Mese: dicembre 2018

Un altro anno… il 2019!

 

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In questi giorni sospesi tra due feste, eterei, incorporei, lievemente nostalgici per qualcosa che finisce e al contempo speranzosi per qualcosa che arriverà, io propendo per quell’anno nuovo, quel diario che ha 365 pagine bianche: i bilanci sono alle spalle, ora è tempo di progetti, di rinnovate energie per ricominciare da quel punto fermo che il calendario ci pone.

E allora auguro a tutt* voi un 2019 colmo di gioia e di serenità. E soprattutto che i vostri desideri si avverino… Buon Anno!

paola

P.S. Per i prossimi articoli ci vediamo il 10 Gennaio 2019!

Alcuni suggerimenti per un vero regalo di Natale… Auguri!

Al tuo nemico, perdono.

Al tuo avversario, tolleranza.

A un amico, il tuo cuore.

A un cliente, il servizio.

A tutti, la carità.

A ogni bambino, un buon esempio.

A te stesso, rispetto.

(Oren Arnold)

Auguro un Felice Natale da trascorrere in serenità con chi amate. Un Natale che si porti via i botti, quelli che spaventano i nostri amici fedeli, ma soprattutto quelli che uccidono innocenti. Non dimentichiamoli.
E lavoriamo col sorriso sulle labbra, gli occhi aperti e le orecchie ritte per costruire un mondo migliore.
Tenendo il cuore aperto. Sempre.

paola

C’é un posto nel mondo…

 

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C’è un posto nel mondo

dove il cuore batte forte ,

dove rimani senza fiato,

per quanta emozione provi,

dove il tempo si ferma

e non hai più l’età;

Quel posto è tra le tue braccia

in cui non invecchia il cuore,

mentre la mente non smette di sognare. …..

Da lì fuggir non potrò

poiché la fantasia d’incanto

risente il nostro calore e no. .. .

non permetterò mai

ch’io possa rinunciar a chi

d’amor mi sa far volar.

Alda Merini 

 

La madre di tutte le giornaliste…

                                       E oggi vi presento Elizabeth Jane Cochran.

Elizabeth nasce nel 1864 in Pennsylvania. Dimostra di avere le idee piuttosto chiare fin da subito: a casa sua si legge il Pittsburgh Dispatch, e mi piace immaginarla sputacchiare il succo d’arancia mentre legge un articolo sessista sul quotidiano. Elizabeth prende carta e penna e scrive un’infuocata risposta indirizzandola all’editore. La sua lettera non viene pubblicata, ma lo stile e la potenza dialettica non passano inosservate: la giovane viene assunta come giornalista e assume lo pseudonimo di Nellie Bly.

Elizabeth – diventata Nellie – si dedica ad un tipo di giornalismo del tutto nuovo, inaugurando una professione adatta a chi si senta per metà scrittore e per metà investigatore privato.

Sono pezzi di indagine che procurano anche qualche disturbo alla proprietà del giornale, come quando viene inviata in Messico e viene espulsa dopo qualche mese dal governo sudamericano perché colpevole di aver raccontato la storia di un giornalista imprigionato dal presidente Porfirio Diaz per le critiche verso il potere. Rientrata in sede, finisce per essere relegata alle “pagine femminili”.

Date un’altra occhiata allo sguardo di inizio post: ve lo immaginate un tipetto del genere a scrivere di merletti e di ricette del tacchino alle prugne? Io no, e lei neppure, tanto da licenziarsi e andare a cercar fortuna altrove.

Nellie – una volta Elizabeth – va ad offrire i propri servigi al New York World, diretto in quegli anni da un “tale” Joseph Pulitzer. Il quale non solo la assume, ma le affida immediatamente un’inchiesta sul “Women’s Lunatic Asylum”. Già: un manicomio.

Una struttura in cui Nellie si fa internare, per poter raccontare in quali condizioni e a quali trattamenti fossero sottoposte le pazienti, con le quali condivide cibo rancido e cure scioccanti.  L’inchiesta ha un tale scalpore da portare ad una riforma di quel tipo di istituti.

Nel 1888 Pulitzer ha uno di quei colpi di genio che ne hanno eternato il cognome: inviare un reporter a ripercorrere il “giro del mondo in 80 giorni” immaginato da Verne, e pubblicarne i resoconti. L’idea ha un riscontro incredibile al quale contribuisce la scelta di Nellie quale giornalista in viaggio: per la prima volta, una donna vola, pernotta e si muove in maniera indipendente, attraversando Inghilterra, Giappone, Cina, Hong Kong, e due tappe che ci colpiscono un po’: Brindisi (perché è in Italia) e Amiens, perché ci abitava lo stesso Verne. Tornerà a New York dopo 72 giorni di circumnavigazione, un vero record per quell’epoca.

