Mese: novembre 2019

Dora Marr, non più all’ombra dei suoi uomini.

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‘Dietro ogni grande uomo c’è una grande donna’, si dice. Dietro, però… Sempre dietro!

Per fortuna ogni tanto c’è qualcuna che riesce a conquistare la prima fila. Dora Maar è sempre stata ricordata come amante e musa di Pablo Picasso. Ma era una fotografa e un’artista di prim’ordine, a cui la Tate Modern  di Londra dedica una mostra.

Dora Maar, nata Henriette Théodora Markovitch nel 1935, ha intessuto una carriera di fotografa curiosa e creativa ben prima di conoscere Picasso.

Ha iniziato a dipingere, poi è passata alla fotografia, si è dedicata alla fotografia di moda e pubblicitaria, poi alla street photography e al surrealismo. Picasso è arrivato dopo, quando lei era già un nome. Ne è diventata la musa e l’ha aiutato mentre lui dipingeva Guernica.

Poi si sono lasciati e lei se ne è andata nel sud della Francia e ha ripreso in mano i pennelli, creando paesaggi di grande suggestione.

Dora Maar, fotografa intelligente e ironica. Questa è una delle foto realizzate per pubblicizzare una crema anti-età.

Se proprio vogliamo tirare fuori Picasso, che aveva 20 anni più di lei e per tutta la durata della loro relazione non lasciò mai la compagna Marie-Thérèse Walter, possiamo farlo usando uno dei quadri meno conosciuti della Maar, in cui lei si dipinge schiena contro schiena con l’amante di Picasso in una tela di grandi dimensione intitolata ‘La conversazione’.

Dora Maar si dipinge insieme alla compagna di Picasso, che lui non lasciò mai per tutta la durata della relazione con Maar.

Dora era all’apice della sua carriera quando conobbe il pittore spagnolo. Lui era in crisi di creatività e non prendeva in mano il pennello da mesi e lei gli insegnò la tecnica del cliché verre e fotografò passo dopo passo la creazione di Guernica.

E vogliamo relegarla al ruolo di ‘amante di?’.

Se capitate per Londra rendetele omaggio: questa mostra lo fa con 250 tra foto e dipinti.

È vero, c’è anche qualche pezzo di Picasso in mostra, tanto per non dimenticarsi di lui (e chi può dimenticarsi di uno così ingombrante?)  ma le luci dei riflettori sono, per una volta, su di lei.

 

Fonte: sito permesola

Giovanni Boldini e il “Ritratto di Marthe Bibesco”

Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco di Giovanni Boldini

Zanin, dall’ebraico Yehohanan, significa “Dio ha avuto Misericordia” o anche “Dono del Signore″.

È il diminutivo con cui veniva riconosciuto Giovanni Boldini sin dalla più tenera età dalla sua famiglia. Nato a Ferrara dall’unione di una nobile donna e un artista intellettuale originario di Spoleto, il piccolo rimane affascinato dalle potenti virtù paterne, dimostrando chiari segni di inclinazione artistica. Tappezza interi quaderni di vari schizzi e numerosi disegni, tanto da fondare all’età di soli cinque anni un rudimentale atelier nel granaio di famiglia.

Viaggiando instancabilmente per differenti mete, trova il suo rifugio più prezioso nel cuore di Parigi della Belle Époque. Conduce una vita attratto dagli innumerevoli caffè, ampi viali alberati, lampioni elettrici, musei e sale da ballo che popolano la città. Il suo spirito libero vive all’insegna di una realtà elegante e raffinata, affine al suo modo di essere e adatta al clima di Parigi che diventa per lui in una seconda patria.

Dalle sue opere trapela una predilezione e un amore per i soggetti femminili, come accade nel “Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco”.

Marthe – Lucile Bibesco è stata una scrittrice, poetessa, politica rumena e francese, cavaliere della Lègion d’honneur. Originaria di un’illustre famiglia aristocratica, fu una delle prime donne a far parte della massoneria rumena e venne considerata come una delle figure femminili più belle di tutto il XX secolo.

