Autore: Paola

Un romanzo sempre attuale.

“Cecità”
di José Saramago
Ed. Feltrinelli

“Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco”.

In un tempo e in un luogo non precisati, accade un fatto imprevedibile molto grave l’intera popolazione diventa cieca a causa di un’inspiegabile epidemia. Colpiti da cecità i cittadini sono come avvolti in una nube biancastra che sembra latte e non ci vede più.

Le reazioni psicologiche di tutti i protagonisti della storia che l’autore lascia nell’ anonimato sono sconvolgenti. Fra loro si diffonde terrore e violenza crescente. Gli effetti di questa misteriosa epidemia sulla convivenza sociale diventeranno un vero dramma.

I primi contagiati dal male vengono rinchiusi, per ordine delle autorità, in un ex manicomio per la paura della diffusione del contagio. All’interno del manicomio tra gli ospiti si manifestano tutto l’orrore, le nefandezze di cui l’uomo sa essere capace. Ma anche in mezzo a questo orrore si trovano esseri ricchi di umanità e capaci di nutrire amore per il prossimo. Verso questi ultimi che sono i protagonisti della storia, il lettore proverà immediatamente una grande empatia.

La crudezza della narrazione giunge al lettore come un pugno allo stomaco.
Il ritmo narrativo è incalzante, travolgente e induce chi legge a non staccarsi dalle pagine del libro ansioso di giungere all’epilogo della storia.

Cecità è un romanzo filosofico che racconta la sofferenza umana collettiva. Nella drammaticità degli eventi che si susseguono nel racconto tanti sono, infatti, i gesti di condivisione di amore, altruismo in cui si ritrovano i protagonisti.
Una lettura che induce a riflettere sulla fragilità degli esseri umani.

Consiglio questa lettura per chi non l’abbia ancora letto perché lo considero un must. Qualcosa che va letto ad ogni costo almeno una volta nella vita.

State, però, attenti a leggerlo nel momento giusto; non presi dalla foga di leggere un romanzo importante e famoso, bensì quando pensate di potergli dedicare il giusto tempo e la necessaria attenzione.

Se lo leggerete nel momento giusto lo finirete senza nemmeno accorgervene!

Buona lettura a tutte/i Voi📚

Zuzanna Ginczancha da, Nota a margine, 1936

Zuzanna Ginczancha meglio conosciuta come Zuzanna Polina Ginzburg.

Polvere
non sono
e polvere
non tornerò.

Non sono scesa
dal cielo
e in cielo non salirò.

Sono io stessa il cielo
come solaio di vetro.

Sono io stessa la terra
come fertile terreno.

Non sono fuggita
da nessuna parte
e non ci
tornerò.

Oltre a me stessa non conosco altra distanza.

Nel gonfio polmone del vento
e nella calcificazione delle rocce
devo
me stessa
qui
dispersa
ritrovare.

Zuzanna Ginczanka, Nota a margine, 1936

Zuzanna Polina Ginzburg nasce a Kiev Ucraina nel 1917 da famiglia di origine ebrea.

Si trasferisce bambina con i suoi genitori in Polonia per sfuggire alla guerra civile russa.

Poetessa di talento, originale e dissacrante, affronta nella sua poetica temi riguardanti le libertà femminili senza falsi pudori ma nello stesso tempo con profondità e abilità poetica singolari che si ritrovano tutte, nel suo scritto la “Rivolta delle quindicenni” un vero e proprio inno delle giovani donne a vivere liberamente la propria sessualità.

Arrestata, imprigionata, torturata e fucilata dai nazisti muore a Cracovia nel gennaio del 1945.
Importante ricordarla ora, che la guerra si sta trasformando in un conflitto globale

Fuori la guerra dalla Storia!
Se vuoi la pace, prepara la pace.

Cristina Campo, la poetessa dell’inesprimibile del nostro Novecento.

Bisogna vivere tutto fino in fondo. Ogni volta che si torna indietro è per tracciare un nuovo cerchio, ancora e ancora finché non sia perfetto. Vivere tutto con rispetto di sé […] Il cerchio si traccia con la volontà di capire.