Dopo un periodo di lontananza dal giornalismo, Nellie Bly tornerà alla carta stampata nel 1914, con una serie di reportage dal fronte della prima guerra mondiale che sono utilizzati ancora oggi quali esempi di cronache di guerra. Si spegnerà per una polmonite nel 1922, e novanta anni dopo il “Wall Street Journal” la definirà “la madre di tutte le giornaliste”.

Mi son dilungata un po’ troppo, ma  ora taglio: una sola domanda rimane senza risposta. Come può l’industria cinematografica americana essersi lasciata sfuggire un soggetto simile, già pronto per un film? Non lo sappiamo, ma possiamo provare a immaginarlo, e magari avanzare delle candidature per l’interprete femminile che vorremmo si cucisse addosso gli abiti di Elizabeth – Nellie Bly.

Oriana Fallaci,la storia di una donna moderna e grande giornalista.

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Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico“. Oriana Fallaci

Oriana Fallaci si può definire così, a essere brevi: la giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo. Ebbe una vita straordinaria, di cui i più giovani sanno pochissimo e quel che sanno è per via delle cose che scrisse e disse negli ultimi dieci anni della sua vita – dall’11 settembre 2001 in poi – e che furono oggetto di critiche e polemiche, ma era stata moltissimo altro. Inventò un modo tutto suo di scrivere e intervistare, fu una delle prime donne a farsi strada in un mondo che fino ad allora alle donne sembrava precluso, ebbe posizioni radicali, fu molto poco politically correct e per questo divenne oggetto di attacchi e pesanti contestazioni (da cui seppe difendersi con energia). A un certo punto della sua vita diventò un personaggio, a prescindere dalle storie che raccontava e che aveva raccontato: fotografata e intervistata dai più importanti giornali internazionali, con i suoi occhialoni, le sigarette, i suoi cappelli e il suo pessimo carattere.

«Sono nata a Firenze il 29/6/1929 da genitori fiorentini: Tosca ed Edoardo Fallaci. Da parte di mia madre, tuttavia, esiste un “filone” spagnolo: la sua bisnonna era di Barcellona. Da parte di mio padre, un “filone” romagnolo: sua madre era di Cesena. Connubio pessimo, com’è ovvio, nei risultati temperamentali. Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa». Così Oriana Fallaci raccontò la sua famiglia in “La vita di Oriana narrata da Oriana stessa per i lettori dell’Europeo”: un testo destinato, appunto, ai lettori della rivista con cui collaborava. La sua era una famiglia di antifascisti militanti. Il padre era iscritto al Partito socialista italiano (PSI) da quando aveva 17 anni: «Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio padre, si sa, era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata da meno».

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Nonostante le condizioni della famiglia non fossero agiate, i pochi risparmi venivano investiti nell’acquisto di libri. Oriana Fallaci ebbe per tutta la vita una grande passione per i libri («Quando sono in una stanza senza libri mi sembra d’essere in una stanza vuota»); negli anni acquistò anche molti libri antichi creando una collezione che prima della sua morte donò alla Pontificia Università Lateranense di Roma.

Dopo la caduta del regime fascista, nel luglio del 1943, suo padre entrò nella Resistenza e portò con sé la figlia che aveva 14 anni. Con la sua bicicletta e il nome di battaglia “Emilia”, Oriana Fallaci affiancò il padre in varie operazioni, fece da staffetta consegnando ai compagni partigiani armi, giornali clandestini e messaggi e accompagnando i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre verso le linee degli Alleati. I grandi classici della letteratura pagati a rate dai genitori e la partecipazione alla Resistenza furono i due elementi fondamentali della sua formazione:

«La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura» (“Se il sole muore”, 2010).

Nonostante la militanza nella Resistenza non perse nemmeno un anno di scuola, anzi: ne saltò uno, sostenne un esame per passare dalle magistrali al liceo classico e si diplomò con un anno di anticipo nel giugno del 1947. A settembre si iscrisse alla facoltà di Medicina e iniziò a lavorare per il quotidiano di Firenze Il Mattino dell’Italia centrale (il fratello del padre, Bruno Fallaci, era uno stimato giornalista e anche le due sorelle di Oriana, Neera e Paola, iniziarono a fare questo mestiere collaborando con Oggi e il Tempo). All’inizio Oriana Fallaci si occupò di cronaca nera. Poi lasciò l’università e iniziò a scrivere di cronaca giudiziaria e anche di argomenti di costume: è molto famoso un suo articolo del 7 dicembre del 1948 in cui descrisse le sfilate di Dior a Firenze.