Nel “Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco”, protagonista assoluta di gran parte delle opere di Giovanni Boldini è la donna.  Ma non ci riferiamo ad uno stereotipo di donna perfetta,  al contrario, egli estrae la figura femminile letteralmente dalla sua realistica vita quotidiana per trasformarla in una spettacolare divinità terrena.

La donna è per l’artista una limpida musa ispiratrice che occupa gran parte dei suoi principali ritratti nella società internazionale. Abiti sinuosi e distinti, acconciature signorili  e l’attenzione  per ogni  dettaglio sono le prerogative particolarmente accentuate nella poetica artistica del pittore ferrarese.

Ma interpretando più a fondo il suo modo di realizzarsi, nei suoi dipinti si coglie un tratto decisamente distintivo: la cura per l’aspetto psicologico.

Attraverso la riproduzione dei suoi quadri l’artista svelava l’intimità più profonda delle sue donne: le doti caratteriali, l’emotività, i sentimenti più nascosti e le pulsioni più autentiche e laceranti, quasi o del tutto represse in un clima di ipocrita morale borghese. L’artista così mette in atto non la semplice ed effimera idea di una splendida donna in tutte le sue sfaccettature estetiche, ma pone lo spettatore in una sorta di astrazione. Indaga la figura rappresentata e va oltre la mera apparenza.

Al di là della costosa stoffa che indossa, dei gioielli e dei particolari che abbelliscono la principessa Marthe-Lucile Bibesco, anche lei è mostrata come una semplice donna con le sue debolezze, fragile e sognante.

La lotta per l’emancipazione femminile è un chiaro messaggio di quanto la donna abbia sofferto nei secoli passati per una mentalità legata a sistemi incentrati sulla figura maschile. Giovanni Baldini, dunque, non si limita a giocare sulle corde del fascino femminile, ma capta quella che è l’era di un nuovo clima sociale, in cui la donna acquisisce un certo prestigio, consapevolezza umana e orgoglio di se stessa.

Marthe – Lucile Bibesco, figlia di Ion N. Lahovary e di Smaranda Mavrocordat, fu terza di cinque figli, tutti morti molto giovani.  Secondo le tradizioni della sua discendenza, e proseguendo con gli usi e i costumi dell’epoca, la sua educazione si formò alle spalle di una serie di governanti e insegnanti privati per  poi perfezionarsi in un monastero in Belgio. La sua figura si distingue per la sua postazione, il suo modo di porsi, di essere e di apparire, e naturalmente per la sua impeccabile e irrinunciabile eleganza.

La casa Dior, che la vestì per decenni, al compimento dei suoi 60 anni, realizzò per lei dei vestiti eccentrici, fastosi, lunghi abiti che toccavano terra. Durante la sua vita si riconobbe per un distinto impegno sociale e politico, essendo stata partecipe di una serie di importanti eventi storici. Venne riconosciuta la sua fama anche come scrittrice, con una serie di epistole, poemi, note di viaggio e saggi.

L’abito della donna è di un colore neutro, quasi tridimensionale, sul petto spunta un fiore nero alquanto vistoso, la lavorazione del corpetto e della coroncina è decisamente attenta e minuziosa, le pennellate esprimono un forte senso di movimento grazie alla loro ondosità mutando la manifestazione della donna in una figura “divina”, dall’aspetto luccicante e sfarzoso.

Sarah Breedlove, prima “self-made woman” della storia!

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Conosciuta come Madam C.J. Walker, da figlia di schiavi a imprenditrice milionaria…

Nel 1993 è stata inserita nella National Women’s Hall of Fame e il Guinness dei primati indicò Madam C.J. Walker come la prima donna a diventare milionaria per i suoi propri meriti; inoltre, nel 2002, lo studioso Molefi Kete Asante, l’ha inserito nella lista dei cento afroamericani più importanti della storia.

