La Creola Giuseppina tra tradimenti e amori.

” I miei occhi si dono indeboliti, è  come se vivessi in un perenne tramonto. Non riesco più nemmeno a ricamare”.

“Ritratto di Giuseppina, Imperatruce dei Francesi ” di François Gèrard, 1808.

Così scrisse sul suo diario, nel marzo del 1814 pochi mesi prima di morire, colei che fu soprannominata l’“Imperatrice creola”.

Poco fortunata in vita e ancor meno in amore, Marie-Josèphe-Rose Tascher de la Pagerie nacque nel villaggio di Trois Ilets (Martinica) il 23 giugno del 1763.

Era la prima delle tre figlie di Monsieur Joseph-Gaspard de La Pagerie, sempre a corto di quattrini per la sua propensione al gioco d’azzardo, nonostante fosse proprietario di una vasta tenuta agricola dove, con la forza delle braccia di circa 150 schiavi, si coltivavano canna da zucchero, caffè e cacao.

Un uragano che la devastò nel 1766 contribuì alla decadenza familiare, tanto che il padre non poté permettersi di educare le figlie, come facevano i suoi pari, nella “Metropole”, dovendo così ricorrere ad istitutrici di scarsa cultura.

Le ragazze crebbero senza disciplina, poco istruite e impregnate di quelle abitudini che, agli schizzinosi occhi dei Parigini, facevano apparire i Creoli indolenti, sensuali e capricciosi.

Appena sedicenne fu promessa in sposa ad Alexandre, figlio del Visconte di Beauharnais.
Giunta a Parigi quando era poco più che una ragazzina, sola e spaesata, Giuseppina non legò veramente mai col marito, donnaiolo impenitente e dilapidatore di fortune.

Alexandre de Beauharnais.

La coppia tuttavia ebbe due figli: Eugenio, futuro viceré d’Italia, e Ortensia, destinata a diventare regina d’Olanda, oltreché madre del futuro imperatore Napoleone III.

La loro separazione divenne una realtà nel 1785, ma i due si ritrovarono pochi anni più tardi nella prigione parigina del Carmine, in pieno periodo del Terrore rivoluzionario, quando il marito, ex-presidente dell’Assemblea Costituente, fu ghigliottinato appena pochi giorni prima della caduta di Robespierre.

Leggenda vuole che, quando il carceriere lesse il suo nome fra quanti quel giorno dovevano avviarsi al patibolo, il sempre galante Alexandre abbia sussurrato alla moglie: “Permettete, Signora, che per una volta vi passi davanti io!”.

Se non ci rimise la testa anche lei fu solo per miracolo, grazie al provvidenziale intervento del segretario del Comitato di Sicurezza pubblica che, invaghitosene, fece sparire il relativo atto d’accusa.

Finalmente libera, Giuseppina cercò di mettere a frutto i “talenti” di cui madre natura l’aveva dotata.

Passando da uno spasimante all’altro, durante una cena sul finire del 1795 le riuscì il colpo grosso, facendo breccia nel cuore di un giovane ufficiale in sfolgorante ascesa sociale: Napoleone Bonaparte. Ammaliato dal fascino della bella Joséphine, quest’ultimo ne chiese la mano, sposandola dopo pochi mesi.

Il fatto che lei fosse di otto anni più anziana di lui, unito alle origini creole, la rese invisa alla famiglia dello sposo e soprattutto alle cognate, che perfidamente la chiamavano “la vecchia” a dispetto dei soli 33 anni d’età.

Giuseppina si risposò senza alcun trasporto, per ritrovare la perduta stabilità economica, ma la fede nuziale regalatale da un gelosissimo Napoleone non la trattenne dal cercare consolazione fra le braccia di altri ufficiali, quando il neo-marito era, come spesso gli capitava, lontano.

Le voci in arrivo da Parigi alla fine convinsero Napoleone ad ordinare alla moglie di raggiungerlo in Italia, durante la sua prima campagna militare nel nostro Paese.

Qui Giuseppina iniziò la sua personale scalata gerarchica al fianco del marito, passando dal ruolo di “moglie del primo console” a quello di imperatrice, incoronata dal consorte a Notre Dame il 2 dicembre del 1804, alla presenza del rassegnato papa Pio VII.

Subito si prospettò però il problema della sua sterilità: il neo-imperatore infatti doveva assicurare un erede alla patria e sebbene Giuseppina di figli ne avesse avuti due dal primo marito, era entrata in una menopausa precoce, forse causata dallo stress patito in carcere con l’incombente terrore di essere ghigliottinata.

Così, cinque anni dopo la sua incoronazione, dovette accettare il divorzio impostole dalla ragion di stato e il conseguente nuovo matrimonio di Napoleone con l’arciduchessa Maria Luigia d’Austria la giovanissima figlia dell’imperatore d’Austria. Questa unione era conveniente anche da un punto di vista politico. E l’erede arrivò: Napoleone Francesco Giuseppe. Il ragazzo tuttavia era di salute cagionevole, anche se molto bello, e morì poco più che ventenne.

