“Prima e dopo” di Alba de Céspedes: una nuova edizione dopo sessant’anni.

Una donna forte, indipendente, che lavora, ha un amante, non vuole figli. Ma il suo equilibrio si incrina quando la abbandona la sua domestica. Ripubblicato da Cliquot, è uscito lo scorso 14 dicembre una nuova edizione di “Prima e dopo” introdotto da Nadia Terranova.

Mi rende felice che, negli ultimi anni, de Céspedes sia molto studiata, che i suoi libri siano di nuovo pubblicati e tradotti. Ho letto che negli Stati Uniti, anche grazie alle buone parole di Elena Ferrante, le sue opere stanno ricevendo un incredibile successo di critica e pubblico.

La casa editrice indipendente Cliquot ha scelto di pubblicare, l’anno scorso, con mia grande gioia,  Prima e dopo, da tempo fuori catalogo, e lo pubblica con la prefazione di Nadia Terranova.

L’illustrazione di copertina, di Alessandra Dalessandro, è luminosa. Soprattutto al confronto con l’edizione del 1977, un “paesaggio romano” di Mario Mafai. Franchini disegna una foglia nel cielo, su fondo bianco, sotto di lei un gruppo di alberi. È sola, quella foglia, staccata da tutti, sospesa. Racconta molto della situazione di Irene, la protagonista del libro.


Come nota Terranova nella prefazione, infatti, “di solito, Alba de Céspedes presenta donne sul margine della società e della famiglia, in lotta con i ruoli che la società patriarcale ha previsto per loro, donne che non vogliono essere solo figlie, mogli e madri. Di solito, racconta l’incedere e l’esplodere del loro percorso di emancipazione, succede con Alessandra in Dalla parte di lei, con Valeria in Quaderno proibito“. 

Qui invece troviamo Irene che non deve liberarsi da niente, si è già liberata da tutto: dal matrimonio come unico destino, dalle aspettative della madre. Non ha scelto la maternità, non ha scelto le convenzioni. Vive da sola, è un’intellettuale, scrive per mestiere, ha interrotto un fidanzamento prima del matrimonio e ha un amante. La famiglia di Irene sono le amiche, e anche rispetto alle sorelle biologiche procede per differenziazione: una è suora, devota all’amore per un dio tradizionale, l’altra vive come vivono tutte le donne borghesi della società dell’epoca, ha un marito, è superficiale e frettolosa.

Gli altri, le altre, sono, per stessa definizione di Irene, più voci che presenze nella sua vita: la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma alle donne è sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Céspedes l’ha sempre raccontato, altrove come traguardo, qui come punto di partenza.

Scopro però, fin dalle prime pagine, che dietro la corazza sana e forte, una donna libera può ammalarsi per un abbandono – non quello di un compagno e neppure di un’amica, ma per l’abbandono di una domestica. Con Irene entriamo nella sottile relazione tra una donna colta e sola e un’altra, di diversa estrazione sociale. Ma anziché marcare il divario tra le due e insistere sul cliché, de Céspedes capovolge gli equilibri, è la domestica ad avere potere, emotivo e psicologico, sull’intellettuale, anche se è più giovane, anche se è ignorante.

Irene ha bisogno di Erminia e vacilla quando lei dà le dimissioni. (…) Irene dopo il crollo si guarda intorno e rinomina tutto il suo mondo, smette di essere giudice degli altri e, cominciando a guardare sé stessa attraverso gli occhi di Erminia, scavando dentro le proprie fragilità, arrivando, nelle ultime righe, a una forma di inclemenza priva di compiacimento che raggiunge un piccolo vertice di scrittura. Servendosi di questo parallelismo tra le due donne, destinate a contaminarsi a vicenda con le proprie solide convinzioni, Alba de Céspedes ci consegna un nuovo sguardo sul femminile, molto contemporaneo e al contempo “audace”.

Il finale rimetterà in discussione ogni certezza, dandoci l’esatta misura del talento di questa scrittrice del Novecento e della straordinaria perspicacia della sua scrittura che, già negli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, riusciva a mettere in discussione regole e dogmi incontestabili, mostrandoci l’anima femminile come un fuoco ardente che bruciava senza consumarsi.

 
Le donne dei libri di de Céspedes non sono mai immobili, camminano sole per le strade delle città, scrivono, leggono, parlano, soprattutto “pensano” e riescono così a restituirci le immagini a colori di un mondo non poi così lontano che noi ancora, ostinatamente, crediamo in bianco e nero come le scene dei film d’epoca. 