Parliamo di Sarah Breedlove, nota come Madam C. J. Walker, imprenditrice, filantropa e attivista statunitense, ma soprattutto considerata la prima donna americana che senza aiuti diventò milionaria, facendo fortuna sviluppando e commercializzando una linea di prodotti per capelli dedicata alle donne di colore con l’azienda da lei fondata, la “Madam C. J. Walker Manufacturing Company”.
La Walker era nata il 23 dicembre 1867 a Delta, nella Louisiana. A quel tempo Delta era un villaggio unincorporated (senza personalità giuridica) di poche case abitate da bianchi e centinaia di schiavi neri sparsi in baracche di legno nel territorio. Era la quinta dei sei figli e i suoi genitori e fratelli maggiori erano schiavi in una piantagione a Madison Parish di proprietà di Robert W. Burney, un ricco possidente con un migliaio di ettari e circa sessanta schiavi.

La piantagione di Burney era stata confiscata dai soldati dell’Unione nel 1865, ma i Breedlove rimasero come dipendenti in una terra soggetta alternativamente alle inondazioni e alla siccità. Quando Sarah aveva due anni, un eccezionale raccolto di cotone permise ai suoi genitori di pagare la tassa sul vincolo matrimoniale di 100 dollari e di sposarsi, legittimando così la loro unione e i sei figli.

Sarah era la prima figlia nella sua famiglia nata libero, essendo entrato in vigore il Proclama di emancipazione prima della sua nascita. Visse con la famiglia in una baracca di legno e fino all’età di 37 anni, facendo umili lavori e ogni anno aiutava i suoi familiari nella raccolta del cotone. Alla morte della madre, Sarah andò a vivere con la sorella maggiore e il marito di lei, ma all’età di 14 anni sposò Mosè McWilliams per sfuggire ai maltrattamenti del cognato, e tre anni dopo nacque la figlia Lelia.

Intanto le truppe federali avevano lasciato gli ex Stati Confederati e la loro partenza aveva aperto la strada a un regno del terrore che spinse migliaia di neri ad abbandonare il Sud. Anche Sarah, vedova ventunenne con una figlia di tre anni, si trasferì nel 1882 al Nord, a St. Louis, dove vivevano i suoi fratelli, che lavoravano tutti come barbieri. Lì fu aiutata a trovare lavoro, come lavandaia, ma  la morte del fratello per una malattia intestinale e un secondo sfortunato matrimonio provarono molto la Walker.

Come molte donne di quel tempo, Sarah subì la perdita di capelli. Poiché la maggior parte degli americani non avevano acqua corrente, riscaldamento ed elettricità, facevano il bagno e lavavano i capelli raramente. Il risultato erano malattie del cuoio capelluto. La Walker sperimentò rimedi casalinghi e prodotti già presenti sul mercato fino a quando sviluppò un proprio shampoo e una pomata che conteneva zolfo per mantenere il cuoio capelluto sano e favorire la crescita dei capelli. Sullo sviluppo del suo prodotto Madam Walker raccontò un’improbabile storia, per colpire l’immaginazione delle donne di colore; disse che la formula del suo prodotto per la crescita dei capelli le era stata rivelata in sogno da un “big black man”.

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Sarah Breedlove iniziò a commercializzare i suoi prodotti come Madam C. J. Walker, prendendo il cognome del suo terzo marito. Cominciò vendendo lei stessa il suo “Madam Walker’s Wonderful Hair Grower” porta a porta, fino ad ampliare le vendite a tutti gli Stati Uniti. Mentre sua figlia Lelia gestiva la vendita per corrispondenza da Denver, la Walker e il marito viaggiavano in tutto gli Stati orientali e meridionali.