Castello di Malmaison.

A Giuseppina non le restò che ritirarsi nel suo splendido castello alla Malmaison, nel cui parco si dedicherà a piante e animali rari (nel suo roseto venne isolata la prima Rosa Tea) per trascorrervi gli ultimi cinque anni di vita – come sempre – senza badare a spese, contando sulla generosità dell’ex marito, finché una polmonite la condusse alla tomba il 29 maggio del 1814. Napoleone era già in esilio e la sua disperazione fu grande non avendole potuto dire addio.

Elsa Oliva, partigiana, che per due volte fuggì dalla prigionia nazifascista.

Elsa Oliva, nome di battaglia, Elsinki.

Nata a Piedimulera (Novara) l’11 aprile 1921, deceduta a Domodossola l’11 aprile 1994.

Era nata in una famiglia antifascista (quarta di sette fratelli e sorelle), che si era trovata in particolari difficoltà allorché il padre, nel 1930, aveva perso il lavoro perché non voleva iscriversi al Fascio.

Elsa poté frequentare soltanto la quarta elementare e, a otto anni, fu messa “a servizio”.
Ragazzina irrequieta, aveva solo 14 anni quando, con il fratello Renato, si allontanò di casa e se ne andò in Valsesia. Poi si trasferì ad Ortisei e si mise a lavorare in un laboratorio artigiano di pittura su legno. Elsa non nascondeva le sue idee e fu così che fu presa di mira dalla polizia, tanto che ritenne più conveniente andarsene in un centro più grande.

A Bolzano riuscì a farsi assumere all’Anagrafe del Comune, dove rimase fin dopo l’armistizio. Fu quello il momento dell’impegno totale nella Resistenza.
Elsa partecipò alla difesa della caserma di Bolzano contro i tedeschi, organizzò la fuga di militari internati dagli occupanti, procurò certificati falsi a molti soldati perché potessero sottrarsi alla cattura, poi distrusse l’archivio dell’Anagrafe perché non restassero tracce del suo operato.

Sino al novembre del 1943, la ragazza partecipò coraggiosamente, con gli antifascisti locali, ad azioni di sabotaggio contro i tedeschi, ma finì per essere arrestata. Era in viaggio per Innsbruck, dove avrebbero dovuto processarla, quando riuscì a fuggire e a raggiungere poi, fortunosamente, Domodossola dove i suoi si erano nel frattempo trasferiti.

Ricercata dalle SS, nel maggio del 1944 la ragazza si unì, come infermiera, ai partigiani della 2a Brigata della Divisione “Beltrami”, ma presto divenne partigiana combattente. Nell’ottobre ecco che Elsa lascia la “Beltrami”. Vuole raggiungere un altro fratello, Aldo, che milita nella “Banda Libertà” e che sarebbe stato trucidato due mesi dopo dai fascisti a Baveno. Di nuovo Elsa Oliva cambia formazione.

Gruppo della Brigata “Franco Abrami”.

Nella Brigata partigiana “Franco Abrami” della Divisione “Valtoce”, che ha la sua base sul Mottarone, le affidano il comando di una squadra chiamata “Volante di polizia” e che presto, dal nome di battaglia di Elsa, sarà chiamata “Volante Elsinki”.
Nello stesso giorno, l’8 dicembre 1944, dell’uccisione del fratello (“Ridolini” era il nome di battaglia di Aldo Oliva), Elsa è catturata dai fascisti, che la portano in una loro caserma di Omegna. La ragazza è certa che la fucileranno e decide quindi di simulare il suicidio. Ha ingerito un gran numero di compresse di sonnifero ed è portata in ospedale. Una lavanda gastrica e, prima che i fascisti tornino a riprendersela, con l’aiuto di una suora e di un prete, Elsa riesce a fuggire. Ritornata tra i partigiani della “Valtoce”, continuerà la lotta armata sino alla Liberazione. Per questo, alla smobilitazione, le sarà riconosciuto il grado di tenente.

Elsa Oliva, partigiana ribelle.

Nel dopoguerra Elsa Oliva si è impegnata politicamente sino agli anni ’70, quando fu eletta consigliere comunale di Domodossola come indipendente in una lista del PCI.
Si staccò dal partito poco dopo, non aderendo più, ufficialmente, a nessuna formazione politica. Lasciò anche l’ANPI e si iscrisse all’Associazione Volontari della Libertà (di cui fu vicepresidente) aderente alla FIVL

Elsa Oliva ha lasciato la sua testimonianza del periodo della militanza antifascista nel libro Ragazza partigiana, del 1974. Ha pubblicato anche una raccolta di racconti dal titolo La Repubblica partigiana dell’Ossola e altri episodi. Due anni dopo, è uscito postumo, il suo racconto autobiografico Bortolina. Storia di una donna.

