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E se… ricominciassi dal principio? Il nuovo romanzo di Lorena Dellapiana.

Genere: Romanzi rosa

Trama:

Bianca ha trentaquattro anni, impiegata comunale in un paesino della cintura torinese, è sposata con un rampante avvocato di origini borghesi. Vive a Torino dove conduce una vita tranquilla e agiata che viene sconvolta un giorno di Settembre: una telefonata in piena notte fa crollare il suo castello di carte. Si trova da un giorno all’altro a dover combattere da sola i suoi demoni. Dopo aver trascorso giorni bui capisce che deve tentare di uscire dal suo guscio per affrontare l’ignoto. Un incontro fortuito le dà lo stimolo per rimettersi in pista.

Ed è proprio quando sta per riemergere dal baratro della disperazione, che segreti scioccanti emergono dalla sua vita passata, verità nascoste che mai avrebbe immaginato tornassero a galla stravolgendo nuovamente la sua esistenza. Tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora non era reale, le persone in cui aveva riposto la sua fiducia, che aveva amato con tutta se stessa non erano come aveva reputato. 

Tra schiaffi morali e colpi di scena riuscirà a ritrovare il suo posto nel mondo, tornando alle origini. A fianco dell’amata zia Imelda e in compagnia dalla fedele cagnolina Stella riuscirà a ricominciare dal principio proprio tra quelle colline di Langa in cui ha trascorso la sua infanzia. 

Perché Leggerlo?

Perché è un romance dinamico e sorprendente: “E se… ricominciassi dal principio?” è una lettura che coinvolge.

La scrittura scorrevole di Lorena Dellapiana ci immerge da subito nelle vicende della trama, al fianco della protagonista Bianca e di chi l’accompagna. Sebbene il romanzo si apra con una tragedia, l’autrice rende la lettura sempre piacevole, profonda, sì, ma senza generare ansie.

Si percepisce la volontà di ricominciare a vivere e venire a patti col dolore, grazie alla narrazione in prima persona di Bianca dove non manca un pizzico di brio e di autoironia, che descrive il coraggio, senza svilire il dolore.

Tutti i personaggi sono intriganti. Descritti con cura e tridimensionalità, offrono tanta varietà di caratteri, di vite e di segreti, che rendono un romanzo di amore e sentimenti imprevedibile, di ampio respiro grazie ai temi trattati che girano intorno all’evidenza che le persone non si conoscono mai fino in fondo.

La narrazione ha un ritmo in crescendo e apprezzo tantissimo che l’autrice non si sia chiusa nel ristretto cerchio della relazione amorosa, magari tra un lui tenebroso e problematico e una lei bellissima e concentrata solo sul lavoro, come capita fin troppo spesso, ma abbia esplorato altro, dando al lettore tanto su cui confrontarsi e riflettere.

Nell’opera troviamo il lutto e come lo si affronta, non in maniera accademica, ma tramite l’esempio unico della protagonista che ci coinvolge nella sua vita; affondiamo le mani nell’amicizia e nei non detti che esistono anche tra chi si affida e confida; sfioriamo la violenza sulle donne, l’adulterio, le bugie che si nascondono dietro un’apparenza perfetta e integerrima; infine abbiamo esempi diversi di unità famigliare, con amore, accoglienza e vicinanza che si contrappongono a supponenza, aria di superiorità e scarsa considerazione.

E se… ricominciassi dal principio?” è un romanzo che appassiona, prende di pancia e di testa, è davvero difficile posarlo, perché ci sono tante cose da scoprire e capire, tanti rapporti di cui vogliamo conoscere l’evoluzione, non solo personali, ma anche lavorativi.

È la vita quella che Lorena Dellapiana mette in romanzo, con tutti i suoi imprevisti, i mille impegni, le cose che capitano e che bisogna affrontare, le brutture, ma anche i regali che possono essere dolci, ancora più belli se arrivano non cercati.

Il libro ci ricorda che non sempre va tutto male e che si può ricominciare a vivere, trovare la luce anche in un labirinto che ci appare solo buio.
Un romanzo che mi ha sorpresa e che, ne sono certa, piacerà non solo alle romantiche, ma anche a chi di solito questo genere lo evita: qui c’è davvero tanto altro a movimentare una trama ben raccontata. 

Lorena Dellapiana nasce a Canelli in Piemonte nel 1974, cresce a Neive, un paese alle porte delle Langhe, dove tuttora lavora come impiegata comunale. Si diploma presso il Liceo Classico “Govone” di Alba e consegue la Laurea in Architettura presso il Politecnico di Torino. Dal 2018 recita nella compagnia teatrale “I Fabulanti di Neive”, associazione di cui è vice presidente, dal 2020 è membro dell’associazione culturale Manganum, con la quale collabora in veste di figurante in occasioni di rievocazioni medievali. 