Si stabilirono a Pittsburgh nel 1908, dove aprirono il Lelia College per preparare quelle che chiamava “hair culturists” o “Walker agents: erano donne di colore, altrimenti destinate a umili lavori, a cui insegnava i fondamenti della cosmesi e della tricologia e che vendevano porta a porta, guadagnando molto di più di quanto potevano sperare di ottenere come domestiche o cuoche; a esse dava anche lezioni su questioni politiche e sociali, incoraggiandole a diventare economicamente indipendenti e proponendosi come esempio.

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Nel 1910 la Walker si trasferì a Indianapolis, nell’Indiana, dove stabilì il suo quartier generale e costruì una fabbrica per produrre i cosmetici. Con i suoi viaggi fatti nei primi anni del Novecento a Cuba, Haiti, Panama e Costa Rica riuscì ad estendere la vendita dei suoi prodotti in tutti i Caraibi.

Nel 1917 si spostò nella sua proprietà, a Irvington, Villa Lewaro, che era stata progettata da Vertner Woodson Tandy, il primo architetto nero con licenza dello Stato di New York. Negli ultimi anni si occupò di politica, per promuovere le condizioni della gente di colore. Al meeting della National Negro Business League di Chicago del 1912, ebbe un posto sul podio e volle narrare la sua storia: “Sono una donna che proveniva dai campi di cotone del Sud. Sono stata promossa lavandaia. Poi sono stata promossa cuoca e da lì mi sono promossa da sola nel mondo degli affari ideando e realizzando prodotti per capelli”.

Alla sua morte, avvenuta a 51 anni, era considerata la più ricca donna afroamericana degli Stati Uniti ed era nota per essere la prima americana che era diventata milionaria con le sole sue forze. La Walker lasciò un patrimonio allora valutato 600 000 dollari (pari a 6 milioni di dollari di oggi).

Chapeau a questa grande Donna, che dal nulla ha creato un impero!

Rosalia de Castro, la malinconia gallega.

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Se nell’Ottocento Amherst, nel Massachusetts, ha la sua voce solitaria ed appartata in Emily Dickinson, prezioso dono maturato nell’isolamento e nel silenzio, in quegli stessi anni in Spagna, in Galizia, Padron ha il suo canto nella voce profonda e intensa di Rosalia de Castro.

Ho avuto la fortuna di visitare la sua casa-museo a Padron, una città ricca di storia e di testimonianze poetiche della letteratura gallega, che è anche l’ultima tappa del Cammino Portoghese che conduce a Santiago di Compostela.
Rosalia de Castro nasce nel 1837 a Camino Novo, un sobborgo di Santiago di Compostela, sette anni dopo Emily Dickinson ed è la figlia illegittima di un sacerdote e di una ragazza nubile di nobile famiglia.
Lo scandalo della sua nascita segnerà profondamente gli anni della sua infanzia, facendola sentire dolorosamente non conforme ai dettami della società del tempo. La sua vita è difficile, caratterizzata da stenti e difficoltà, ma segnata fin dall’inizio da un amore inestinguibile per la poesia.

Si sposa con lo storico giornalista Manuel Murguia, ha sette figli, di cui gli ultimi due muoiono, uno ad appena un anno e l’altra alla nascita. Scompare a quarantasette anni per un tumore all’utero.
Eppure, questa donna povera e tormentata, è riuscita con la sua opera ricca e complessa a riabilitare la lingua gallega, riannodando quel filo interrotto con gli antichi cantori del XIII e XIV secolo, dopo che per secoli era stata sminuita in favore del catalano e del castigliano.
La forza creativa della sua poesia, la sua capacità di vibrare in consonanza col suo popolo cantandone le fatiche, il dramma della povertà e dell’emigrazione, fanno di lei un riferimento potente soprattutto dal punto di vista identitario. È un magnifico destino per un poeta identificarsi con il suo popolo, fino a confondersi con esso: Rosalia de Castro è diventata emblema di quello gallego, offrendo il suo volto per rappresentare la Galizia stessa al punto da essere effigiata sulle banconote spagnole da cinquecento pesetas.
A Padron, i suoi compaesani emigrati in Uruguay hanno voluto dedicarle una statua in segno di gratitudine.
Rosalia de Castro però non è soltanto la voce del suo popolo, è anche colei che sa dialogare con l’ombra, con la saudade profondamente inscritta nei geni della poesia gallego-portoghese, quella combinazione unica di malinconia e nostalgia, di solitudine e senso tragico del commiato. Nessuno come lei può dirsi più affine alla sua terra estrema che si affaccia all’Oceano, immersa nella contemplazione metafisica del Nulla.