Elsa Oliva, nella sua vita è stata tante cose, pittrice, infermiera autodidatta, comandante di una volante. È stata una vera combattente che maneggiava le armi con destrezza. Si è trovata in difficoltà tante volte e ha superato gli ostacoli di essere una donna libera, ribelle e antifascista, con determinazione, intelligenza, furbizia ed esuberanza. È stata sempre in prima fila e non ha mai abbandonato nessuno e nessuna indietro, a rischio della sua stessa incolumità.

Ricordo che negli interrogatori che ho ricevuto a Bolzano da parte dei nazisti mi hanno chiamata per la prima volta “ribelle”. Ebbene io mi sono detta: “Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre“. (Elsa Oliva)

La Virgin Queen che cambiò  il volto dell’Inghilterra.

Ritratto di Elisabetta I, di Federico Zuccari (attr.), 1575 ca. -“National Portrait Gallery”, Londra.

Il 24 marzo del 1603 si spense, dopo 45 anni di regno, la regina Elisabetta I d’Inghilterra.

Soprannominata “good Queen Bess” oppure “the Virgin Queen” dai moltissimi che la amavano, ma anche detta “la Bastarda” dai non pochi che la detestavano perché figlia di Anna Bolena, decapitata per la mai provata accusa di adulterio, ebbe una vita quanto mai movimentata.

In tenera età, dopo essere stata privata della madre, fu cresciuta dalle governanti alle quali suo padre, l’irrequieto re Enrico VIII, l’affidava secondo l’umore del giorno. Quest’ultimo certo non brillò con lei per amore parentale, avendola relegata nella tenuta di Hatfield in attesa di coronare il suo sogno di avere finalmente l’agognato erede maschio.

Anche a causa di queste difficoltà Elisabetta assunse fin da bambina quell’espressione seria e distaccata che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, sebbene non le fosse mancata un’istruzione d’altissimo livello, tanto che, oltre al francese e all’italiano, apprese anche il latino e il greco. Pur se educata secondo i principi della religione riformata, non risultò mai particolarmente fanatica, preferendo alle dispute teologiche le arti, le lettere e la musica.

Dopo la morte del padre, riuscì ad attraversare miracolosamente indenne i regni del fratellastro Edoardo VI e soprattutto della sorellastra Maria, la cattolica figlia di Caterina d’Aragona, prima moglie di suo padre, che ne ordinò per un certo periodo la reclusione nella Torre di Londra perché sospettata di tradimento.

Pur di cavarsi d’impiccio Elisabetta dichiarò di aborrire l’eresia, mantenendo però nel suo intimo il credo protestante, che manifestò di nuovo non appena ascese al trono il 17 novembre del 1558, alla morte di Maria.

Per lei il trionfo fu immediato, grazie anche alla sua straordinaria capacità di interagire col suo popolo, captandone al volo gli umori e i desideri, oltreché all’esercizio in modo non certo formale di un potere assoluto sempre però gestito “super partes” all’unico fine di riappacificare un Paese lacerato e così farlo risorgere dalla miseria in cui era piombato.

Lei, donna, si comportò come una sorta di patriarca, un buon “pater familias” che non disdegnava affatto di consigliarsi coi suoi ministri facendone proprie le idee migliori.

Riportò un diffuso benessere in Inghilterra anche grazie all’indicibile accordo stretto col corsaro Francis Drake, cui diede carta bianca per depredare i ricchissimi possedimenti spagnoli sulla costa pacifica del Continente Sudamericano. Una volta aperta la strada ai traffici marittimi, costituì quella che sarebbe stata la prima Società per Azioni della storia, cioè la “Compagnia Britannica delle Indie Orientali”, una brillante intuizione che fece dell’Inghilterra la grande e ricca potenza marittima che divenne nei secoli successivi.

Non le mancò nemmeno una buona dose di fortuna, quando nel 1588 le pessime condizioni atmosferiche e le continue tempeste aiutarono i suoi ammiragli a sconfiggere “l’Invincibile Armata” inviatale contro dal cognato Filippo II di Spagna.

Per caricare i suoi soldati tenne un mirabile discorso in cui disse: “So di avere il corpo di una debole donnicciola, ma so anche di avere il cuore e lo stomaco di un re, e più precisamente di un re d’Inghilterra!”. Sante parole, perché proprio così era il suo carattere, gentile e distaccato esternamente, ma deciso e irremovibile dentro.

Ne fece le spese la cugina Maria Stuarda, cioè la cattolica Regina di Scozia che, dopo una lunga detenzione in terra inglese dove si era rifugiata per trovare riparo da alcuni tumulti interni al suo Paese, fu decapitata perché sospettata di tradimento.

Durante quella che giustamente fu chiamata la “Elisabethan Age” l’Inghilterra s’impose come una delle principali potenze europee sotto il profilo politico, economico e culturale. Raramente in Europa, a parte forse il caso del Re Sole, la vita collettiva di un’intera nazione s’identificò per un così lungo periodo di tempo con quella del proprio monarca, conformandosi al di lui o, nel caso di specie, di lei stile personale.