Nel precedente articolo avevo scritto di Cristina Campo ricordandola attraverso alcune sue poesie che dimostrano la grandezza interiore e intima di questa donna.

Oggi vorrei soffermarmi sul perché Cristina non sia stata ricordata come tante altre poetesse. Sicuramente ci sono scrittori che vanno tenuti a portata di mano sempre, in borsa o sul comodino, in bagno o sul tavolo da lavoro, perché la loro opera configura complicati universi paralleli e la loro esistenza traccia percorsi di grazia da intercettare e fare propri, a cui ambire.

Sono creature che attraversano questa terra leggere e impalpabili, che lasciano dietro di sé scie sottilissime e luminescenti, resistentissimi fili d’argento che il tempo non sa spezzare.

Cristina Campo è sicuramente una di loro. Di sé scrisse, in una celebre poesia, Due mondi – io vengo dall’altro, e appare davvero una creatura catapultata sulla terra da un universo etereo, sovrasensibile, in cui vivono esseri fatti di pura anima.

Cristina è come ha scelto di essere chiamata ma era nel suo destino cambiar nome visto che i genitori gliene diedero molti. Cristina Campo nasce Vittoria Guerrini ma viene battezzata come Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina. A casa resterà Vittoria, in pubblico diventerà Cristina (ma scriverà usando anche molti altri eteronimi, spesso maschili).

Nasce a Bologna nel 1923, è l’unica figlia di Guido, musicista e compositore di Faenza, e di Emilia Putti, sorella del famoso ortopedico del Rizzoli di Bologna dove la famiglia vive e nel cui parco Cristina cresce. Per via di una malformazione cardiaca congenita vive appartata con due genitori in apprensione perenne. Per questo motivo non frequenta la scuola se non saltuariamente, e la sua formazione culturale si svolge prevalentemente da autodidatta, nella biblioteca di famiglia, leggendo fiabe, miti e classici della letteratura rigorosamente in lingua (francese, inglese, spagnolo, latino), come da dettame paterno, e queste letture segneranno il suo immaginario di scrittrice adulta, consegnandole i temi ricorrenti della sua letteratura: la fiaba, il destino, l’arcano, il simbolo e un futuro da traduttrice e lavoratrice culturale. Legge Omero, Shakespeare, Leopardi, Dante, e i russi in cui, come le disse suo padre, Troverai molto da soffrire, ma niente che possa farti molto male.

La famiglia vive a Bologna fino al 1925, poi si trasferisce a Parma e a Firenze. Nell’ambiente culturale fiorentino Cristina Campo si forma grazie anche alle amicizie con il germanista Leone Traverso (con cui ebbe una relazione sentimentale), Mario Luzi (amore segreto perché già sposato), Gianfranco Draghi, Gabriella Bemporad e Margherita Pieracci Harwell, la Mita delle lettere che si scambiarono.

Con molti amici mantiene rapporti epistolari che tengono vivo il dialogo a distanza ma svelano anche il suo universo culturale e personale. Per Cristina Campo coincidono. Quando rivede un amico gli domanda: “Su che cosa è fondata la sua vita oggi, intendo dire: che cosa legge?”.

Un’altra amicizia significativa è quella con Anna Cavalletti, durante l’adolescenza. Anna ha un precoce talento letterario, in lei Cristina vede il suo doppio, la riconosce sorella. L’amica però muore tragicamente nel 1943 sotto un bombardamento a Firenze, a soli 18 anni.

Rimasta è la carezza che non trovo

più se non tra due sonni, l’infinita

mia sapienza in frantumi. E tu, parola

che tramutavi il sangue in lacrime.

Cristina ha un’indole solitaria, rifugge la mondanità, i riconoscimenti e il mercato letterario. Ha in orrore la massificazione, l’omogeneità e la perdita di senso che comportano. Diceva di sé “ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno”. Era in cerca della perfezione, un’ossessione sia nella scrittura che nella vita. Non solo sulla pagina è esatta, pulita, ma anche nei gesti quotidiani, nello stile di vita trattenuto.

Amelia Earhart, “la regina dell’aria”.