Circa quindici anni fa si trasferisce a Mango dove, attraverso la finestra di casa, ammira ogni giorno le colline che tanto ama e che hanno dato i natali a generazioni della sua famiglia. É proprio questo radicato attaccamento alla sua terra che porta l’autrice ad ambientare in Langa “E se… ricominciassi dal principio?”, il suo romanzo d’esordio. Ed è qui che Bianca, personaggio principale e voce narrante della storia, ritroverà se stessa e la gioia di vivere quando, a causa di un destino avverso, dovrà cambiare vita e ricominciare dal principio.

Bertha von Suttner, l’ispiratrice del Nobel per la pace.

Bertha von
Bertha von Suttner

Bertha von Suttner non solo fu la prima donna a essere insignita, nel 1905, del premio Nobel per la pace, ma ne fu anche l’ispiratrice.

Il suo operato nel campo del pacifismo non passò, infatti, inosservato all’amico e collaboratore Alfred Nobel, che la prese come punto di riferimento per la nascita di quel riconoscimento così prestigioso.

Nel 1885 la venticinquenne baronessa boema Bertha von Wchinitz sposa, contro il volere della famiglia, l’ingegnere von Suttner e decide di lasciare la propria patria che percepiva così duramente conservatrice.

Nel 1887 viene pubblicato il suo capolavoro “Giù le armi!” tradotto in oltre 20 lingue e divenuto uno dei libri più letti del XIX secolo. Il frutto più maturo di riflessioni e studi lunghi anni, di contatti epistolari con gli esponenti del pacifismo occidentale e di esperienze vissute durante la lontananza da casa.

Da qui in avanti l’attività di Bertha si intensifica sensibilmente: nel 1891 fonda la Società pacifista austriaca e nel 1899 consegna al mondo il suo attualissimo “L’era delle macchine” in cui, a discapito di un’Europa pienamente inserita nel clima positivista, denuncia la spinta sempre più violenta dei nazionalismi e la preoccupante corsa agli armamenti. E sarà lei, per prima, a istituire un sodalizio tra femminismo e pacifismo: le donne sarebbero più propense alle tematiche antimilitariste.

Dopo il Nobel Suttner assiste impotente al tracollo della situazione politica. Il precario equilibrio su cui si basava la pace europea si stava dissolvendo sotto il peso di quei pericoli che lei stessa aveva denunciato.

Nel 1912 esce la sua ultima opera, “L’imbarbarimento dell’aria”, nel quale auspica la creazione di un’unione degli stati europei, unico vero scudo contro la catastrofe dei conflitti armati.  

Bertha muore il 21 giugno 1914 e non vedrà consumarsi il dramma della Prima guerra mondiale. Un conflitto che aveva previsto e per il quale aveva fornito quelle soluzioni adottate solo decenni e milioni di vittime dopo.

“La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore tra le sciagure”.
Bertha Von Suttner

Fonte: iStorica

“La pergamena della seduzione”di Gioconda Belli, un romanzo tra storia e invenzione.

La pergamena della seduzione unisce sapientemente una precisa ricostruzione storica della vita di Giovanna la Pazza con una vicenda ambientata negli anni sessanta.

Lucia ha 17 anni, è orfana ed è stata mandata a Madrid a studiare in un collegio di monache. Conosce casualmente un professore quarantenne, appartenente a un’antica famiglia nobiliare. Questi è ossessionato dalla figura di Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, andata giovanissima in sposa a Filippo il Bello. Manuel convince Lucia a indossare antichi abiti, simili a quelli che indossava Giovanna e, raccontandole la vera storia di questa principessa, la fa entrare pian piano nella psicologia della stessa e le fa rivivere il suo passato. Quello che nasce quasi come gioco si rivela un percorso complicato, che coinvolge Lucia e ne stravolge la vita.

L’aspetto più interessante del romanzo è la revisione storica della vicenda di Giovanna, ingiustamente rimasta nei libri di storia come “la pazza”. In realtà, come molti storici hanno confermato, lei era una donna passionale, colta, indipendente, schiacciata dalle ambizioni del marito e da quelle del padre. Tradita da tutti, madre, padre, marito, figli, viene rinchiusa per quarantasei anni, sino alla morte, in una fortezza, senza alcun contatto con il mondo esterno.