Buona Pasqua e qualche riflessione!

Questo è un ritratto che riporta l’immagine di Maria Maddalena in un dipinto del ‘400 del pittore Carlo Crivelli.

In tutta la storia della pittura “la tredicesima apostola” è sempre stata ritratta dimessa, penitente, dolente per essere stata una prostituta.

Una prostituta: il femminile perturbante che con la sua presenza disturba sempre, specie quando porta “scompiglio”.

Per questo, dappertutto, viene riportata l’immagine di lei sottomessa e schiacciata dal peccato.

Dappertutto… ma non qui dove siamo invece presenti davanti ad un’immagine di donna dallo sguardo fiero e bellissimo, austera e orgogliosa come si conviene a colei che è stata la prima a scoprire il sepolcro vuoto ed è la prima a cui appare Cristo dopo la Resurrezione (la storia non narra forse così?) e da femminista mi piace ricordare e fare richiamo, quindi proprio in questo giorno, a Maria Maddalena e a Cristo morto e risorto che è apparso per la prima volta a chi?
Alle donne.

Penso allora che sia importante nel giorno di Pasqua, della Resurrezione per chi è credente, pubblicare quest’immagine di Maria Maddalena in tutta la sua fierezza non solo per effettuare un riposizionamento “dello sguardo”, ma anche per ricordare il ruolo enorme che ha avuto la chiesa nell’aver consolidato il potere del patriarcato nella società anche attraverso la raffigurazione e rappresentazione dei simboli del cristianesimo.

Buona Pasqua ma che sia soprattutto una Pasqua di pace! 🌿 🕊

La vita della nobildonna Giulia Farnese, piena di intrighi e colpi di scena.

“Madonna”, forse Giulia Farnese, frammento del distrutto “Investitura divina di Alessandro VI, di Bernardino di Betto detto il Pinturicchio, 1492-1493, Collezione privata.

«Madonna Iulia è ingrassata e fatta una cosa bellissima e in mia presenza si scapigliò e fece disconciare i capelli e il capo, li quali li davano giù a’piè, che non vidi mai più belli, e [aveva] un cuffione di rensa e di poi di sopra una certa rete con certi profili d’oro che ‘n vero pareva uno sole».

Così il Cardinale Pucci scriveva di lei nel 1493, in anni in cui i canoni della bellezza estetica muliebre tendevano ad esaltare la generosità delle “forme” delle signore, allora indicative non solo di benessere sociale, ma anche di buona salute.

Madonna Giulia bella lo era per davvero, di una bellezza straordinaria che incantava chiunque la vedesse, senza ammettere repliche. Di lei non si poteva non parlare, per lodarla o invidiarla, sempre però con ammirazione.

I suoi occhi di un nero corvino, uniti ad una capigliatura folta e nerissima anch’essa, contrastavano con una carnagione bianca dai toni perlacei che lei sapeva astutamente mettere ancor più in risalto, dormendo in lenzuola di seta nera.

Giulia Farnese, nata nel 1474 a Capodimonte nella rocca di famiglia, era figlia del nobile Pierluigi e di Giovannella Caetani, discendente di papa Bonifacio VIII.

Sin dagli anni dell’adolescenza giocò il ruolo di “star” della splendida Roma rinascimentale, incarnando l’oggetto del desiderio di schiere di uomini e contribuendo in maniera determinante alla folgorante ascesa sociale della propria Casata.

Rimasta orfana di padre “Giulia la bella” fu subito “spesa” dalla madre e dai fratelli maggiori Angelo ed Alessandro (futuro Cardinale e poi Papa col nome di Paolo III) sul mercato delle alleanze matrimoniali, venendo concessa in sposa nel 1490 all’età di quindici anni al giovane Orsino Orsini, Signore di Bassanello detto “monoculus” perché orbo di un occhio, personaggio scialbo e insignificante.

Era figlio della spagnola Adriana De Milà, cugina dell’allora Cardinale Rodrigo Borgia, che ben conosceva la sensualità dell’illustre parente il quale, a dispetto dell’altissima dignità ecclesiastica da lui ricoperta, in campo amoroso era un “matador”, già padre di sei o sette figli avuti da donne diverse.

Sapendo che il potente cugino aveva posto gli occhi su quella perla rara, la De Milà strinse un patto con la futura consuocera per infilare la figlia nel letto del Cardinale.

Le due comari infatti, messi da parte gli scrupoli, pensarono entrambe ai vantaggi concreti che le nozze di copertura fra i figli avrebbero portato alle rispettive famiglie in termini di promozione sociale e ricchezza.

La convivenza dei due novelli sposi si trasformò subito in un “ménage à trois” dove al Borgia veniva sempre concessa una corsia preferenziale nell’accesso al talamo della bella Giulia.

Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di papa Alessandro VI , seconda metà del XVI sec. Firenze,
Galleria degli Uffizi

Se la scandalosa relazione, almeno all’inizio, fu vissuta discretamente, con l’elezione al soglio pontificio del Borgia, che nel 1492 divenne Papa Alessandro VI, la stessa si palesò senza più ritegni col trasferimento della Farnese a Roma, a distanza di sicurezza dal marito, e il suo insediamento nel palazzo del Card. Zeno, attiguo al Vaticano e ideale per favorire gli incontri della coppia.

Fu l’inizio di un rapporto che, fra alti e bassi, sarebbe durato una decina d’anni, fino cioè alla morte del Borgia, e avrebbe visto Giulia, ironicamente soprannominata “Sponsa Christi”, imporsi non solo come la più bella, ma anche la più potente fra le dame della Roma di fine Quattrocento.

Postulanti, diplomatici ed alti prelati infatti, se volevano ottenere qualche favore dal Papa, da lei dovevano passare, previo versamento di una generosa somma per il disturbo, perché lei era riuscita a conquistare il cuore e soggiogare la mente di quell’uomo anziano, reso tanto folle dalla passione, da diventare patetico.

Quando Giulia, perché non riusciva ad ottenere ciò che voleva, s’allontanava, lui la tempestava alternando lettere imploranti a messaggi minacciosi nei quali, qualificandola di “ingrata et perfida”, le ingiungeva “sub poena excomunicationis et maledictionis aeternae” di tornare da lui e non azzardarsi a raggiungere l’Orsini che, dopo tutto, era il suo legittimo marito.

Da questo tira e molla la Farnese ricavò il massimo per se stessa e per la propria Casata, riuscendo anche a procurare al fratello Alessandro l’agognata berretta cardinalizia, che gli avrebbe spianato la strada al soglio pontificio con l’elezione a Papa nel 1534.

Giulia tuttavia fu anche brava e intelligente, tanto che la sua stella non smise di rifulgere nemmeno dopo la morte nel 1503 (tre anni dopo quella del marito) del suo munifico protettore, perché quella “doppia vedova” seppe subito ingraziarsi il nuovo Papa Giulio II, combinando il matrimonio dell’unica figlia Laura Orsini con Nicola Della Rovere, nipote del Pontefice.

Risposatasi col gentiluomo napoletano Giovanni Capece, personaggio ricchissimo “ma non di roba” (come perfidamente scrisse di lui l’inviato a Roma di Isabella d’Este) trascorse serenamente gli ultimi anni della sua esistenza fra Roma e il castello di Carbognano, anch’esso donatogli dal vecchio amante, dove si spense il 23 marzo del 1524.

Tiziano Vecellio, Ritratto di Paolo III, 1543, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte

Peccato che di una donna tanto bella non ci siano rimasti ritratti certi, forse perché il fratello Alessandro, una volta diventato Papa Paolo III, per l’imbarazzo delle “gesta” della sorella ne decretò la “damnatio memoriae” ordinando la distruzione di tutto quanto la ricordasse.

Il Vasari individuò in quello di Giulia Farnese il volto della splendida “Madonna” dipinta dal Pinturicchio negli appartamenti Borgia in Vaticano nell’insieme del dipinto intitolato “Investitura divina di Alessandro VI”, opera andata parzialmente distrutta nel Seicento perché ritenuta scandalosa proprio per la presenza della nostra Giulia.

Primavera amore a prima vista!

Con l’equinozio, alle 4.06 di ieri mattina, è iniziata la primavera. Quattro haiku per celebrarne l’arrivo: il poeta giapponese Miura Chora, attivo nel XVIII secolo, sempre attento alla natura, ci parla di petali di ciliegio, di voli di uccelli pronti a rifare il loro nido, di piogge, e del profumo dei fiori della pianta di ume, l’albicocca giapponese.

*

Con le ali degli uccelli
lucenti di primavera 
amore a prima vista

*

Sulle sere serene
e i giorni silenziosi,
piogge di
primavera

*

In questo giorno 
che tramonta 
sono caduti i fiori di ciliegio

*

Il profumo dell’ ume
mi ha colto di sorpresa –
è questo il giorno in cui cadono i fiori?

MIURA CHORA

Miura Chora, pseudonimo di Motokasu (Toba, 1729 – 1780), poeta giapponese. Noto per le sue descrizioni della natura, fu vicino ai discepoli di Yosa Buson a Kyoto e con loro tentò di rinnovare la vitalità della poesia di Bashō. Tra i suoi scritti la raccolta Chora Hokkushu.

Madri e figlie. Isabella Milbanke e Ada Byron.

Isabella e Ada

I loro soprannomi sono legati inequivocabilmente al sapere matematico: Lord Byron chiamava la moglie Isabella: “Regina dei parallelogrammi”, mentre Charles Babbage definì Ada: “Incantatrice dei numeri”.

In un’ epoca in cui i grandi poeti si ribellavano alle regole imposte dalla società Napoleonica, George Byron conduceva una vita “anti convenzionale” in cui ebbe tre figlie da tre donne diverse, tra cui la sorellastra Augusta Leigh.