Amelia Earhart 1897- 1937

Il sogno di Amelia era troppo grande per l’epoca in cui lei viveva, e il mondo troppo piccolo per lei. Lei voleva volare.

A 20 anni per la prima volta era salita su un biplano, per soli 10 minuti. Ma tanto le era bastato per capire che la sua vita era lì, tra le nuvole e il cielo: «Quando raggiunsi la quota di due o trecento piedi, seppi che dovevo volare».

Così inizia a lavorare per potersi pagare le lezioni di volo, dopo un anno riesce ad acquistare il suo primo velivolo, e diventa sempre più brava. Talmente brava che nel 1928 è la prima donna ad attraversare l’Atlantico, oceano che nel 1931 trasvolerà in solitaria, arrivando in Irlanda dopo 14 ore di viaggio.

E poi diventa la prima donna ad attraversare l’Oceano Pacifico.
E poi avrebbe voluto fare il giro del mondo, ma nonostante una minuziosa preparazione, un primo tentativo finì male poco dopo la partenza.

Ci riprovò dopo qualche mese, perché non poteva farne a meno, la sua voglia di andare oltre non le lasciava scelta.
Così “la regina dell’aria” partì una seconda volta: da Miami arrivò in Sud America, poi in Africa, in India, nel sud-est asiatico e infine in Nuova Guinea.

Il viaggio era quasi finito, mancavano solo altri 11.000 chilometri di trasvolata sul Pacifico, prima di tornare a casa.

Ma Amelia Earhart e Fred Noonan, il suo navigatore, non tornarono mai a casa. L’aereo sparì misteriosamente, e i loro corpi non furono mai ritrovati.

Era il luglio 1937, e Amelia era una celebrità, una donna affermata e realizzata, una pioniera, una sognatrice. Una donna che aveva saputo superare tabù e stereotipi, ma aveva anche subito sulla sua pelle offese e discriminazioni.

E anche domande decisamente irritanti, che nessun giornalista avrebbe mai chiesto a un aviatore uomo: “Ma sa fare una torta?”,
Ma di cosa ci sorprendiamo, se a distanza di tanti anni, a Samantha Cristoforetti, pochi mesi fa hanno fatto praticamente le stesse domande?

Il centenario di Cristina Campo.

La pura poesia è geroglifica: decifrabile solo in chiave di destino
CRISTINA CAMPO, Fiaba e Mistero.

Cristina Campo, poetessa italiana che nasceva il 29 aprile 1923, fu misconosciuta in vita, tanto da essere nota soltanto ad esperti di cose letterarie quali Roberto Calasso, Alfredo Cattabiani e Elémire Zolla, con il quale convisse dal 1959.

Aveva un vero e proprio culto della bellezza e questa sua ricerca estetica trovò la guida in due autori, Simone Weil e Hugo von Hofmannsthal: “Poesia geroglifica e bellezza: inseparabili e indipendenti. Sentire la giustizia di un testo molto molto prima di averne compreso il significato, grazie a quel puro timbro che è solo del più nobile stile: il quale a sua volta nasce dalla giustizia. (…) 

Come nella natura, che è bella solo per necessità reale, così anche nell’arte la bellezza è un soprammercato: è il frutto inevitabile della necessità ideale”. Antimoderna e antiprogressista, con Zolla si dedicò allo studio dei mistici e si avvicinò a un cattolicesimo tradizionale, preconciliare, per aderire infine alla chiesa bizantino-ortodossa. 

Pubblicò soltanto una raccolta di versi, Passo d’addio, nel 1956 e si dedicò alla compilazione di un’antologia di ottanta potesse italiane che però non vide mai la luce. Numerose in compenso le sue traduzioni: Simone Weil naturalmente, ma anche Katherine Mansfield, Virginia Woolf, William Carlos Williams, John Donne.

Qui i seguito alcune sue poesie:

AMORE, OGGI IL TUO NOME

Amore, oggi il tuo nome 
al mio labbro è sfuggito 
come al piede l’ultimo gradino… 

ora è sparsa l’acqua della vita 
e tutta la lunga scala 
è da ricominciare. 