Dice l’autrice “qualsiasi donna con la piena coscienza di sè, messa davanti agli arbitri e ai soprusi che ha dovuto affrontare, si sarebbe almeno depressa. E la depressione anche cronica non ha nulla a che fare con la schizofrenia“.

Mi ha avvinto la storia di questa donna, tanto da invogliarmi ad approfondire la sua vicenda umana. Meno riuscita e un po’ morbosa, invece, la relazione tra Lucia e Manuel. Molto abile la scrittrice nell’analizzare la psicologia femminile e gli aspetti dell’innamoramento.

Un romanzo avvincente, ben scritto.

Oltre al libro mi ha conquistato la vita dell’autrice.

Gioconda Belli è giornalista, poetessa e scrittrice. La sua vita è come un romanzo.

Nasce nel 1948 in Nicaragua, in una famiglia di origine italiana, emigrata in Sudamerica per lavorare alla costruzione del canale di Panama. Seconda di 5 figli, Gioconda vive in una famiglie benestante, per cui può studiare e perfezionarsi sia in Spagna che in America. Si diploma in giornalismo a Filadelfia. A 18 anni si sposa con una cerimonia sfarzosa, nasce la prima figlia, Maryam, e Gioconda si comporta come una disincantata signora borghese. 

L’incontro con un uomo che chiama “il Poeta”, di cui diviene l’amante, l’introduce nel movimento del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale: conduce una doppia vita, in apparenza tranquilla borghese, in sostanza rivoluzionaria. Nel 1970 pubblica una raccolta di poesie, in cui esprime le proprie tensioni interne. Ha un’altra figlia, Melissa, si separa dal marito e s’innamora di un dirigente sandinista, Marcos (Eduardo Contrera Escobar), impegnandosi attivamente nel movimento.

Nel 1975 affida le figlie ai genitori e fugge in Messico, per evitare l’arresto. Si stabilisce in Costa Rica dal 1976, per decisione di Marcos, per organizzare i rifugiati. Marcos viene ucciso e per Gioconda è un grande dolore, anche se lui l’aveva abbandonata per un’altra donna. Divorzia dal marito e si fa raggiungere dalle figlie. Sposa il brasiliano Sergio de Castro, da cui ha un figlio, Camillo. Intensifica il proprio impegno politico, viaggiando molto per perorare la causa sandinista. 

Tornata in patria, nel 1979, in seguito alla vittoria del fronte sandinista ottiene cariche all’interno del governo rivoluzionario. Quando potrebbe vivere tranquillamente, s’innamora pazzamente del comandante Modesto, uno dei membri della Direzione Nazionale, e rompe il matrimonio, iniziando una relazione complessa. Divergenze con il partito spingono Gioconda a dimettersi dalle cariche e prendere un periodo di ripensamento. 

Nel 1984 incontra il giornalista americano Charlie Castaldi, che sposa nel 1987. Inizia una seconda vita, tra America e Nicaragua, dedicandosi prevalentemente alla letteratura. Ha un’altra figlia, Adriana. La raccolta di poesie La costola di Eva ottiene successo internazionale, così come il primo romanzo La donna abitata, pubblicato nel 1989. Seguono: Sofia dei presagi, Waslala, Il paese sotto la pelle, La pergamena della seduzione L’infinito nel palmo della mano.

Due cose che non ho deciso io hanno determinato la mia vita: il paese in cui sono nata e il sesso col quale sono venuta al mondo […] Non sono stata ribelle fin da piccola. Al contrario. Niente faceva presagire ai miei genitori che la creatura ammodo, dolce e garbata, delle mie fotografie infantili si sarebbe trasformata nella donna rivoluzionaria che tolse loro il sonno. […] Sono stata due donne e ho vissuto due vite. Una delle due donne voleva far tutto secondo i canoni classici della femminilità: sposarsi, fare figli, nutrirli, essere docile e compiacente. L’altra aspirava ai privilegi maschili: sentirsi indipendente, essere considerata per se stessa, avere una vita pubblica, la possibilità di muoversi, amanti. Ho consumato gran parte della vita alla ricerca di un equilibrio tra queste due donne, per unirne le forze, per non essere dilaniata dalle loro battaglie a morsi e graffi. Penso di avere ottenuto, alla fine che entrambe le donne coesistessero sotto la stessa pelle. Senza rinunciare a sentirmi donna, credo di essere riuscita a essere anche uomo“. ( da, Il paese sotto la pelle)

paola

Rosa Parks: la donna che cambiò la storia con un no sul bus!

