Viaggiare sulle ali della parola nonostante le ferite della vita: cosa può insegnarci in questi giorni la poetessa che visse e scrisse in isolamento volontario.
“Ogni vita converge a qualche centro. Dichiarato o taciuto”. Un mèta di cui Emily Dickinson scrisse per se stessa e per il mondo, dall’isolamento volontario in cui scelse di vivere negli ultimi vent’anni della sua vita. Una stella polare che vale la pena seguire, nonostante le nubi portate dalle sofferenze e dagli inciampi.
Viaggiare sulle ali della parola anche se si è feriti, dunque: ecco la lezione della poetessa americana in questi giorni di emergenza. Nata nel 1830 ad Amherst, nel Massachusetts (Stati Uniti), figlia di un benestante avvocato, Emily studiò prima all’Accademia della città natale e poi presso la scuola femminile di Mount Holyoke. Nel 1848 interruppe la sua formazione e rientrò ad Amherst: lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, nella casa paterna, fatta eccezione per alcuni brevissimi viaggi. Nel 1860, a trent’anni, ella vide trasferirsi in California il reverendo Charles Wadsworth, uno dei suoi pochi amici col quale aveva intrattenuto un’intensa corrispondenza: l’evento fu l’ennesima frattura di una storia segnata dalla perdita delle persone care. Da quel momento, l’esilio casalingo di Emily Dickinson divenne pressoché totale.
Non puoi far crescere il Ricordo
Quando ha perduto la Radice –
Consolidargli il Suolo intorno
E collocarlo eretto
Inganna forse l’Universo
Ma non recupera la Pianta… (1)
“Non c’è bisogno di essere una camera per venire infestati. Non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi che vanno oltre lo spazio materiale”, scrisse in solitudine la poetessa sempre vestita di bianco, trasformando il suo vissuto in paradigma universale. Un’esistenza vulnerabile ma in grado di riflettere su se stessa grazie alla parola, di sublimare la malinconia attraverso l’arte.
In una missiva dell’estate 1858 indirizzata a Joseph Sweetser, marito della zia paterna Catharine (Kate), Emily dipinse un universo limitato eppure denso di suggestioni.
“Molte cose sono accadute, caro Zio, dall’ultima volta che ti ho scritto, tante, che scrivendo barcollo, per il tagliente ricordo. Fioriture estive, e mesi di freddo, e giorni di campanellini tintinnanti, e sempre questa mano sul nostro focolare. Oggi è stata una giornata così serena fuori, eppure così triste dentro, il sole splendeva lietamente, ora viene furtiva la luna, eppure nessuno è contento. Non sempre riesco a vedere la luce, dimmi, per favore se brilla. Spero che tu sia stato bene, tutti questi giorni, e abbia ogni gioia. Qui v’è una ridente estate, che fa cantare gli uccelli e mette in movimento le api. Strane corolle sorgono su molti steli, e gli alberi ricevono i loro inquilini. Vorrei che tu vedessi quello che vedo io, e assorbissi questa musica. Il sole è tramontato, tanto tempo fa, e ancora un ingenuo coro continua il canto. Non so chi sia a cantare, e anche se lo sapessi, non lo direi!”. (2)
Scrivere come arma per sopravvivere al dolore. Scrivere per se stessi, senza inseguire la fama e l’approvazione altrui (che, peraltro, la poetessa americana raggiunse soltanto in maniera postuma). Scrivere per dare una dimora alle proprie emozioni e debolezze.