T’ho barattato, amore, con parole. 

Buio miele che odori 
dentro diafani vasi 
sotto mille e seicento anni di lava – 

ti riconoscerò dall’immortale 
silenzio.

“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”. Cristina Campo (1923-1977) fece della poesia un atto mistico, arrivando a cesellare le parole e i versi, addensandoli ma contemporaneamente rendendoli leggeri. L’amore è allora una distrazione che viene a sconvolgere la ricerca del divino, della bellezza, pur nel suo dolcissimo apparire.

ROBERT MOTHERWELL, “JE T’AIME”

QUADERNETTO

Un anno…Tratteneva la sua stella 
il cielo dell’Avvento. Sulla bocca 
senza febbre o paura la mia mano 
ti disegnava, oscura, una parola. 
E la sfera dell’anima e dell’anno 
vibrava in cima uno zampillo d’oro 
alto e sottile il sangue. 
Ne tremavamo 
sorridenti agli sguardi – all’accostarsi 
buio di quel guardiano incorruttibile 
che nei giardini chiude le fontane.

Capodanno ’53-’54

(da Passo d’addio, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956)

DOLCE OTTOBRE

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto nelle altane
dove sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

(da Passo d’addio, 1956)

LES TRÉS RICHES HEURES DU DUC DE BÉRRY, “OCTOBRE”

“Dolce ottobre” intitola Cristina Campo  la sua poesia. E la dolcezza è davvero la caratteristica di ottobre, sospeso tra i ricordi degli ultimi fuochi d’estate e la promessa delle prime nebbie. Un mese che divampa di colori e ridipinge i boschi e i giardini prima del lungo riposo invernale.

Il coraggio di Rosaria Schifani!

Rosaria Schifani

Indimenticabile.
Vi ricordate quel momento?
Rosaria Costa Schifani al funerale del marito (agente di scorta del giudice Falcone) e delle altre vittime della strage di Capaci.
Lei, Rosaria Schifani, capace di nominare i due ordini simbolici: quello gretto delle formule e dell’astrazione e quello vivo, dell’esperienza e della realtà.
Lei che leggeva il discorso scritto e che lo commentava con gli occhi, con le espressioni, con le sue parole, sotto lo sguardo impaurito del prete che suggeriva e cercava di arginare la sua forza, la sua meraviglia, la sua potenza.
“Io vi perdono però voi vi dovete inginocchiare”.

Sono passati 31 anni.
La foto è della grande Letizia Battaglia

“Rewind” di Gabriella Cortese.

Io che di fronte ad un errore
vorrei che la vita avesse il tasto REWIND
invece la vita non ha quel tasto
la vita va avanti comunque…
e suona che tu lo voglia o no
puoi solo alzare o abbassare il volume
e devi ballare
meglio che puoi…
però in qualche modo
adesso ne ho meno paura…

Kathrine Switzer: la prima donna a correre una maratona.

Kathrine Switzer

Nella Boston degli anni ’60 la maratona non era considerata ” cosa da donne”, tanto che vi era un espresso divieto di partecipazione. Come spesso accade, però, questo preconcetto era destinato ad essere scardinato e l’artefice del cambiamento si chiama Kathrine Switzer.

Era il 1967 e il pettorale 261 era stato assegnato a “K.V. Switzer”. Nel modulo di iscrizione non era richiesto di specificare il sesso, era considerato scontato che i partecipanti fossero tutti maschi.

Alla partenza, tuttavia, c’era una ragazza di vent’anni di origine tedesca: Kathrine Switzer. Gli organizzatori, avvedutisi della situazione, reagirono con violenza. Poco dopo la partenza il direttore di gara, Jock Semple, aggredì Kathrine, la strattonò, cercò di strapparle il pettorale e le intimò: “Esci dalla mia corsa e dammi quei numeri!”.

Il compagno di squadra della Switzer, Arnie Briggs, corse in suo soccorso, ma non riuscì a bloccare Semple, che infine venne letteralmente abbattuto dal fidanzato della ragazza, Tom Miller, ex giocatore di football e lanciatore del martello. Katherine riuscì così a continuare la maratona, portandola a termine 4 ore e 20 minuti.