Esistono le regole. E se esistono le regole, ebbene, queste vanno rispettate. Perché le regole sono fatte per mantenere l’ordine e la disciplina. Per aiutare i buoni cittadini e le buone cittadine a capire. Per decidere chi sta di qua e chi di là. Chi è giusto e chi è sbagliato. Chi è creatura di Dio e chi, invece, è prova solo del suo senso dell’umorismo. Le leggi e le regole ci sono per un motivo molto preciso. E vanno seguite alla lettera, senza pietismi o eccezioni. Perché altrimenti si entra nel caos, si confonde il bene con il male, si cambia il posto alle pedine. Se non le rispetti, le regole e le leggi, saltano gli argini, crollano i confini. Nascono le rivoluzioni. 

Alle ore 18:00 di giovedì 1 dicembre 1955 a Montgomery, nello stato dell’Alabama, sull’autobus della compagnia Montgomery City Bus Lines, vettura 2857, diretto a Cleveland Avenue, l’autista James Fred Blake è costretto a fermare la corsa. Una donna nera si rifiuta di cedere il proprio posto a sedere a un bianco. Non vuole alzarsi. Eppure, dovrebbe sapere com’è che funziona: i dieci posti anteriori sono per i bianchi, i dieci posteriori sono per i neri, i sedici centrali sono a uso misto, a meno che non servano ai bianchi. Semplice. Bisogna solo rispettare la legge.  Nonostante questo, però, lei rimane seduta. Ferma, composta e seduta.

«Ti faccio arrestare».
«Ne ha facoltà».

Blake chiama la polizia. Due agenti arrivano e prendono in custodia la donna portandola via, prima nel municipio, e poi, quando l’autista finisce il turno e va a notificare la denuncia, nel carcere cittadino. Qui, le generalità dell’accusata vengono messe nero su bianco: Rosa Louise McCauley, di anni quarantadue, sposata Parks. Professione, sarta. 

Cosa si è messa in testa questa Rosa Parks? Cosa vuole dimostrare? Non le bastano ago e filo? 
No, non le bastano. Perché Rosa Parks, prima di essere sarta è tanto altro ancora. Moglie dell’attivista Raymond Parks, è, dal 1943, la segretaria della sezione di Montgomery della Naacp, la National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche organizzazioni per i diritti dei neri negli Stati Uniti d’America. I suoi bisnonni hanno conosciuto la schiavitù e la sua abolizione.

Il padre di sua nonna, per festeggiare la libertà ottenuta, decide di costruire un tavolo affinché la sua famiglia avesse, finalmente, un ripiano su cui mangiare. Ma a parte questo, la loro vita, come la vita di tutti gli altri ex schiavi ed ex schiave, non cambia così radicalmente come si pensava e sperava, neanche dopo il 1865 e l’approvazione del XIII emendamento.


Le motivazioni egualitarie e umanitarie, in realtà, non hanno mai fatto parte di un movimento di massa. La maggioranza delle popolazioni degli Stati del Nord ha voluto l’abolizione della schiavitù per non competere con la manodopera nera a costo zero dei signori del Sud; e, anche dopo la fine della Guerra di Secessione, in molti di quegli stessi Stati ai neri è vietato stabilirsi, è vietato votare, sono vietati i matrimoni misti. Dunque, il sogno di una società fondata sulla fratellanza e sorellanza universali si va a scontrare con lo zoccolo duro di un’ostilità generale e profondamente diffusa. 

Mary Wollstonecraft e la “Rivendicazione dei diritti della donna”.

Mary Wallstonecraft

“Le donne si trovano dovunque a vivere in questa deplorevole condizione: per difendere la loro innocenza, eufemismo per ignoranza, le si tiene ben lontane dalla verità e si impone loro un carattere artificioso, prima ancora che le loro facoltà intellettive si siano fortificate. Fin dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna e la mente quindi si modella sul corpo e si aggira nella sua gabbia dorata, contenta di adorarne la prigione. Gli uomini possono scegliere attività e occupazioni diverse che li tengono impegnati e concorrono inoltre a dare un carattere alla mente in formazione. Le donne invece costrette come sono di occuparsi di una cosa sola e a concentrarsi costantemente sulla parte più insignificante di se stesse, raramente riescono a guardare al di là di un successo di un’ora. Ma se il loro intelletto si emancipasse dalla schiavitù a cui le hanno ridotte l’orgoglio e la sensualità degli uomini, insieme al loro miope desiderio di potere immediato, simile a quello di dominio da parte dei tiranni, allora ci dovremmo sorprendere delle loro debolezze”.

“Istruite fin dall’infanzia che la bellezza è lo scettro della donna, il loro spirito prende la forma del loro corpo e viene chiuso in questo scrigno dorato, ed essa non fa che decorare la sua prigione “.