Le pagine della scrittrice illuminano il Novecento e con esso la coscienza femminile, giungendo alle lettrici contemporanee con l’impeto sovversivo di una consapevolezza nuova, forse oggi più comprensibile e nitida di ieri. C’è un “Prima e un dopo” non solo nella storia di Irene, ma anche nella vita di ogni donna.

*Alba de Céspedes, “Prima e dopo”, prefazione di Nadia Terranova, Cliquot, 2023.

Otto Marzo con Artemisia Gentileschi e il coraggio di essere donna.

Artemisia Gentileschi ” Autoritratto come sognatrice di liuto” 1617-1618, ” Curties Gallery”, Minneapolis, U.S.A.

Nel giorno dedicato alle donne, è bello ricordare la figura di una grande artista che al tempo stesso, in un’epoca e un mondo esclusivamente declinati al maschile, rappresentò un’eroina dell’emancipazione femminile ante litteram.

Figlia del pittore Orazio e di Prudenzia Montoni, Artemisia Gentileschi nacque a Roma l’8 luglio del 1593. La sua fu una vita avventurosa e per certi versi drammatica, certamente mai semplice.

Se infatti ancora nel 1649, quando ormai s’era già creata una solida fama d’artista, scriveva a don Antonio Ruffo, suo committente napoletano: “Il nome di donna fa stare in dubbio finché non si è vista l’opera, ma farò vedere a Vostra Signoria che cosa sa fare una donna”, si capisce quanto Artemisia dovette combattere contro pregiudizi e stereotipi.

Erano tempi in cui alle donne la vita riservava di solito soltanto due strade tracciate per loro dal padre o, in assenza, dai fratelli: sposarsi e tapparsi in casa per prendersi cura dei figli e delle faccende domestiche oppure chiudersi in un convento a sgranare rosari.

Ma Artemisia era troppo intelligente, cocciuta e “diversa” da tutte le altre per rassegnarsi ad un destino che non era il suo. Nella bottega paterna fin da bambina diede prova di possedere uno spiccato talento artistico, di gran lunga superiore a quello dei fratelli maschi che cercavano invano di seguire le orme del genitore.

Artemisia Gentileschi, ” Susanna e i vecchioni”, 1610.

Ciò le permise di realizzare a soli 17 anni il suo primo capolavoro, la “Susanna e i vecchioni”, ispirato al realismo caravaggesco che sarebbe poi sempre stato una costante dei suoi quadri.

Proprio nella bottega di famiglia avvenne però il “fattaccio” che, costringendola ad attraversare il guado doloroso che troppe donne hanno dovuto affrontare, l’avrebbe segnata per la vita.

A 18 anni d’età, infatti, fu stuprata da Agostino Tassi, pittore pure lui e amico di suo padre, che proprio per questo l’aveva pregato fare da maestro di prospettiva alla figliola.

Sebbene consigliata da più parti di accettare un matrimonio riparatore o quanto meno di tacitare l’accaduto, Artemisia, in ciò precorrendo di circa tre secoli e mezzo la siciliana Franca Viola, altra donna simbolo dell’emancipazione femminile italiana, denunziò per violenza carnale il suo assalitore dando così inizio ad un processo surreale che, per assurdo, avrebbe visto lei salire sul banco degli imputati perché, come donna giovane e bella, le si rimproverava di essersi comportata alla stregua di una “Eva tentatrice”.

Sottoposta alla tortura “dei sibilli”, cioè allo stiramento delle dita con corde che le misero a rischio l’uso delle mani, ebbe comunque la forza di non cedere, confermando anche fra i tormenti la sua versione dei fatti e così facendo condannare il Tassi ad una pena comunque ridicola, consistente nel versamento di una somma di denaro e conseguente partenza in esilio.

A lei, uscita da quell’umiliante processo col marchio infamante della “prostituta bugiarda” e derisa con perfidi giochi di parole, quali “Arte / mi / sia / Gentil / esca”, non restò che cambiare aria e cognome per rifarsi dal 1612 una vita a Firenze, accanto ad un altro pittore che lei accettò di sposare senza alcun trasporto sentimentale, al solo fine di lasciar chetare le acque.

Alla Corte dei Medici Artemisia poté liberamente esprimere la sua arte, tanto da guadagnarsi il privilegio unico per una donna di essere ammessa alla prestigiosa “Accademia del Disegno” fondata nel 1563 dal Granduca Cosimo I.

Durante i suoi anni fiorentini dipinse soggetti femminili straordinari fra i quali spicca la “Giuditta che decapita Oloferne”, opera auto-biografica da cui traspare tutto il suo rancore nei confronti del bruto che le aveva rovinato la giovinezza.