Il comportamento aggressivo degli organizzatori – come spesso accade con certe reazioni assurde e spropositate – determinò un risultato molto diverso da quello che avrebbe voluto Semple.

Lo strattone di Semple

L’ondata di indignazione che ne scaturì portò infatti all’apertura della maratona di Boston alle donne nel 1972.

L’anno precedente ciò era già accaduto a New York e fu proprio nella Grande Mela che Kathrine Switzer tagliò per prima il traguardo nel 1974.

Da allora la Switzer è diventata un’attivista e un vessillo dei diritti delle donne nelle maratone di tutto il mondo.

Il 17 aprile 2017, cinquant’anni dopo la sua prima, storica gara, l’atleta ha corso nuovamente a Boston, indossando ancora il pettorale 261. Questo numero, ormai diventato un simbolo, è stato ritirato dalle competizioni in onore di Kathrine.

Come nasce la festa della Mamma?

La festa dalla Mamma nasce così.
Da due donne: una madre e una figlia.
Lei è Ann Reeves Jarvis. Nella seconda metà dell’Ottocento, Ann si dedica a sconfiggere la mortalità infantile nelle campagne. E dopo la Guerra civile americana, comincia ad organizzare incontri e picnic per far incontrare madri che appartenevano a schieramenti che erano stati nemici negli anni della guerra tra Nordisti e Sudisti.

Scrive “Spero e prego che qualcuno, prima o poi, possa intitolare un giorno di festa alla mamma, giorno che possa commemorarla per il servizio impareggiabile che ella rende all’umanità in ogni campo della vita. Ha diritto a questo”.

Sarà proprio sua figlia Anna Jarvis, il 10 maggio del 1908 a realizzare il sogno della madre.
Quel giorno lei organizza nella sua città natale, Grafton, ma anche a Philadelphia e in molte altre città, eventi dedicati alle madri.

Nel 1914, dato il successo dell’iniziativa, il presidente americano Woodrow Wilson ufficializza la festa.

La Festa della Mamma si festeggia il 9 maggio negli Stati Uniti perché Ann Jarvis muore il 9 maggio 1905.
La figlia si è battuta per anni contro lo sfruttamento commerciale della festa, che riteneva contraddire lo spirito iniziale dell’idea di sua madre.

Ecco perché celebrare queste due donne proprio oggi.

Uno stralcio di un’ intervista di John Gerassi a Simone de Beauvoir.

” Una femminista si definisca di sinistra o no è di sinistra per definizione. Lei si batte per la piena uguaglianza, per il diritto di essere importante quanto qualsiasi uomo. É annessa, quindi, alla sua rivolta per l’uguaglianza di genere la rivendicazione dell’uguaglianza di classe.
… Così la lotta dei sessi comprende la lotta di classe, ma la lotta di classe non comprende la lotta dei sessi. Le femministe sono pertanto autenticamente di sinistra. In realtà, esse sono a sinistra di quella che chiamiamo tradizionalmente la sinistra politica.

Le altre sono conservatrici, nel senso che vogliono preservare ciò che è stato o quello che è. Le donne di destra non vogliono la rivoluzione. Sono madri, mogli, devote ai loro uomini.

E quando sono agitatrici, ciò che vogliono è spartirsi un pezzo di torta. Esse vogliono salari più alti, scegliere donne nei parlamenti, vedere una donna diventare presidente.

Fondamentalmente, esse credono nella disuguaglianza, con la differenza che vogliono essere in cima e non sotto. Si adattano bene al sistema o con piccole modifiche per soddisfare meglio le loro esigenze. Il capitalismo sicuramente si può permettere il lusso di acconsentire a che le donne entrino nell’ esercito o in polizia.
Cambiare, però, l’intero sistema di valore di ogni società, disfare il concetto di maternità: questo è rivoluzionario”.

Stralcio di un’intervista di John Gerassi a Simone de Beauvoir del 1976

Simone🌹 9 gennaio 1908 – 14 aprile 1986