Isabella Milbanke (1782-1860), donna colta, amante delle scienze e della matematica, lasció Il marito appena scoprì  che costui l’aveva tradita con una corista, poco prima del parto.

Ada Byron (1815-1862) non conobbe mai il padre, perché i suoi genitori si separarono poco dopo la sua nascita.

Isabella volle per Ada una educazione scientifica rigorosa per evitare che seguisse le orme paterne.

Fin da piccola, la bambina dimostrò di essere dotata di notevole intuizione e dimostrò una grande passione per la matematica, la geografia e il calcolo.

Fu istruita da illustri istitutori privati tra cui  la grande matematica Mary Somerville, considerata la “regina della scienza ottocentesca” e da Augustus De Morgan, divenuto famoso per i suoi teoremi che fondarono la logica matematica.

Ada aveva una salute cagionevole, fin da bambina soffriva di forti mal di testa ed era succube della severità della madre, ma era dotata di una grande determinazione e portò avanti i suoi studi con passione, non esitando a scrivere a scienziati famosi per chiedere loro suggerimenti e consigli.

A 18 anni conobbe Charles Babbage, ingegnere e matematico di Cambridge e si entusiasmò per le ricerche dello studioso, che stava lavorando da anni alla progettazione della “macchina analitica”, l’Analytical engine, primo prototipo di computer meccanico.

Studiò la macchina e fu proprio lei, ad inventare il primo algoritmo per  programmarla gettando così le basi dell’informatica.

La madre fu sempre presente nella vita di Ada, anche quando la giovane sposò Lord Lovelace King e ebbe tre figli. Non poté peró impedire che la figlia ereditasse dal padre un talento visionario e un’ idea poetica della scienza, che le fecero ipotizzare che la macchina da calcolo avrebbe potuto elaborare simboli, come note o disegni, oltre che numeri. Un progetto che sarebbe stato realizzato un secolo dopo, con l’invenzione dei software.

Lady Milbanke si prese cura  della figlia fino alla fine, quando Ada morì, a soli 38 anni, per un terribile cancro alle ovaie.

Un bell’esempio di come un rapporto madre-figlia, sicuramente non facile, abbia comunque permesso ad entrambe di essere fino in fondo se stesse ed esprimere i propri talenti.

*Per approfondire: “Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie”, Ledizioni, Milano 2023.

“Prima e dopo” di Alba de Céspedes: una nuova edizione dopo sessant’anni.

Una donna forte, indipendente, che lavora, ha un amante, non vuole figli. Ma il suo equilibrio si incrina quando la abbandona la sua domestica. Ripubblicato da Cliquot, è uscito lo scorso 14 dicembre una nuova edizione di “Prima e dopo” introdotto da Nadia Terranova.

Mi rende felice che, negli ultimi anni, de Céspedes sia molto studiata, che i suoi libri siano di nuovo pubblicati e tradotti. Ho letto che negli Stati Uniti, anche grazie alle buone parole di Elena Ferrante, le sue opere stanno ricevendo un incredibile successo di critica e pubblico.

La casa editrice indipendente Cliquot ha scelto di pubblicare, l’anno scorso, con mia grande gioia,  Prima e dopo, da tempo fuori catalogo, e lo pubblica con la prefazione di Nadia Terranova.

L’illustrazione di copertina, di Alessandra Dalessandro, è luminosa. Soprattutto al confronto con l’edizione del 1977, un “paesaggio romano” di Mario Mafai. Franchini disegna una foglia nel cielo, su fondo bianco, sotto di lei un gruppo di alberi. È sola, quella foglia, staccata da tutti, sospesa. Racconta molto della situazione di Irene, la protagonista del libro.


Come nota Terranova nella prefazione, infatti, “di solito, Alba de Céspedes presenta donne sul margine della società e della famiglia, in lotta con i ruoli che la società patriarcale ha previsto per loro, donne che non vogliono essere solo figlie, mogli e madri. Di solito, racconta l’incedere e l’esplodere del loro percorso di emancipazione, succede con Alessandra in Dalla parte di lei, con Valeria in Quaderno proibito“. 

Qui invece troviamo Irene che non deve liberarsi da niente, si è già liberata da tutto: dal matrimonio come unico destino, dalle aspettative della madre. Non ha scelto la maternità, non ha scelto le convenzioni. Vive da sola, è un’intellettuale, scrive per mestiere, ha interrotto un fidanzamento prima del matrimonio e ha un amante. La famiglia di Irene sono le amiche, e anche rispetto alle sorelle biologiche procede per differenziazione: una è suora, devota all’amore per un dio tradizionale, l’altra vive come vivono tutte le donne borghesi della società dell’epoca, ha un marito, è superficiale e frettolosa.

Gli altri, le altre, sono, per stessa definizione di Irene, più voci che presenze nella sua vita: la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma alle donne è sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Céspedes l’ha sempre raccontato, altrove come traguardo, qui come punto di partenza.