Un’Artemisia arrabbiata e ferita nei sentimenti si sarebbe di lì in poi concentrata non sui soliti temi della “peinture des femmes” quali nature morte, animali e paesaggi, bensì su argomenti forti, “da uomini”, come eroine tragiche, scene mitologiche o impianti monumentali.

Videro così la luce in rapida serie: “Minerva”, “Autoritratto come martire”, Cleopatra”, “Maddalena penitente”, “La conversione della Maddalena”, “Lucrezia” e molti altri capolavori oggi sparsi nei più importanti musei di tutto il mondo.

Liberatasi infine anche del peso costituito da un marito mai amato e poco sopportato, a partire dal 1621 la nostra Artemisia, dopo aver ripreso il suo cognome da nubile, iniziò a girare il mondo con la sola compagnia della figlia Palmira.

Visitò le maggiori corti italiane ed europee in cerca di commissioni lavorative, sostando così a Genova, Roma, Venezia, Napoli, Londra e poi di nuovo a Napoli, dove si spense l’8 agosto del 1656.

“Uccidere il drago” di Amalia Bautista.

August Macke ~ San Giorgio”.

UCCIDERE IL DRAGO 

È giunto il momento di uccidere il drago,
di porre fine per sempre al mostro
dalle mascelle terribili e dagli occhi di fuoco.
Dobbiamo uccidere questo drago e tutti gli altri
che si riproducono intorno ad esso.

Il drago della colpa e il drago del terrore,
quello del rimorso sterile, quello dell’odio,
che sempre divora la speranza,
quello della paura, quello del freddo, quello dell’angoscia.
Dobbiamo uccidere anche quello che ci tiene
schiacciati a faccia in giù per terra,
immobili, codardi, sradicati, spezzati.

Possa il sangue di tutti questi draghi
inondare ogni parte di questa casa
fino ad arrivarci alla cintola.
E quando quell’ammasso di mostri non sarà
che un mucchio di visceri e occhi
spalancati sul vuoto, finalmente potremo
salire e, appollaiati su di loro,
raggiungere le finestre, aprirle o romperle,
lasciare entrare la luce, la pioggia, il vento
e tutto ciò che era bloccato
dietro i vetri.

(da Sono assente, 2004)

È una poesia abbastanza pulp questa di Amalia Bautista, ma l’autrice spagnola rende bene l’idea della necessità di liberarci dei “mostri” interiori che ci soggiogano e ci tolgono la libertà di vivere appieno la nostra esistenza: la paura, l’odio, il senso di colpa, l’ansia e via discorrendo.

È necessario uccidere il drago, di più: dopo averlo ucciso, guardarlo in faccia e servirsene per elevarci, per aprire le finestre, lasciare entrare l’aria pura, la pioggia e il sole, la luce.

Amalia Bautista (Madrid, 1962), scrittrice e poetessa spagnola. La sua laurea in Scienze dell’Informazione le ha permesso di lavorare come attrice di doppiaggio, ma attualmente lavora come giornalista, più conosciuta per il suo lavoro poetico sviluppato in un percorso breve ma molto interessante. Con un linguaggio colloquiale esprime una profonda ansia di assoluto, intesa come amore, soprattutto su temi erotici, dove indaga la passione e l’emozione.

Parte del suo lavoro è stato tradotto in italiano, portoghese, russo e arabo.

Jane Austen, narratrice di emozioni senza tempo.

L’immagine è tratta dal film “Orgoglio e pregiudizio”, 2005 con l’attrice Keira Knightley nei panni di Elizabeth e Matthew Macfeyden in quelli di Darcy.

“Imperscrutabile e misteriosa rimarrà sempre”.

Così avrebbe detto di lei, ad un secolo circa dalla sua scomparsa, la scrittrice Virginia Woolf, che la considerava “la prima in ordine d’importanza e fama” nella storia del romanzo britannico.

In effetti di Jane Austen ben poco si sa, anche perché la sorella Cassandra bruciò quasi tutte le lettere indirizzatele dalla stessa Jane, così contribuendo ad alimentare l’aura di mistero che ancora avvolge colei che è stata definita “la portavoce della borghesia”.

Certo è che “la sua breve vita fu singolarmente povera di eventi”, come affermò nel 1870 il suo primo biografo, il nipote Edward Austen.

Infatti, a parte qualche rara gita a Londra, non si allontanò mai dal sud dell’Inghilterra, dove nacque il 16 dicembre del 1775 come secondogenita di George, pastore della Chiesa Anglicana, e di Cassandra Leigh.