Mary Wollstonecraft da, “Rivendicazione dei diritti della donna”.

Mary Wollstonecraft, (Londra 1759 – Londra 1797) è stata la prima donna filosofa e scrittrice a porre con la “Rivendicazione dei diritti della donna”, un opuscolo pubblicato nel 1792, la questione dei diritti delle donne in maniera sistematica, precedendo di un secolo le lotte del femminismo in difesa e a sostegno di tali diritti.

Fu una donna libera, indipendente, madre single e poi moglie del filosofo William Godwin, precursore dell’anarchismo, vivranno in due case distinte, adiacenti.

Non ebbe però un’esistenza facile, la sua opera e lei stessa non ebbero mai molti riconoscimenti sino a quando non fu riscoperta dalle femministe del xx secolo (tra cui Virginia Woolf) che vedranno in lei una vera e propria pioniera nella rivendicazione dei diritti donne.

La sua vita sarà di breve durata poiché morirà di setticemia all’età di 37 anni dopo aver dato vita a Mary Shelley, futura autrice di Frankestein.

Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse”.

L’oblio nuoce alla conoscenza: la storia della scrittrice Fausta Cialente.

Fausta Cialente da giovane

Pochi sono gli intellettuali che, negli anni, si sono confrontati con la scrittura delle donne: esigue sono le figure femminili che vengono ricordate oggigiorno (Sibilla Aleramo, Alda Merini, Ada Negri, Matilde Serao: chi altro?), e questo accade perché la memoria delle loro parole è stata volutamente occultata e nascosta ai lettori, soprattutto perché le donne non venivano ritenute abbastanza capaci di saper scrivere come uno scrittore, non sufficientemente in grado di trasmettere le stesse sensazioni tramite le parole che utilizzavano.

Parliamo di una vera e propria subordinazione della scrittura femminile nei confronti di quella maschile sulla base di criteri canonici valsi per moltissimi anni: criteri basati sullo stile, sul pathos, sull’etica di un’opera. Le donne, secondo la maggior parte dei critici, non facevano parte della casta inarrivabile degli scrittori, ma semplicemente si dilettavano con dei romanzi d’amore, relegati ad un pubblico di bassa lega (anch’esso formato da donne, naturalmente!).

Nonostante i pregiudizi e le difficoltà che le scrittrici hanno dovuto affrontare per arrivare a possedere quella dignità che era stata loro negata, nel ‘900 sembra esserci una sorta di rivalsa, di riscatto: è proprio in questo secolo che alcuni dei più importanti personaggi letterari del tempo sono donne.

Donne che vendono milioni di copie dei loro libri, che diventano pilastri intellettuali del secolo breve, che si fanno portatrici di battaglie per rivendicare la loro libertà intellettuale diventando scrittrici affermate e agognate dagli editori più importanti: parliamo di personaggi come Sibilla Aleramo, Alba De Céspedes, Anna Banti e, soprattutto, Fausta Cialente. Figura decisamente poco studiata e conosciuta, Cialente rappresenta la donna-scrittrice che si crea da sé, un demiurgo muliebre che crede fermamente nella propria libertà letteraria ed intellettuale, decidendo quindi di affermarsi in una società che non è pronta ad accogliere le scrittrici per conferire loro la giusta considerazione e dignità artistica. 

Fausta Cialente (Cagliari 1898 ) nasce come scrittrice autodidatta, diventando in seguito una giornalista radiofonica durante il periodo della Resistenza (una delle esperienze più determinanti e centrali della sua vita), collaborando inoltre anche con vari giornali dell’epoca tra cui “L’Unità”, “Noi donne” e “Il contemporaneo”.

La sua è decisamente una formazione di tipo cosmopolita e multiculturale: si trasferisce ad Alessandria d’Egitto appena ventenne (passando per Cagliari, Trieste, Firenze, Milano), in seguito al suo matrimonio con Enrico Terni (compositore e agente di cambio), e partecipa alle vicende italiane come figura intellettuale attraverso il giornalismo e i suoi numerosi racconti. Malgrado tutto, Fausta, ovunque vada, si sente una straniera, senza radici né casa: la sua multiculturalità è contemporaneamente nomadismo, che la porta ad affrontare numerosi viaggi senza mai insediarsi completamente in nessun luogo, senza appartenere a nessuna terra. 

Nonostante non abbia una dimora che possa essere definita “sua”, Cialente continua a scrivere romanzi, racconti, sceneggiature cinematografiche.

