Sibilla Aleramo: femminista, unica, testarda, passionale e ineguagliabile

Sopravvissuta a tante tempeste, portava ancora con sé, e imponeva agli altri, quella fermezza, quel senso di dignità ch’erano stati la sua vera forza e il suo segreto. (Eugenio Montale)

Sibilla Aleramo nel suo pieno fascino.

La vita di Sibilla Aleramo si è dipanata a cavallo di due secoli alla stregua di un romanzo con accenti da tragedia greca, messa nero su bianco da lei stessa nel libro autobiografico: “Una donna”, che ebbe un successo straordinario.

Nel libro Sibilla Aleramo denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Se ne parlò in Italia e anche oltre i confini nazionali, divenne un caso letterario e un tema di discussione che infiammava i salotti borghesi. Venne definito il primo libro femminista in Italia, anche se non sempre le donne amavano Sibilla Aleramo, molte vedevano in lei una nemica. Ma ormai Sibilla attraverso la scrittura aveva avuto il coraggio di ribellarsi, e da quel momento non si sarebbe più fermata.

Nata ad Alessandria il 14 agosto del 1876 come Marta Felicina Faccio (detta “Rina”), prima dei quattro figli di Ambrogio ed Ernesta Cottino, seguì le peregrinazioni lavorative dei genitori a Milano e poi, dall’età di 12 anni, a Civitanova Marche dove il padre assunse la direzione di una vetreria presso la quale la stessa Rina, giovanissima, lavorò come impiegata, mentre a casa si occupava della madre, affetta da quelle turbe psichiche che l’avrebbero portata prima a tentare il suicidio e infine a subire l’internamento coatto presso il manicomio di Macerata.

Tutto il suo affetto di bambina e adolescente lo riversò dunque sul babbo, a lungo considerato il modello da seguire, finché non scoprì che l’uomo da anni intratteneva una relazione extraconiugale che la sconvolse al punto da farla allontanare da lui.

Il mondo “dei maschi” la tradì una seconda volta, rubandole l’innocenza sotto le sembianze di un mediocre dipendente della stessa ditta presso cui lavorava, che le usò violenza quando lei era appena quindicenne, costringendola poi ad accettare un matrimonio riparatore, visto il suo stato di gravidanza.

Se il primo figlio le morì prematuramente, nel 1895 lo stanco ménage matrimoniale non fu ravvivato nemmeno dalla nascita del secondo, Walter, che anzi peggiorò il già precario equilibrio familiare inducendo il marito a operare su di lei insopportabili pressioni psicologiche affinché, rinunciando al suo impegno sociale in favore delle donne e all’avviata collaborazione in qualità di scrittrice e saggista con riviste quali “la Gazzetta Letteraria”, “l’Indipendente” e il socialista “Vita Internazionale”, di fatto si chiudesse in casa ad occuparsi del neonato.

Dopo aver tentato pure lei, come la madre, il suicidio e aver seguito a Milano, per motivi lavorativi, quell’uomo mai amato, nel capoluogo lombardo le si dischiusero orizzonti nuovi e diversi da quelli ristretti di una (pettegola) cittadina di provincia, con la direzione de “l’Italia femminile”.

La sua indipendenza e libertà di giudizio, diventata ormai motivo di vergogna per il marito e fonte di continui, furiosi litigi, la convinse infine a prendere la decisione più difficile: quella di abbandonare il tetto coniugale e l’amato figliolo per iniziare veramente a vivere, trasferendosi da sola a Roma nel 1902.

Spogliatasi – con sollievo – delle vesti di moglie e – con infinito dolore – di quelle di madre, rivestì così le uniche che le si addicevano veramente: quelle di donna.

E proprio “Una donna” fu il titolo che scelse per il suo primo e più importante romanzo, pubblicato nel 1906 con lo pseudonimo carducciano di Sibilla Aleramo scelto per lei dal nuovo compagno, il poeta Giovanni Cena, e subito tradotto in dodici lingue, per l’eco mediatica che riscosse.

Quello con Cena fu solo il primo dei numerosi, oltreché turbolenti e contrastati, rapporti amorosi che la videro coinvolta, in relazioni quasi sempre improntate ad una passione bruciante che ardeva con la stessa velocità con cui si spegneva.

Fra le più note, figura quella col “matto di Marradi”, il poeta Dino Campana (celeberrimo autore de “i Canti Orfici”) pure lui destinato all’internamento in manicomio non prima però di aver stilato parole orribili nei confronti dell'(ex) amata, che per lui nel 1919 scrisse “Il Passaggio”, libro destinato a ispirare Michele Placido, regista del film “Un viaggio chiamato amore”, del 2002.

Nel romanzo “Il frustino”, del 1932, la Aleramo raccontò dei tre uomini (Giovanni Boine, Clemente Rebora e il pittore Michele Cascella) sui quali riversò contemporaneamente il suo affetto, dopo i rapporti già sfioriti con Giulio Parise (cui lei dedicò “Amo dunque sono”, del 1927) e ancor prima con la poetessa Lina Poletti.

Nel 1936 eccola iniziare un – per quei tempi – scandaloso rapporto, destinato a durare un intero decennio seppure fra alti e bassi, col poeta Franco Matacotta, di ben 40 anni più giovane di lei, ispiratore della raccolta di poesie “Selva d’amore”.

Se grande fu la sua irrequietezza in campo sentimentale, il filo conduttore delle numerose opere, come pure dell’intera esistenza di Sibilla Aleramo, spirata il 13 gennaio del 1960, fu l’orgogliosa rivendicazione della sua indipendenza, sfociante in sostanziale parità di genere con gli uomini, i quali infatti si meravigliavano di poter interloquire con lei “da pari a pari”.

Il prezzo da pagare per raggiungere un risultato allora tanto difficile da ottenere, quanto da lei ambito, consisté però nel doversi “adattare” a loro, rinunciando per esempio alla sua maternità.

Un’altra violenza perpetrata “dai maschi” nei suoi confronti, dopo quella fisica subita all’età di 15 anni.

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