Dalla natia Steventon si trasferì nella città termale di Bath, molto alla moda in quegli anni perché frequentata da turisti al tempo stesso benestanti, frivoli e chiassosi, che a Jane risultavano particolarmente fastidiosi.

Proprio questa località fa da sfondo a tante scene dei suoi romanzi, scritti nell’ancora esistente cottage di Chawton, villaggio dove Jane andò a vivere insieme alla sorella e alla mamma nel 1809, dopo la morte del padre, in un’abitazione messale a disposizione dal fratello Edward.

In quegli anni infatti le donne non sposate come lei, per mantenere la loro rispettabilità di fronte al mondo, avevano bisogno della tutela di un parente maschio, non potendo lavorare e guadagnarsi da vivere da sole.

Il piccolo mondo in cui visse la sua tranquilla esistenza è il vero protagonista delle sue opere. Si tratta di un mondo ovattato, discreto e ritagliato dal chiasso dell’altro mondo, ben più ampio e tuttavia lontano, in cui contemporaneamente in Europa si combatteva contro Napoleone.

In questo ambiente i personaggi creati dalla fertile immaginazione della Austen si muovono, gioiscono, soffrono, amano e talvolta vengono respinti in un intreccio dove, a caratteri introversi e taciturni, fanno da contraltare altri chiassosi, buffi e sguaiati, che compensano i silenzi dei primi.

Finisce così che i vari Bennet, Darcy, Thorpe, Musgrove e Bertran, con la loro variopinta umanità, ci risultano familiari, come se fossero i nostri vicini di casa.

Il capolavoro dell’autrice di “Ragione e Sentimento”, “Emma”, Mansfield Park”, “L’abbazia di Northanger” e “Persuasione”, rimane comunque “Pride and Prejudice” (“Orgoglio e Pregiudizio”) del 1813, romanzo dal quale sono state tratte numerose versioni cinematografiche.

In quest’opera la Austen descrive l’incontro-scontro fra Elizabeth Bennet, figlia di un gentiluomo di campagna, e Fitzwilliam Darcy, ricco e aristocratico proprietario terriero.

Sebbene i due paiano presi l’uno dall’altra, la vicenda è animata dalla forte contrapposizione fra l’”orgoglio” derivante dal rango sociale e dalla fortuna di Darcy e il “pregiudizio” da lui nutrito nei confronti dell’inferiorità sociale dei Bennet.

A oltre due secoli  dalla scomparsa, avvenuta il 18 luglio del 1817, i numerosi lettori rimangono affascinati dalla capacita di Jane Austen di mettere a nudo la tragicomicità di vicende umane e contesti sociali apparentemente ordinari e circoscritti.

Simone de Beauvoir e la sua lotta per l’uguaglianza delle donne.

Simone de Beauvoir a una manifestazione del MLF a Parigi.

Simone nasce all’inizio del rivoluzionario XX secolo, il 9 gennaio del 1908, nella Parigi della Belle Époque. A lei non interessa “un buon partito”: vuole decidere del proprio futuro, senza se e senza ma. Adora studiare (purtroppo, come direbbe papà Georges). Se fosse stata un maschio, sul suo amore per il sapere si sarebbe potuto investire. Ma che destino avrà una figlia bruttina e cervellona, visto che non c’è una gran dote ad allettare i pretendenti? E che pretende di fare la scrittrice, per di più. Mon Dieu!

Gli inizi non sono facili. Simone i libri non li legge, li divora. E sta sveglia di notte a scrivere. Studentessa dotatissima, si iscrive a filosofia alla Sorbona e nel 1929 ottiene l’idoneità all’insegnamento superiore riservata ai migliori allievi. Vuole guadagnare per mantenersi e rendersi indipendente, perché questa è la base di tutto. È innamorata di Jacques, suo cugino, ma quando lui parte per il servizio militare il loro amore sembra non superare la lontananza. Simone si strugge, si confida con la sua amica di sempre Elisabeth “Zaza” che eserciterà grande influenza nella vita e nelle pagine di Simone, con i suoi problemi col fidanzato Maurice e con la madre borghese, capace di piegare ogni passione della figlia ai presunti valori di una famiglia bigotta e dispotica. Zaza muore giovane di crepacuore e Simone si sente in colpa perché negli ultimi tempi l’ha trascurata per frequentare un uomo che ha conosciuto all’università. Si chiama Jean-Paul Sartre. Già.

Jean-Paul Sartre (1905 – 1980) e Simone de Beauvoir (1908 –1986) nell’appartamento di Sartre a Parigi in Rue Bonaparte, ca. 1964.

