’amabile “Signora ‘Arris”. Durante le fasi di stesura della sceneggiatura, Fabian ha voluto che fosse chiaro il motivo per cui la signora Harris manifesta una tale ossessione per un abito d’alta moda. “Il romanzo di Gallico non approfondisce le motivazioni per cui la protagonista vuole proprio quel vestito di Dior”, ha spiegato il regista. “Le motivazioni non avrebbero dovuto essere frivole e superficiali ma qualcosa di più profondo. Ecco perché ho voluto che l’abito rappresentasse qualcosa per cui la signora Harris torna ad amare: è ciò che le scalda il cuore ibernato dalla morte del marito. In qualche modo, il vestito l’aiuta a riaprire il suo cuore permettendole di amare di nuovo”.

Protagonista del film è Ada Harris, una donna non più giovanissima che lavora a servizio in alcuni appartamenti di ricche signore londinesi, insieme all’inseparabile amica di colore Violet (la magnifica attrice inglese Ellen Thomas, originaria della Sierra leone,): generosa e sincera, ottima sarta (fa lavoretti per i vicini per arrotondare il magro stipendio), Ada attende il marito dalla fine della Guerra, anche se ormai è evidente che non tornerà. 

Grazie al suo umorismo, alla sua grande gentilezza ed apertura mentale, Mrs. Harris è molto apprezzata dalla piccola comunità in cui vive: un giorno, nel rassettare la stanza di Lady Dant (Anna Chancellor), ricca e odiosa signora che rimanda di giorno in giorno il pagamento del salario di Ada, si imbatte in uno splendido abito lilla di chiffon, con l’etichetta di Christian Dior. Da quel momento Ada risparmia faticosamente la cifra necessaria (tra corse dei cani, vittorie al Totocalcio e l’aiuto dei suoi numerosi amici) per poter andare a Parigi, al numero 30 di Avenue Montaigne e coronare il suo sogno di acquistare un abito firmato Dior. Da qui si dipana l’avventura parigina di Mrs. Harris fra favola, racconto di ‘classe’ e mutamento sociale.

Negli anni Cinquanta, infatti, Christian Dior realizzava, nel suo atelier di Parigi, abiti esclusivi confezionati a mano, a misura di clienti selezionate, ricche ed esigenti. Solo per una serie di fortunate ed alterne vicende Mrs. Harris accederà all’atelier di Dior, poiché nemmeno il denaro contante (che portava con sé nella borsa avvolto in un elastico) sarebbe stato sufficiente ad acquistare lo ‘status’ adeguato a partecipare a una sfilata. Ma proprio in quel periodo, a poco a poco, per stare al passo coi tempi ed evitare la crisi finanziaria, anche Dior iniziava ad aprirsi alla moda del prêt-à-porter, e non più esclusivamente di alta sartoria: per quanto ‘volgare’, il denaro guadagnato col lavoro dalle persone ‘normali’ aiuterà i grandi stilisti a sopravvivere e tutta l’economia a rimettersi in moto.

Mrs.Harris Goes to Paris parla di questa transizione, e dunque del divario sociale e culturale (upper-low class, Londra-Parigi, donne lavoratrici-donne consumatrici) di allora e di oggi, unendo leggerezza e profondità, sogno e realtà, come nella scena in cui la piccola Ada (abituata alle lotte delle donne inglesi) guida lo sciopero delle sarte di Dior, o quando si presenta alla Maison Dior col rotolo di contanti in mano ed incontra l’altezzosa e terribile Madame Colbert (una perfetta Isabelle Huppert), vestale delle tradizioni e dei privilegi del vecchio mondo.

Mrs. Harris dovrà dunque affrontare molte prove per ottenere ciò per cui è partita, aiutata da una modella di Dior che vorrebbe invece studiare filosofia (Alba Baptista) e dal giovane contabile che, grazie alla piccola grande donna, riuscirà ad esporre allo stilista in persona le sue idee per ripianare il disastroso bilancio dell’atelier. Ada Harris, non è una donna qualunque. Sempre gentile, ammirevolmente resiliente ed estremamente affidabile, è sicura di sé e si sforza sempre di vedere il meglio nelle persone… o almeno cerca di guardare oltre i loro difetti più evidenti.

Il film, grazie alla sagace penna di Paul Gallico, svela la vita ed i sogni della gente comune nella cornice storica della ‘ricostruzione’ post-bellica, tra le rovine ancora presenti e il desiderio di dimenticare la guerra facendone però memoria.

Una incredibile galleria di personaggi, sospesi fra tanti mondi (come il burbero Archie, un broker invaghito di Ada, interpretato dal simpatico attore Jason Isaacs), tutti in cerca di identità, come l’Europa di quegli anni, affiancano la storia di Mrs. Harris, diventando un piacevole pretesto per fotografare i desideri e le concrete possibilità di trasformazione di un’epoca e dei suoi protagonisti e ristabilendo nella giusta prospettiva, (forse proprio grazie al ciclone della guerra), ‘valori’ quali il lavoro, la speranza, la solidarietà, per guardare al futuro con gli occhi autenticamente curiosi e positivi di Mrs. Harris e rimboccarsi le maniche come lei, ad ogni caduta, per rialzarsi e ripartire.

La figlia unica di Guadalupe Nettel: un romanzo che ha come protagoniste donne forti, ma anche fragili.