Il riconoscimento più importante arriva nel 1976 col premio Strega, grazie al romanzo “Le quattro ragazze Wieselberger”, attraverso il quale Cialente racconta due storie: quella della sua famiglia, dunque una storia privata, che si intreccia con la storia collettiva coeva, quella della borghesia italiana di inizio ‘900, colpevole di aver innescato quella scintilla bellica che si sarebbe poi tramutata in conflitto mondiale.

Maria Bellonci, l’ideatrice del Premio Strega.

Due vite si intrecciano, insidiandosi reciprocamente nella lunga esistenza di Maria Bellonci: quella della scrittrice e quella della patronne del Premio Strega. Maria Villavecchia nasce a Roma all’inizio del secolo da una famiglia piemontese. Per le monache di Trinità dei Monti, è un’alunna brava, ma difficile. Finiti gli studi classici, la ragazza che a scuola si ribellava ai lavori di cucito, si fidanza con Goffredo Bellonci, un giornalista colto, in grado di starle a fianco e di guidarla. Si sposano nel 1928. La sposa in raso bianco ha quattro veli di strascico. «Ero molto carina? Mi pare di sì. Snellissima, bruna, con vitino». Eppure, anche in quelle foto i lineamenti forti di Maria non sembrano mai belli.

Scrittrice di romanzi storici, meticolosa nella ricerca documentaria così come nella costruzione di ogni singola frase, Maria Villavecchia in Bellonci ha concepito nel 1947 uno dei premi letterari più rilevanti del nostro Paese, lo Strega, termometro dell’ambiente culturale e dei gusti dei lettori italiani, nonché motore delle vendite dei libri. E l’ha fatto per promuovere una ricostruzione, personale e collettiva, nell’Italia martoriata dal secondo conflitto mondiale.

Nel 1944, in una Roma appena liberata dall’occupazione, la scrittrice, insieme al marito Goffredo, giornalista e critico letterario, aveva ideato le sue domeniche, “partendo dall’idea di radunarsi come per una festa”. Più che di un salotto letterario, all’inizio si trattava di informali riunioni settimanali nella casa dei coniugi Bellonci in Viale Liegi. Il primo appuntamento si tenne l’11 di giugno. Fu un vero e proprio avvenimento e Maria Bellonci – come racconta nel saggio che ripercorre quell’epoca, Come un racconto. Gli anni del Premio Strega, aveva segnato la data sulle pagine del suo taccuino, accanto alle liste degli invitati, destinati ad aumentare in maniera vertiginosa.

Nelle annotazioni della padrona di casa, che investiva questi incontri di grande valore, i nomi di amici e familiari si mescolavano a quelli di scrittori, artisti e letterati. “[Era] il tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione”, ricorda Bellonci, un’alleanza basata sull’esercizio dell’intelligenza. La domenica pomeriggio si parlava dell’Italia ritrovata, di politica, di letteratura e si mangiavano le torte che la scrittrice preparava all’alba, perché il gas dopo le sette non riscaldava abbastanza il forno.

Nel salotto della casa di Maria e Goffredo Bellonci: Maria Bellonci, Aldo Palazzeschi, Alba de Céspedes, Anna Proclemer, Paola Masino, Libero Bigiaretti e Vitaliano Brancati

Maria Bellonci pensava che in quel “tempo di pericolo”, come aveva battezzato il fragile dopoguerra, la letteratura fosse un luogo riparato e luminoso dove stare e dopo tre anni desiderava sperimentare quella democrazia ancora in nuce nello spazio, per quanto circoscritto, dei libri, creando un premio. Ne discusse con Goffredo che le rispose “con occhi lucenti di approvazione”. “[L’idea] era nata da me, da me a paragone con gli altri, dalla nuova coscienza sorta nei tempi tanto incisivi della Resistenza durante i quali avevo imparato che gli uomini esistono gli uni per gli altri e che gli scrittori non fanno eccezione. Pensavo adesso che ciascuno avesse il dovere di vivere dentro un nucleo sociale e di offrire, potendo, alla comunità, un tributo di azioni quotidiane”. Il premio era un modo per affidare alla cultura il compito di costruire un principio di solidarietà, sulle macerie della guerra.

Fu così che in una domenica di gennaio del 1947 la scrittrice e traduttrice romana annunciò di voler far nascere un riconoscimento nuovo, che “nessuno avesse mai immaginato”, e lo fece fondando una giuria vasta, composta appunto dagli “Amici della domenica”, nome con cui venivano soprannominati gli ospiti che frequentavano il salotto romano. Nelle piccole stanze tappezzate di libri di casa Bellonci c’era anche Guido Alberti, proprietario dell’azienda produttrice del liquore Strega: il sodalizio fu immediato e il Premio trovò il suo fedele finanziatore.