Il suo obiettivo era diventare «scrittore» e il giornalismo per lei era inizialmente solo un modo per guadagnare dei soldi:

«Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore. Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: “Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?”» (Archivio privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto).

Nel 1951 un suo articolo fu pubblicato sul settimanale L’Europeo, uno dei più prestigiosi del tempo. Il pezzo si intitolava “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini” e raccontava la storia di un cattolico comunista di Fiesole a cui erano stati negati i sacramenti e i cui compagni vestiti da prete avevano inscenato un funerale religioso. Negli anni Cinquanta lavorò per Epoca (diretto dallo zio) e scrisse per L’Europeo altri articoli trasferendosi a Roma (dal settimanale verrà poi assunta nella redazione di Milano continuando le collaborazioni fino al 1977). Come le altre sue colleghe si occupò di temi considerati adatti a delle giornaliste:costume e spettacolo. Intervistò gli attori stranieri che lavorano a Cinecittà e i grandi attori e registi del cinema italiano: Fellini, Mastroianni, Totò, Anna Magnani. Nel frattempo partecipò a diversi viaggi organizzati per la stampa nel mondo. Nel 1954 andò per esempio a Teheran e intervistò Soraya, la moglie dello Scià, e poi negli Stati Uniti: da quel viaggio nacque il reportage “Hollywood vista dal buco della serratura” che divenne anche il suo primo libro (“I sette peccati di Hollywood”).

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A questa pubblicazione ne seguirono altre: “Il sesso inutile” (1961), nato da un reportage sulla condizione della donna in Oriente e Medio Oriente; “Penelope alla guerra”, il suo primo romanzo pubblicato nel 1962; “Gli antipatici” del 1963. Ebbero tutti un grande successo in Italia e vennero tradotti in diverse lingue. Oriana Fallaci poté a quel punto permettersi di comprare una grande casa in Toscana per i suoi genitori e di comprare per sé una casa a Manhattan, New York, dove si trasferì nel 1963. Diventata ormai famosa e riconosciuta, in quegli anni che cercò di occuparsi di cose che non fossero divi e mondanità: chiese a L’Europeo di poter andare in California e in Texas nelle basi della NASA per vedere da vicino come si preparavano gli astronauti e scrisse sull’argomento diversi articoli e due libri, anche questi di grande successo: “Se il sole muore” e “Quel giorno sulla Luna”.

(altro…)

Lou Von Salomé e Simone de Beauvoir: quale è il vero secondo sesso tra le due scrittrici?

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Ai ricordi sono sempre fedele, agli uomini mai.

 

Con questa piccola frase si può facilmente intuire il pensiero di Lou Von Salomé, una grande figura femminile vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento. Chiunque potrebbe dunque domandarsi cosa c’entri questa donna con la più celebre intellettuale francese Simone de Beauvoir, appartenuta alla generazione successiva.
In primis andrebbe sottolineata l’affinità tra due donne di cultura, certamente portatrici di una coscienza femminile, in secundis, molto più tristemente, sarebbe necessario sottolineare la fama di entrambe, sovente legata alle loro relazioni con uomini di prestigio.

Quello che risulta più interessante, tuttavia, è la concezione della donna nelle due menti femminili e la considerazione che entrambe hanno avuto del cosiddetto “secondo sesso”, titolo, tra l’altro, dell’enorme libro sulla condizione di subalternità delle donne, sui loro diritti, su tutte le possibili sfaccettature femminili firmato dalla de Beauvoir nel 1949. Un libro scandalo, boicottato dalle librerie e messo dopo qualche anno all’indice dalla Chiesa cattolica.

 

“A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell’umanità. Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: «Sono una donna»; questa verità costituisce il fondo sul quale si ancorerà ogni altra affermazione. Un uomo non comincia mai col classificarsi come un individuo di un certo sesso: che sia uomo o donna, é sottinteso”.

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Le donne sono definite “secondo sesso” perché da sempre contrapposte, in difetto, al paradigma, alla norma dell’essere umano: l’uomo. Da questa posizione di opposizione nasce la loro condizione di dipendenza e subordinazione, il loro destino ad essere sempre e per sempre “l’Altro”. Per questo secondo Simone “Donne non si nasce, si diventa”.
Di tutt’altro avviso sembrerebbe Lou Von Salomé, spesso considerata la precorritrice di Simone per i suoi scritti, pregni di prospettiva femminile, erotismo e, allo stesso tempo, spirito di indipendenza, ma portatrice di una femminilità “affermativa”: la sua concezione della donna, in reazione alla società patriarcale, è chiaramente molto lontana dalla figura di vittima oppressa.