Quella di Simone e Jean-Paul è una storia lunga tutta una vita. Con Sartre, Simone condividerà, oltre al letto, il lavoro di scrittrice e l’impegno politico. Insieme frequenteranno i caffè della Rive Gauche, affollati da artisti e intellettuali, faranno viaggi importanti, vivranno relazioni aperte e appassionate, affronteranno la guerra e la separazione, per poi ritrovarsi e non lasciarsi mai più. Tra loro due c’è una complicità unica. Diventerà famoso il soprannome con cui lui la chiama affettuosamente: mon castor, il mio castoro. Era stato un amico ad affibbiarglielo: “Perché sei sempre operosa come un castoro, e castoro in inglese si dice beaver, che suona un po’ come il tuo cognome”.

L’amore con Jean-Paul non può essere certo convenzionale. Un rapporto che, per certi aspetti, scandalizza, ma attrae quella società che dopo la guerra avverte un gran bisogno di un cambiamento epocale. 

Con altri intellettuali Jean-Paul e Simone prendono posizioni nette, in politica e nel sociale. Difendono il movimento indipendentista algerino, svelando gli orrori del colonialismo. Dialogano con Che Guevara e Fidel Castro, appoggiando la resistenza cubana, ma condannano la repressione della rivoluzione ungherese da parte dell’Urss.

Si schierano contro la guerra in Vietnam e a favore della rivolta studentesca del Maggio francese, per l’aborto e contro l’ayatollah Khomeini, per esempio. Sartre sarà così famoso che la sua personalità rischierà di schiacciare quella di Simone, considerata a volte solo la sua compagna. Invece lei aveva ben presente da sempre che tipo di donna voleva diventare.

Greta Garbo e il suo fascino senza tempo.

La “Divina” uscì dalle scene ad appena 36 anni e visse per il resto della vita in una sorta di esilio mediatico autoimposto. Nessuna apparizione pubblica, nessuna intervista, nessuna foto posata, nessuna dichiarazione, nessuna partecipazione ad eventi, feste, premi. Niente di niente: la Divina Greta Garbo visse la sua seconda vita, fino alla morte, avvenuta a 85 anni, come una donna qualunque. Proprio lei, che non lo era mai stata.

Affascinante più di ogni altra star di Hollywood di quel periodo, con il suo accento nordico (era di origine svedese) e il corpo androgino, le spalle larghe, il volto dall’incarnato lunare, le sopracciglia sottili, Greta Garbo è stata l’attrice più amata del cinema muto degli anni Venti e di quello sonoro degli anni Trenta: candidata all’Oscar quattro volte, ne ha vinto uno alla carriera nel 1955 quando ormai era fuori dalle scene da una decina d’anni e neppure si presentò a ritirarlo. Se ancora oggi sappiamo riconoscere il suo profilo o le sue pose, se ancora oggi rimaniamo ammaliati dal suo sguardo magnetico, è perché Greta Garbo incarnava già all’epoca un ideale di bellezza fuori dagli schemi. Un genere “fluido”, diremmo oggi!

Greta Garbo in posa per il fotografo Edward Steichne (Conde Nast/via Getty Images)

Nasce come Greta Lovisa Gustafsso nel 1905 da una famiglia che viveva in un quartiere popolare di Stoccolma: papà netturbino e mamma di origine contadina. Greta è di una disarmante bellezza fin da piccola, ma anche di carattere malinconico e solitario. Però c’è il teatro che la attrae: coltiva da autodidatta la recitazione mentre fa mille lavori (deve tuttavia licenziarsi da commessa di un grande magazzino per eccesso di avance da parte dei clienti), posa da modella per varie pubblicità e comincia ad essere notata anche dai registi svedesi che contano. Sono gli anni della borsa di studio all’Accademia Regia di Stoccolma, dove si affina nella recitazione, quelli in cui conosce Mauritz Stiller, regista finlandese che le sarà a lungo pigmalione.

La Greta Garbo ventenne non è forse pienamente consapevole della sua presenza scenica, ma di certo ha il gusto per la stravaganza di classe: cambia il suo cognome in Garbo, che riecheggia quello di Bethlen Gàbor, un importante sovrano ungherese del Seicento, e comincia a vestirsi in modo insolito. Insolito per i canoni del tempo s’intende: pantaloni, camicia accompagnata da cravatta, giacche maschili. La sua sensualità è esplosiva, e non solo per gli uomini. A metà degli anni Venti, grazie a La vita senza gioia di Georg Pabst diventa famosa in Europa e si guadagna un buon contratto con la MGM.  La strada è spianata per diventare la “Divina“.