 

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Visitare la sua casa-museo mi ha fatto riflettere  sulla vita e sulla parola di questa donna che, pur conducendo un’esistenza impervia, all’insegna della diversità e votata ad un destino di solitudine interiore, è riuscita a innalzare il suo canto, teso in un anelito verso l’Assoluto.
Rosalia de Castro esprime nel suo temperamento malinconico e lirico il genius loci della sua terra, terra di horreos, i tradizionali granai galiziani, di ortensie blu, di boschi e di nebbie, di stregoneria e di mistero. L’atmosfera atlantica evocata dalla sua poesia è la dimensione tragica e fatale di Ananke, la dea del Destino e della Necessità.

L’Oceano per l’anima gallega è tutto, le sue onde sono dispensatrici di vita e di morte. Indicative di questo profondo amore sono le ultime parole che Rosalia de Castro pronunciò prima di morire “Aprite la finestra, che voglio vedere il Mare.” dipinte sul muro della sua camera.
Ma Rosalia non è solo poeta dell’ombra e della malinconia, è anche un’antesignana dei diritti per le donne, per la cui emancipazione si battè strenuamente. Fu sempre in prima linea nella difesa dei diritti civili e umani. Il suo impegno e la sua ricerca poetica l’accompagnarono per tutta l’esistenza, rendendola testimone preziosa del suo popolo e della sua terra. Per questo oggi la sua voce si fa sempre più nitida e forte, faro luminoso della poesia gallega, ancora così poco conosciuta in Europa e nel mondo.

Le donne che “turbano”.

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Il Benin è uno stato che si affaccia sul Golfo di Guinea. Per 450 anni ha fornito il maggior numero di schiavi, uomini e donne, agli Stati Uniti, ai proprietari di campi di cotone che volevano manodopera a basso costo, a signori e signore benestanti che volevano fregiarsi di avere uno schiavo o schiava in casa perché la servitù di colore dava uno status di un certo tipo.

Le donne vendute come schiave venivano rasate a zero per risultare meno seducenti e non indurre in tentazione il padrone o gli altri schiavi con cui condividevano case e giacigli.

Ma pur private di ogni possibile anelito di libertà, fisica, psicologica, di pensiero o di parola, le donne del Benin trovarono ugualmente il modo di ribellarsi.

Iniziarono a fasciare la testa in turbanti fatti con stoffe a colori e disegni vivaci. Il modo di annodare i turbanti divenne sempre più complesso, tanto da diventare una vera e propria arte. E a seconda dell’annodatura le donne riuscivano a inviare messaggi non scritti e non detti: chi era il padrone, da dove venivano, se avevano marito, se erano state vendute e così via.

Messaggi, naturalmente, intelligibili sono alle persone di uguale provenienza, ma era proprio a loro, non certo ai padroni, che volevano rivolgersi.

Oggi tante donne africane continuano ad annodare turbanti bellissimi sulle loro teste, e sapere che dietro ai loro turbanti c’è una storia di schiavitù, oppressione e ribellione intelligente me le fa vedere con occhi diversi.

Per opporsi, per dire no, non serve urlare. A volte basta annodare un turbante!

Questa storia bellissima l’ho trovata su Slow News (a Cesare quel che è di Cesare), che da tempo racconta storie di giornalismo ‘lento’ e sussurrato, non gridato, ma approfondito e interessante.