La donna sarebbe più forte dell’uomo, ignaro delle proprie debolezze perché spalleggiato da una società che lo vede predominante: il secondo sesso, insomma,sarebbe quello maschile. Testimone di tale pensiero è senz’altro la biografia di questa intellettuale: la scrittrice tedesca è conosciuta dai più per essere stata l’amore (spesso non ricambiato) di moltissimi intellettuali del suo tempo, dal filosofo Friedrich Nietzsche al poeta Rainer Maria Rilke. Per questo motivo, quasi un ventennio fa, La Repubblica la chiamava la “bambina mangiauomini”.

Ai suoi tempi, però, la scrittrice divenne celebre pubblicando un bestseller e si impose nel panorama letterario: l’opera era  Erotica ,scritta dopo aver perso la verginità, in tarda età, con il poeta Rilke. Tale gossip non fece altro che alimentare la canonica immagine della vergine mascolina, in stile Artemide greca, nonché la secolare etichetta di “donna virile” appiccicata in fronte alle donne di spessore, da Saffo in poi. E infatti molti la ritennero anche lesbica: solo per questo motivo, nell’immaginario comune, avrebbe potuto rifiutare tutti questi corteggiatori! Di lei restano le dieci righe che le dedica La Treccani e le menzioni nelle biografie dei suoi spasimanti.

Anche Simone, che era decisamente un individuo intelligente e capace, una persona dotata di una propria voce e un proprio stile, fu definita la “Grande Sartreuse” o la “Notre Dame de Sartre”, solo ed unicamente in relazione al Jean-Paul Sartre, suo compagno. Eppure all’interno del loro rapporto Jean-Paul e Simone erano perfettamente alla pari, anzi erano decisamente una coppia moderna, ma la società nella prima metà del Novecento ancora non riusciva a vedere e valutare una donna nel suo essere donna, nel suo essere un individuo libero e svincolato da chiunque altro.
La donna, dunque, è l’altro: la madre di, la sorella di, la compagna di, anche se Lou Von Salomé si è distaccata da tali luoghi comuni, la storia la ricorda comunque più per i suoi amori che per le sue opere e la rende un po’ vittima di quel pregiudizio che Simone denunciava, sostenendo fermamente che si dovesse uscire da una realtà basata sulla dicotomia uomo-donna e che solo nel momento in cui ciò si fosse avverato, si sarebbe potuta finalmente costruire una dimensione di neutralità fondata sulla ragione, facoltà uguale tanto negli uomini quanto nelle donne.
Quindi una doppia verità si rivela nel connubio dei due pensieri differenti: che se la donna nella tradizione secolare è il secondo sesso, e dunque abituato a lottare, fortificato nell’essere considerato sottomesso, l’universo maschile agli occhi della donna appare inevitabilmente debole,  vera vittima di una società che lo vuole inevitabilmente di successo e che cela in sé il limite del proprio sistema, nel momento in cui cancella dalla storia (con una tragica damnatio memoriae) tutti i personaggi femminili di rilievo che possano intaccare e, quindi, minare, il “modello perfetto”.

Un modello necessariamente difettoso che si può superare raggiungendo quell’orizzonte di neutralità che Simone auspicava, dove uomo e donna sono complementari nella perfetta realizzazione della società.

Feminists: una storia infinita

Protagoniste della ribellione al modello di virtù femminili, all’educazione domestica. “Donne si diventa”, aveva scritto Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, e Jane Fonda ricorda l’esuberanza che ogni ragazza conosce e come questa venga rinchiusa, mortificata, seppellita. “Fai la brava”, è il refrain del disciplinamento continuo. Tutte educate a “guardare i ragazzi da bordo campo” (Celine Kuklowsky). Negli anni 70 la grande rivolta e le ragazze finalmente disobbediscono….

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feministsdi Cecilia D’Elia

Dal 12 ottobre si può vedere su Netflix Femministe, ritratti di un’epoca – titolo originale: Feminists:What Were They Thinking?qui il trailer.

Il racconto della regista Johanna Demetrakas parte da un libro di fotografie di Cynthia MacAdams del 1977, ritratti di donne, artiste, scrittrici, cantanti, attiviste, colte nel momento dell’esplodere del femminismo. Una nuova nascita, così appare nei ricordi delle intervistate, la propria presa di coscienza. Irriducibili singolarità di donne scoprono il proprio valore grazie al femminismo, epifania collettiva del genere. “C’era un’onda e volevo cavalcarla”. A parlare sono Jane Fonda, Gloria Steinem, Lily Tomlin, Judy Chicago, Laurie Anderson, Michelle Phillips, Margaret Prescod, Phyllis Chesler, Anne Waldman, per citarne solo alcune.

Protagoniste della ribellione al modello di virtù femminili, all’educazione domestica. “Donne si diventa”, aveva scritto Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, e Jane Fonda ricorda l’esuberanza che ogni ragazza conosce e come questa…

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