Greta Garbo ha sempre avuto uno stile androgino (Getty Images)

Da ‘divina’ Greta Garbo interpreta per un decennio, dal ’27 al 37, una ventina di ruoli per così dire sovrapponibili: è la Donna Fatale o La Tentatrice o comunque l’amante, la vamp provocante, la seduttrice senza scrupoli né morale. Le piace? No, affatto. Vorrebbe altro. Desidera fortemente ruoli diversi, diversificati, magari anche comici. Dovranno passare tante “fatali pellicole” – peraltro quelle che costruiranno il mito della Garbo  – prima che venga proposta come protagonista di un film sonoro. S’intitola Anna Christie e viene lanciato con lo slogan “Greta Garbo parla!” (Hollywood diffidava parecchio della sua cadenza mitteleuropea).

Dopo qualche anno, nel ’39, il regista Ernst Lubitsch compie un azzardo che si rivela azzeccato: in Ninotchka la Garbo “ride per la prima volta” e si rivela una brava e versatile attrice anche su questo fronte. Il pubblico e i critici sono però volubili, si sa: passano pochi anni e Non tradirmi con me viene accolto con freddezza. Greta Garbo ne soffre molto e forse la delusione, unita all’insofferenza sempre più marcata verso i fotografi che non le danno tregua, la spingono a compiere un taglio drastico. Stop al cinema, stop ai paparazzi, stop al set e al pazzo mondo di Hollywood. Greta Garbo ha solo 36 anni, ma non tornerà più sui suoi passi.

Fata severa (copyright Federico Fellini), Greta Garbo non ha mai amato l’attenzione morbosa del pubblico e della stampa scandalistica per la sua vita privata: riservatissima, austera e indipendente ha avuto tanti amori. Tra i più noti, quello con l’attore John Gilbert, oltre ad appassionate relazioni femminili (come quella con la poetessa Mercedes de Acosta, poi amante anche di Marlene Dietrich, l’Angelo Azzurro e rivale storica della Garbo sul grande schermo).

Rivoluzionaria la Garbo lo è stato per il modo in cui ha saputo portare nuovi canoni di bellezza sul grande schermo, per quel suo non curarsi delle convenzioni e per il granitico coraggio a rinunciare a privilegi e favori che la sua fama le avrebbe concesso ancora a lungo.

Greta Garbo muore anziana (1990), dopo aver vissuto la sua seconda vita in un lussuoso appartamento di New York che era diventato il suo personalissimo rifugio e dopo la morte attuò la sua ultima fuga disponendo per testamento di essere trasferita nell’isola natale, dove riposa, lontanissima da un mondo al quale sentì forse di non appartenere mai.

Le mie interviste al femminile… oggi sono con Grazia Livi.

Grazia Livi devo raggiungerla a Milano: mi comunica che ha lasciato Firenze da qualche anno e ormai si è stabilita in Lombardia. Poco importa dove abiti, la Toscana la porta con sé, nel suo modo di parlare, nel suo garbo e in questa evidente acutezza del modo che ha di sentire le cose.

“Buongiorno, Grazia, sono felice di incontrarla finalmente!”
“Buongiorno a te. Vuoi un tè caldo? Con questo tempo….”

“Volentieri, la ringrazio”.
“Anch’io alla tua età volevo fare la giornalista, ho iniziato da giovanissima. Prima di mollare, nel ’70, ho scritto per riviste importanti e ho girato tutta Europa per incontrare gli artisti che dovevo intervistare”.

“Come mai si è avvicinata al giornalismo e ha scelto poi di abbandonarlo?”
“Vedevo le mie coetanee finire il liceo, in alcuni casi l’università, sposarsi e mettere su una normalissima famiglia. Io volevo tentare di sottrarre la mia identità all’informe destino femmineo. Il giornalismo era un passo verso l’emancipazione, per me che avevo sete di conoscenza e nuove esperienze: avevo incarichi con “Il Mondo”, “La Nazione”, “L’Europeo”, “Epoca”, “Paragone” e molti altri…”

“E poi cos’è cambiato?”
“Poi ho capito che il giornalismo mi dava cibo più che nutrimento e che i motivi che mi avevano spinto verso quel mondo erano la fame di indipendenza e l’amore per la scrittura. Riflettendoci, mi resi conto che tra ciò che volevo esprimere e ciò che potevo esprimere nei miei articoli rimaneva un divario per me intollerabile. La mia identità si stava appiattendo nella firma, non era più libera, non era più curiosa. Così, ho mollato”.