Ci sono libri che ti agganciano subito – vuoi per una frase, una parola, lo stile – e poi ti deludono. La partecipazione iniziale non basta per tutte le pagine e il sentimento verso quel lavoro narrativo è ondivago. Al lettore resta addosso un senso di frustrazione, come se venisse fuori da una storia sentimentale che pareva promettente e invece non supera la prova di realtà. Ma ci sono anche i libri che ti prendono e ti conducono dove vuole l’autore, senza freni. La figlia unica di Guadalupe Nettel, scrittrice messicana tradotta in Italia da Federica Niola, prima per Einaudi e oggi per La nuova frontiera, è un romanzo che trattiene il lettore e lo coinvolge. Ciò avviene per tre motivi: i temi del romanzo, la struttura minimale di ogni capitolo e la scrittura fulminea e elegante della Nettel, che avvolge e scalda, accompagna e illumina. A pensarci, è questo che ricerca ogni lettore: riconoscersi, approfondire, intrattenersi, trovare nel testo che ha davanti una scintilla che lo induca a tornare, a indugiare, ad affezionarsi a una voce.

La voce di Laura, il personaggio a cui la Nettel affida le redini della narrazione, è un chiodo e al contempo un abbraccio. Laura è una donna cocciuta, indipendente e la conosciamo immersa nella sua esistenza: è convinta di non voler diventare madre e lo sa così bene che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico per scongiurare l’eventualità di una maternità indesiderata. Per Laura, e non solo per lei, le donne ad un certo punto negli anni si possono catalogare in quelle che inseguono una gravidanza e quelle che la rifuggono. Anche Alina, una cara amica di Laura, è convinta di non voler diventare genitore, finché il suo punto di vista cambia e la prospettiva di essere madre la riempie e la motiva. Le abitudini di Alina cambiano, e con esse anche i riti di cui è fatta l’amicizia con Laura. Il punto di vista delle due donne è confliggente ma l’affetto è più forte di ogni divergenza. Alina diventa madre di Ines, una bambina affetta da una patologia rara ma animata da un anelito vitale incredibile. Man mano che Ines combatte per esistere, sua madre intraprende un viaggio dentro sé stessa, alla scoperta delle sue ansie e debolezze. Non molto lontano, mentre una coppia di piccioni nidifica sul suo balcone e si ritrova nel nido un uccellino di un’altra specie, 

Laura si lega al figlio della sua vicina di casa, Doris. Sia lei che suo figlio sono vittime di un marito e un padre violento che ha marchiato con l’ira e la forza fisica la psiche dei suoi familiari. Laura si ritrova ad essere una sorgente di energia positiva e di amore incondizionato, suo malgrado, e in questo percorso inatteso riallaccia anche il rapporto con la madre. Le donne del romanzo sono interconnesse, congiunte da vicissitudini e sensazioni. Intorno a loro ruotano medici, baby sitter, mariti e il quotidiano con le sue pretese e frenesie.

De La figlia unica si è scritto che è un testo sulle declinazioni della maternità, ben oltre la biologia e il parto. Tutto vero, ma è anche un libro sulla sorellanza, sulla capacità di certe donne di fare squadra, di migliorarsi l’esistenza reciprocamente, di generare legami e prendersene cura. Come ha spiegato la Nettel in questa bella intervista curata da Francesco Raiola per Fanpage.it, la storia mette in luce la pochezza dei luoghi comuni sulla maternità e offre una visione alternativa alla limitatezza delle soluzioni che il pensiero collettivo prevalente riesce ad immaginare. Gli eventi del libro sono ispirati ai racconti di un’amica della scrittrice ma la finzione narrativa è dominante, è il linguaggio favorito e dunque prioritario. La fiducia nel genere femminile è in ogni pagina, come la consapevolezza dell’autrice di un portato vitalizzante che viene da lontano, ancestrale. Sul finale a pag. 205 la Nettel scrive “è vero che esiste il destino, ma c’è anche il libero arbitrio, e consiste nel modo in cui prendiamo le cose che ci tocca vivere”. E su questo concetto si fondano le decisioni, le azioni dei personaggi: un continuo opporsi al determinato, al così fan tutti per costruire punti di vista e campi di azione personali.

Sono le donne le api regina dell’alveare di trame che la Nettel ci consegna: un romanzo apparentemente snello, innervato di eventi, anche minimi, e di una vena di mistero, di irrazionalità, di magia che sospingono il lettore verso il dipanarsi della complicanza, che è praticamente la normalità in qualsiasi vita. E il bandolo della matassa sta nel virgolettato sopra, nell’intraprendenza di ciascuno, nel protagonismo esistenziale, nel non tradirsi, nell’ascoltarsi, nel volersi bene per volerne a chi ci sta vicino. A prescindere dai legami di sangue.

Alcune note su Guadalupe Nettel.

Guadalupe Nettel è nata a Città del Messico nel 1973. Nella sua carriera ha ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio franco-messicano Antonin Artaud (2008), il premio tedesco Anna Seghers (2009), il Premio de narrativa breve Ribera del Duero (2013) per la raccolta di racconti Bestiario sentimentale, il Premio Herralde de Novela (2014) e il Premio Cálamo per La figlia unica (2020).

Buon Novembre!

È novembre. I pomeriggi sono più laconici
e i tramonti più austeri.
Novembre mi è sempre sembrato la Norvegia dell’anno.
(Emily Dickinson)

Ferdinand Hodler (1853–1918, artista svizzero) Autumn Evening, 1892

Buon mese di Novembre a tutte/i Voi 🍁🍂