Scopro però, fin dalle prime pagine, che dietro la corazza sana e forte, una donna libera può ammalarsi per un abbandono – non quello di un compagno e neppure di un’amica, ma per l’abbandono di una domestica. Con Irene entriamo nella sottile relazione tra una donna colta e sola e un’altra, di diversa estrazione sociale. Ma anziché marcare il divario tra le due e insistere sul cliché, de Céspedes capovolge gli equilibri, è la domestica ad avere potere, emotivo e psicologico, sull’intellettuale, anche se è più giovane, anche se è ignorante.

Irene ha bisogno di Erminia e vacilla quando lei dà le dimissioni. (…) Irene dopo il crollo si guarda intorno e rinomina tutto il suo mondo, smette di essere giudice degli altri e, cominciando a guardare sé stessa attraverso gli occhi di Erminia, scavando dentro le proprie fragilità, arrivando, nelle ultime righe, a una forma di inclemenza priva di compiacimento che raggiunge un piccolo vertice di scrittura. Servendosi di questo parallelismo tra le due donne, destinate a contaminarsi a vicenda con le proprie solide convinzioni, Alba de Céspedes ci consegna un nuovo sguardo sul femminile, molto contemporaneo e al contempo “audace”.

Il finale rimetterà in discussione ogni certezza, dandoci l’esatta misura del talento di questa scrittrice del Novecento e della straordinaria perspicacia della sua scrittura che, già negli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, riusciva a mettere in discussione regole e dogmi incontestabili, mostrandoci l’anima femminile come un fuoco ardente che bruciava senza consumarsi.

 
Le donne dei libri di de Céspedes non sono mai immobili, camminano sole per le strade delle città, scrivono, leggono, parlano, soprattutto “pensano” e riescono così a restituirci le immagini a colori di un mondo non poi così lontano che noi ancora, ostinatamente, crediamo in bianco e nero come le scene dei film d’epoca. 


Le pagine della scrittrice illuminano il Novecento e con esso la coscienza femminile, giungendo alle lettrici contemporanee con l’impeto sovversivo di una consapevolezza nuova, forse oggi più comprensibile e nitida di ieri. C’è un “Prima e un dopo” non solo nella storia di Irene, ma anche nella vita di ogni donna.

*Alba de Céspedes, “Prima e dopo”, prefazione di Nadia Terranova, Cliquot, 2023.

Otto Marzo con Artemisia Gentileschi e il coraggio di essere donna.

Artemisia Gentileschi ” Autoritratto come sognatrice di liuto” 1617-1618, ” Curties Gallery”, Minneapolis, U.S.A.

Nel giorno dedicato alle donne, è bello ricordare la figura di una grande artista che al tempo stesso, in un’epoca e un mondo esclusivamente declinati al maschile, rappresentò un’eroina dell’emancipazione femminile ante litteram.

Figlia del pittore Orazio e di Prudenzia Montoni, Artemisia Gentileschi nacque a Roma l’8 luglio del 1593. La sua fu una vita avventurosa e per certi versi drammatica, certamente mai semplice.

Se infatti ancora nel 1649, quando ormai s’era già creata una solida fama d’artista, scriveva a don Antonio Ruffo, suo committente napoletano: “Il nome di donna fa stare in dubbio finché non si è vista l’opera, ma farò vedere a Vostra Signoria che cosa sa fare una donna”, si capisce quanto Artemisia dovette combattere contro pregiudizi e stereotipi.

Erano tempi in cui alle donne la vita riservava di solito soltanto due strade tracciate per loro dal padre o, in assenza, dai fratelli: sposarsi e tapparsi in casa per prendersi cura dei figli e delle faccende domestiche oppure chiudersi in un convento a sgranare rosari.

Ma Artemisia era troppo intelligente, cocciuta e “diversa” da tutte le altre per rassegnarsi ad un destino che non era il suo. Nella bottega paterna fin da bambina diede prova di possedere uno spiccato talento artistico, di gran lunga superiore a quello dei fratelli maschi che cercavano invano di seguire le orme del genitore.

Artemisia Gentileschi, ” Susanna e i vecchioni”, 1610.

Ciò le permise di realizzare a soli 17 anni il suo primo capolavoro, la “Susanna e i vecchioni”, ispirato al realismo caravaggesco che sarebbe poi sempre stato una costante dei suoi quadri.

Proprio nella bottega di famiglia avvenne però il “fattaccio” che, costringendola ad attraversare il guado doloroso che troppe donne hanno dovuto affrontare, l’avrebbe segnata per la vita.

A 18 anni d’età, infatti, fu stuprata da Agostino Tassi, pittore pure lui e amico di suo padre, che proprio per questo l’aveva pregato fare da maestro di prospettiva alla figliola.