Maria Bellonci alla presentazione del Premio Strega (1952)

La giuria del primo anno, nel 1947, era composta da 170 persone e vinse Ennio Flaiano con il suo romanzo Tempo di uccidere, un’allegoria del conflitto appena trascorso che racconta la storia di un tenente dell’esercito italiano e delle sue disavventure sul suolo africano. Nel 1948, i votanti diventarono 190, l’anno successivo 202 in un continuo crescendo che toccò i 350 quando fu incoronata la prima scrittrice donna, Elsa Morante, nel 1957 con L’Isola di Arturo. Oggi il corpo elettorale, che porta ancora il nome di Amici della domenica, è costituito da quattrocento persone inserite a vario titolo nel mondo culturale italiano che ogni giugno, in casa Bellonci, scelgono la cinquina e poi, i primi di luglio, eleggono il libro vincitore al Ninfeo di Villa Giulia, a Roma. Si diventa giurati per cooptazione, su segnalazione di un altro membro. 

Elsa Morante riceve il Premio Strega per il libro L’Isola di Arturo (1957)

Emma Goldman, una anarchica e una femminista molto speciale!

 

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Nacque figlia indesiderata, Emma Goldman (soprannominata Emma la Rossa), il 27 giugno 1869, nell’impero russo, in una modesta famiglia ebrea. Il padre voleva un erede maschio. La donna che aveva sposato, una vedova con due figlie, non gradì la terza. Emma crebbe con le percosse dei genitori, il  padre aveva “sempre a portata di mano la frusta e lo sgabello, simboli della mia vergogna e della mia tragedia” ricorderà nelle sue memorie (Autobiografia. Vivendo la mia vita, ).

Per l’esperienza della sua infanzia, non volle avere figli. Si sposò più volte, ebbe vari amanti, ai quali si unì con passione, ma subordinò sempre l’amore personale all’amore universale per l’umanità reietta, asservita alle classi dominanti.

Dedicò tutta la sua esistenza  alla lotta per la liberazione del proletariato, per l’emancipazione della donna, per una società senza classi dominanti. Ma osteggiò il fanatismo, disprezzò il conformismo, condannò il terrorismo, anche quando avevano abiti rivoluzionari.

Oltre alla propaganda legata all’ideale anarchico Emma Goldman tenne varie conferenze a sostegno della causa femminista: sull’emancipazione della donna, sulla libertà di pensiero e sulla libertà sessuale, sull’uso dei contraccettivi e il controllo delle nascite.

Sosteneva che le donne dovessero avere pieno controllo del proprio corpo e non solo decidere quanti figli avere, ma anche ritenere se averne o meno, poiché non credeva che lo scopo della donna fosse necessariamente quello di diventare madre.

Scrisse cinque saggi dedicati alla questione femminile: al tema del suffragio, della prostituzione, del matrimonio, della sessualità e dell’amore. Le sue idee femministe apparvero alle autorità più pericolose delle sue convinzioni rivoluzionarie e anarchiche.

Aveva dodici anni quando la famiglia si trasferì a San Pietroburgo. Il padre ostacolò la passione di Emma per lo studio, perché sosteneva che la donna dovesse solo servire il marito e dargli dei figli. Ma un altro modello di donna fu rivelato all’adolescente Emma dal romanzo Che fare? del populista Nikolaj Cernyševskij, dove la protagonista si ribella al matrimonio imposto dalla famiglia, e sposa un giovane rivoluzionario, per votarsi con lui alla liberazione del popolo.

Nello stesso periodo, il romanzo di Cernyševskij impressionò profondamente Vladimir Il’ič Ul’janov, di un anno più giovane di Emma, l’adolescente figlio di un “nobile” nel 1902, con lo pseudonimo di Lenin, Vladimir intitolò Che fare? un opuscolo dove esponeva la concezione, remotissima dall’anarchia, di partito di avanguardia, formato da rivoluzionari di professione, totalmente dediti alla causa della rivoluzione proletaria.

Se singolare fu la comune suggestione del romanzo su un giovane “nobile” e su una derelitta fanciulla ebrea, ancora più singolare fu la simultaneità della loro iniziazione alla militanza rivoluzionaria.

Per Vladimir, cresciuto in una famiglia agiata e devota allo zar, con genitori severi ma amorevoli, studente modello per disciplina e brillanti successi scolastici, la scelta rivoluzionaria avvenne inattesa e improvvisa alla fine del 1887, a diciassette anni, dopo l’impiccagione del fratello Alessandro perché aveva organizzato un attentato alla vita dello zar.