“Poi è cominciato il suo amore con la narrativa e la saggistica…”
“In realtà avevo già scritto un romanzo nel ’58, Gli scapoli di Londra, che aveva anche riscosso un certo successo tra gli intellettuali del tempo, tra cui Montale. Poi, visti gli impegni di redazione, mi ero fermata per vent’anni”.

“Oltre a L’Approdo invisibile, del 1980, uno dei suoi lavori che più mi ha colpito è Le lettere del mio nome, un vero e proprio faccia a faccia tra lei e le più grandi autrici del Novecento, nella forma di un romanzo-saggio. Da quale esigenza nasce l’opera?”
Le lettere del mio nome è nato con la volontà di raccontare le grandi donne scrittrici del mio secolo, tra cui Ingeborg Bachmann, Colette, Anna Frank, Carla Lonzi, Gianna Manzini, Gertrude Stein, Virginia Woolf e, un mio grande modello, Anna Banti. Come d’altronde anche in Da una stanza all’altra, del 1984, raccontare le vite di queste donne straordinarie aveva come scopo il ripensare il canone della letteratura italiana, avvicinando le giovani lettrici di fine Novecento a figure che non avrebbero, purtroppo, trovato sui libri di scuola. Spero di esserci riuscita, anche se in minima parte”.

“Un’ultima domanda, signora Livi: scrittrici si nasce o si diventa?”
“Io credo che narrare sia un destino. Nel mio caso scrivere è stato una sorta di obbligo interno a cui ho scelto di obbedire. Credo che la professione della scrittrice s’impari in qualche modo, perché entrano in gioco altri fattori sociali e culturali, ma la necessità di narrare o la si ha dentro o non la si ha. E se la si ha… Son dolori!”.

Grazia Livi: nata a Firenze nel 1930 e scomparsa a Milano nel 2015, è stata una scrittrice, giornalista e saggista italiana. Laureatasi in Filologia romanza con Gianfranco Contini, ha intrapreso la carriera di giornalista per testate come “Il Mondo”, “Epoca”, “L’Europeo” e “LaNazione”. Il primo romanzo, Gli scapoli di Londra, è del 1958 ottenendo ottime recensioni.
Nei decenni successivi si dedica alla narrativa e alla saggistica, abbandonando il lavoro da giornalista. Tra i suoi titoli principali ricordiamo L’approdo invisibile del 1980, Da una stanza all’altra del 1984, Le lettere del mio nome del 1991, Narrare è un destino del 2002 e Lo sposo impaziente del 2006.
Insignita di vari riconoscimenti, è ricordata come una delle personalità fiorentine più influenti del mondo intellettuale del XX secolo.

Qui di seguito uno stralcio dalla raccolta di saggi di Grazia Livi: Narrare è un destino.

«Avevo sette anni quando dichiarai in famiglia che volevo diventare scrittrice. Per una serie di coincidenze e di scelte ho poi onorato quel sogno ingenuo, che mi permetteva di salvarmi dai naufragi della sensibilità, mi spingeva a rafforzarmi nella disciplina, mi avviava verso un progetto di indipendenza. La parola scritta ha così dominato la mia vita. Tuttora la domina. Anche se la figura di scrittrice che immaginai da bambina si è trasformata, a causa dei profondi mutamenti sociali: omologazione, potenza dei media, mercato trionfante, globalità; ormai non coincide più con quel ruolo, quel mito. Non esiste più. Al posto di quella figura c’è una donna come tante, la cui particolare inclinazione è di farsi assorbire dalle parole scritte e la cui esigenza è di cercare una sintesi che valga per la conoscenza e per la solitudine»

Il talento di Charlotte Salomon.

La lunga e non sempre facile vita di Clèo Diane de Merode.

                 Clèo all’età di 35 anni, 1910. Lo scatto è di Lèopold-Èmile Reutlinger.

“Cléo” (Cleopatra) è un nome certamente di peso per una bambina, tanto più se la stessa deve dare prova di leggerezza e grazia esibendosi all’età di soli sette anni davanti agli esaminatori che ne devono decidere l’ammissione alla prestigiosa scuola di danza dell’Opéra di Parigi.

Eppure per lei, nata il 27 settembre del 1875 e figlia di una baronessa austriaca al seguito dell’Imperatrice Elisabetta e di un avvocato francese che non la riconobbe mai, la mamma aveva voluto proprio quel nome tanto altisonante, forse per attenuare la vergogna – allora non facile da coprire – di una bimba nata fuori dal matrimonio.

Bellissima, raffinata e naturalmente elegante divenne una celebrità nel mondo della danza nel quale eccelse rapidamente, dopo il precoce debutto all’Opéra parigina avvenuto quando aveva soltanto undici anni.