Sebbene consigliata da più parti di accettare un matrimonio riparatore o quanto meno di tacitare l’accaduto, Artemisia, in ciò precorrendo di circa tre secoli e mezzo la siciliana Franca Viola, altra donna simbolo dell’emancipazione femminile italiana, denunziò per violenza carnale il suo assalitore dando così inizio ad un processo surreale che, per assurdo, avrebbe visto lei salire sul banco degli imputati perché, come donna giovane e bella, le si rimproverava di essersi comportata alla stregua di una “Eva tentatrice”.

Sottoposta alla tortura “dei sibilli”, cioè allo stiramento delle dita con corde che le misero a rischio l’uso delle mani, ebbe comunque la forza di non cedere, confermando anche fra i tormenti la sua versione dei fatti e così facendo condannare il Tassi ad una pena comunque ridicola, consistente nel versamento di una somma di denaro e conseguente partenza in esilio.

A lei, uscita da quell’umiliante processo col marchio infamante della “prostituta bugiarda” e derisa con perfidi giochi di parole, quali “Arte / mi / sia / Gentil / esca”, non restò che cambiare aria e cognome per rifarsi dal 1612 una vita a Firenze, accanto ad un altro pittore che lei accettò di sposare senza alcun trasporto sentimentale, al solo fine di lasciar chetare le acque.

Alla Corte dei Medici Artemisia poté liberamente esprimere la sua arte, tanto da guadagnarsi il privilegio unico per una donna di essere ammessa alla prestigiosa “Accademia del Disegno” fondata nel 1563 dal Granduca Cosimo I.

Durante i suoi anni fiorentini dipinse soggetti femminili straordinari fra i quali spicca la “Giuditta che decapita Oloferne”, opera auto-biografica da cui traspare tutto il suo rancore nei confronti del bruto che le aveva rovinato la giovinezza.

Un’Artemisia arrabbiata e ferita nei sentimenti si sarebbe di lì in poi concentrata non sui soliti temi della “peinture des femmes” quali nature morte, animali e paesaggi, bensì su argomenti forti, “da uomini”, come eroine tragiche, scene mitologiche o impianti monumentali.

Videro così la luce in rapida serie: “Minerva”, “Autoritratto come martire”, Cleopatra”, “Maddalena penitente”, “La conversione della Maddalena”, “Lucrezia” e molti altri capolavori oggi sparsi nei più importanti musei di tutto il mondo.

Liberatasi infine anche del peso costituito da un marito mai amato e poco sopportato, a partire dal 1621 la nostra Artemisia, dopo aver ripreso il suo cognome da nubile, iniziò a girare il mondo con la sola compagnia della figlia Palmira.

Visitò le maggiori corti italiane ed europee in cerca di commissioni lavorative, sostando così a Genova, Roma, Venezia, Napoli, Londra e poi di nuovo a Napoli, dove si spense l’8 agosto del 1656.

“Uccidere il drago” di Amalia Bautista.

August Macke ~ San Giorgio”.

UCCIDERE IL DRAGO 

È giunto il momento di uccidere il drago,
di porre fine per sempre al mostro
dalle mascelle terribili e dagli occhi di fuoco.
Dobbiamo uccidere questo drago e tutti gli altri
che si riproducono intorno ad esso.

Il drago della colpa e il drago del terrore,
quello del rimorso sterile, quello dell’odio,
che sempre divora la speranza,
quello della paura, quello del freddo, quello dell’angoscia.
Dobbiamo uccidere anche quello che ci tiene
schiacciati a faccia in giù per terra,
immobili, codardi, sradicati, spezzati.

Possa il sangue di tutti questi draghi
inondare ogni parte di questa casa
fino ad arrivarci alla cintola.
E quando quell’ammasso di mostri non sarà
che un mucchio di visceri e occhi
spalancati sul vuoto, finalmente potremo
salire e, appollaiati su di loro,
raggiungere le finestre, aprirle o romperle,
lasciare entrare la luce, la pioggia, il vento
e tutto ciò che era bloccato
dietro i vetri.

(da Sono assente, 2004)

È una poesia abbastanza pulp questa di Amalia Bautista, ma l’autrice spagnola rende bene l’idea della necessità di liberarci dei “mostri” interiori che ci soggiogano e ci tolgono la libertà di vivere appieno la nostra esistenza: la paura, l’odio, il senso di colpa, l’ansia e via discorrendo.

È necessario uccidere il drago, di più: dopo averlo ucciso, guardarlo in faccia e servirsene per elevarci, per aprire le finestre, lasciare entrare l’aria pura, la pioggia e il sole, la luce.

Amalia Bautista (Madrid, 1962), scrittrice e poetessa spagnola. La sua laurea in Scienze dell’Informazione le ha permesso di lavorare come attrice di doppiaggio, ma attualmente lavora come giornalista, più conosciuta per il suo lavoro poetico sviluppato in un percorso breve ma molto interessante. Con un linguaggio colloquiale esprime una profonda ansia di assoluto, intesa come amore, soprattutto su temi erotici, dove indaga la passione e l’emozione.

Parte del suo lavoro è stato tradotto in italiano, portoghese, russo e arabo.