Per Emma, angariata dai genitori, senza adeguata istruzione, cresciuta in un ambiente antisemita, a quindici anni operaia in fabbrica, la vocazione rivoluzionaria avvenne in seguito alla impiccagione di cinque anarchici a Chicago nel novembre 1887.

Dopo aver lavorato in fabbrica a San Pietroburgo, nel gennaio 1886 Emma raggiunse una sorella emigrata negli Stati Uniti. Lavorava come operaia, quando, in quello stesso anno, furono condannati a morte giovani anarchici, accusati di aver assassinato alcuni poliziotti durante una dimostrazione.

La diciassettenne operaia seguì appassionatamente il processo, che definirà «la più gigantesca macchinazione di tutta la storia degli Stati Uniti». Il 15 agosto 1889, si trasferì a New York. Qui avvenne l’incontro con un diciottenne anarchico russo, Aleksandr Berkaman, e con il quarantenne tedesco Johann Most, uno dei maggiori esponenti dell’anarchismo negli Stati Uniti. Fu, scriverà Emma, la sua «vera data di nascita». A vent’ anni divenne rivoluzionaria nel movimento anarchico internazionalista.

Dotata di talento oratorio, iniziò a viaggiare per gli Stati Uniti per fare comizi e conferenze. Cominciò a scrivere articoli su periodici anarchici. Fu arrestata nel 1893 per incitamento alla sommossa, ma gettò un bicchiere d’acqua in faccia al poliziotto che le prometteva la libertà in cambio di informazioni sugli anarchici.

Si immerse nello studio del pensiero anarchico, del socialismo, della filosofia, dell’economia, della questione sociale, della condizione della donna. Dal 1895 fu in Europa, dove incontrò i patriarchi e le matriarche dell’anarchismo, come Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta e la comunarda Louise Michel. A Vienna scoprì il pensiero di Nietszche, che divenne una sua passione intellettuale, e seguì le lezioni di Sigmund Freud sulla repressione sessuale.

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Le sorelle Field di Dorothy Whipple

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                                                      andrea kowch

Di sorellanza ha molto parlato il movimento femminista, nel senso della solidarietà tra donne, per aiutarsi concretamente e affermare, insieme, con più forza, i propri diritti  superando le disparità di genere. I percorsi della sorellanza, sebbene funestati da ripensamenti e inevitabili competizioni, sono ancora attivi e forniscono tuttora elementi per riflettere, essendo probabilmente l’eredità più utile e vivace degli anni Settanta del secolo scorso. Ma il rapporto tra sorelle, unite dal vincolo famigliare, non è meno ricco di implicazioni. Pensiamo alle sorelle celebri della letteratura, le Austen, le Brontȅ, le Woolf, le De Beauvoir e quelle che abbiamo incontrato nei loro libri, come le sorelle March, che una certa critica, ormai superata, identifica pari pari con le Alcott.

Nel romanzo  Le sorelle Field, di Dorothy Whipple, per la prima volta tradotto in italiano da Simona Garavelli, troviamo Lucy, Charlotte e Vera, orfane di madre, con tre fratelli alquanto scapestrati. Pubblicato nel 1943, ma ambientato alla fine degli anni Trenta del Novecento, sorprende per l’attualità dei temi e la scrittura fluida eppure puntuale, il tocco lieve e profondo insieme con cui vengono tratteggiate le protagoniste. La narrazione trascura quasi subito i fratelli, emigrati in Canada o rimasti a Londra, del tutto ininfluenti nella storia e si occupa invece delle sorelle che, con caratteri e temperamenti diversi, approdano a matrimoni altrettanto diversi.  L’abbiamo imparato nei romanzi di Jane Austen e misurato sulla nostra pelle, fino alla metà del secolo scorso, che le donne non potevano sottrarsi al destino di mogli, pena l’invisibilità sociale e la precarietà economica, quindi anche le Field scelgono la loro strada nella vita sulla base delle pressioni ambientali e dell’educazione ricevuta.

Dorothy Whipple, quando rimproverata perché ai suoi romanzi mancava intreccio o lieto fine,  usava dire che non scriveva libri di trama, ma di personaggi e questo romanzo rivela la sua complessità proprio nella definizione dei caratteri delle sorelle e nelle loro  scelte, prospettando anche il tema, tristemente attuale, della violenza psicologica nel matrimonio. Quella lama sottile che taglia di netto l’autostima e fa vacillare la sicurezza, nutrendosi di ambiguità tra il fuori-società e il dentro-famiglia, così da rendere poco fattibile la ribellione a un marito autoritario.

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