“Influencer” ante litteram, per distinguersi dalle altre e dai loro scontatissimi chignon s’inventò una particolare acconciatura a bande di capelli piatte sui lati e raccolte dietro le orecchie, presto diventata iconica per le signore della Belle Époque.

Gli artisti fecero a gara per averla come modella e numerosi sono i ritratti che di lei ci sono arrivati, fra i quali quelli di Degas, Toulouse-Lautrec e del nostro Boldini, che ce la presenta in una posa dinamica, con un generoso décolleté.

                                 Boldini, Clèo Diane de Merode, 1901. Collezione privata.

Tanti furono gli uomini che per lei persero la testa, ma Cléo di sposarsi non ne volle sapere mai, anche se di relazioni ne ebbe parecchie.

La più nota e tormentata di tutte fu certamente quella col re del Belgio Leopoldo II, che se ne invaghì dopo averla vista esibirsi in costume da egiziana nel corso di una rappresentazione dell’Aida verdiana.

Quell’ “affaire” amoroso fra un sovrano sessantenne e una “danseuse” appena quindicenne scandalizzò l’Europa puritana di fine Ottocento, tanto che il disperato “Cleopoldo”, come fu chiamato in seguito, dovette infine rassegnarsi e lasciar perdere l’amata.

Contestualmente con lo scoppio della prima Guerra Mondiale, il mondo di Cléo però crollò e per lei iniziò un lento declino segnato dal progressivo oblio, come pure da qualche grattacapo di carattere economico che tuttavia non le fece perdere la proverbiale “coquetterie”.

Così, quando il celebre fotografo Cecil Beaton volle ritrarla all’età di novant’anni suonati, lei acconsentì chiedendogli però un solo favore: “Sapete, sono molto civetta… Mi promettete di distruggere le foto venute male?”.

                                                    A 90 anni (1965, Cecil Breaton)

Spentasi a Parigi il 17 ottobre del 1966, fu inumata nel cimitero di Père-Lachaise in una tomba su cui è stata poi collocata la statua realizzata da un suo antico spasimante, lo scultore Luis de Périnat, che la raffigura con le famose bande di capelli che le incorniciano il viso.

La follia del terzo millennio: 74 frustate.

Roya Hesmati: attivista 33enne iraniana.

Il Medioevo, quello più nero, la mattina di un giorno del terzo millennio. Come tante altre mattine da tanti anni, laggiù.

Una stanza del carcere di Teheran, una fioca luce da una lampadina che penzola dal soffitto, un paio di sedie. E un letto in ferro. Due guardie, lo scorso 3 gennaio, portano nella stanza Roya Heshmati,33 anni. Ė stata appena emessa la sentenza dal tribunale degli ayatollah: 74 frustate.

Un carceriere afferra per un braccio Roya. La fa distendere sul letto in ferro e la lega alla vita. Poi si fissa, con due giri intorno alla mano un nerbo di cuoio, così può colpire con maggiore violenza. Attende il funzionario per cominciare la prima delle 74 frustate Il funzionario arriva. Ha in mano l’hijab, il velo islamico, dice a Roya: “Indossalo, altrimenti le frustate si raddoppieranno“.

Lei si rifiuta. Scattano le manette ai polsi. Entra una donna in chador, un’impiegata del tribunale, calza con forza il velo sulla testa di Roya. La condanna può iniziare. Primo colpo della frusta in aria, rimbomba nella stanza. Anche la disumanità ha una voce. Poi gli altri.

Nessun lamento di Roya. In continuazione grida: “In nome delle donne, in nome della vita, le catene della schiavitù sono state spezzate”. All’ultima frustata intona una canzone. Il carceriere libera le manette.

Il primo gesto di Roya: via il velo. La pietà di una donna sorregge Roya mentre esce dalla stanza della tortura.

Il reato: aver diffuso una sua foto senza l'hijab scattata sul Keshavarz Boulevard a Teheran, nel pieno centro della capitale iraniana.

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Non saranno le frustate a piegare il movimento Donna, Vita e Libertà che in Iran si oppone al regime degli ayatollah e alla sua misoginia. Nato dal sangue sparso dalla giovane curda Masha Amini, arrestata dalla polizia morale nel settembre del 2022 perché non indossava correttamente il velo e morta tre giorni dopo in ospedale per le conseguenze delle percosse, il movimento non scende più apertamente in piazza ma continua a farsi sentire in altre forme. Sfidando la violenta repressione del regime, che causò uccisioni e ondate di arresti e il suo tentativo di silenziarle. A tutte queste donne va il nostro appoggio perché saranno loro le future Donne nella Storia.