Rosalia de Castro, la malinconia gallega.

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Se nell’Ottocento Amherst, nel Massachusetts, ha la sua voce solitaria ed appartata in Emily Dickinson, prezioso dono maturato nell’isolamento e nel silenzio, in quegli stessi anni in Spagna, in Galizia, Padron ha il suo canto nella voce profonda e intensa di Rosalia de Castro.

Ho avuto la fortuna di visitare la sua casa-museo a Padron, una città ricca di storia e di testimonianze poetiche della letteratura gallega, che è anche l’ultima tappa del Cammino Portoghese che conduce a Santiago di Compostela.
Rosalia de Castro nasce nel 1837 a Camino Novo, un sobborgo di Santiago di Compostela, sette anni dopo Emily Dickinson ed è la figlia illegittima di un sacerdote e di una ragazza nubile di nobile famiglia.
Lo scandalo della sua nascita segnerà profondamente gli anni della sua infanzia, facendola sentire dolorosamente non conforme ai dettami della società del tempo. La sua vita è difficile, caratterizzata da stenti e difficoltà, ma segnata fin dall’inizio da un amore inestinguibile per la poesia.

Si sposa con lo storico giornalista Manuel Murguia, ha sette figli, di cui gli ultimi due muoiono, uno ad appena un anno e l’altra alla nascita. Scompare a quarantasette anni per un tumore all’utero.
Eppure, questa donna povera e tormentata, è riuscita con la sua opera ricca e complessa a riabilitare la lingua gallega, riannodando quel filo interrotto con gli antichi cantori del XIII e XIV secolo, dopo che per secoli era stata sminuita in favore del catalano e del castigliano.
La forza creativa della sua poesia, la sua capacità di vibrare in consonanza col suo popolo cantandone le fatiche, il dramma della povertà e dell’emigrazione, fanno di lei un riferimento potente soprattutto dal punto di vista identitario. È un magnifico destino per un poeta identificarsi con il suo popolo, fino a confondersi con esso: Rosalia de Castro è diventata emblema di quello gallego, offrendo il suo volto per rappresentare la Galizia stessa al punto da essere effigiata sulle banconote spagnole da cinquecento pesetas.
A Padron, i suoi compaesani emigrati in Uruguay hanno voluto dedicarle una statua in segno di gratitudine.
Rosalia de Castro però non è soltanto la voce del suo popolo, è anche colei che sa dialogare con l’ombra, con la saudade profondamente inscritta nei geni della poesia gallego-portoghese, quella combinazione unica di malinconia e nostalgia, di solitudine e senso tragico del commiato. Nessuno come lei può dirsi più affine alla sua terra estrema che si affaccia all’Oceano, immersa nella contemplazione metafisica del Nulla.

 

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Visitare la sua casa-museo mi ha fatto riflettere  sulla vita e sulla parola di questa donna che, pur conducendo un’esistenza impervia, all’insegna della diversità e votata ad un destino di solitudine interiore, è riuscita a innalzare il suo canto, teso in un anelito verso l’Assoluto.
Rosalia de Castro esprime nel suo temperamento malinconico e lirico il genius loci della sua terra, terra di horreos, i tradizionali granai galiziani, di ortensie blu, di boschi e di nebbie, di stregoneria e di mistero. L’atmosfera atlantica evocata dalla sua poesia è la dimensione tragica e fatale di Ananke, la dea del Destino e della Necessità.

L’Oceano per l’anima gallega è tutto, le sue onde sono dispensatrici di vita e di morte. Indicative di questo profondo amore sono le ultime parole che Rosalia de Castro pronunciò prima di morire “Aprite la finestra, che voglio vedere il Mare.” dipinte sul muro della sua camera.
Ma Rosalia non è solo poeta dell’ombra e della malinconia, è anche un’antesignana dei diritti per le donne, per la cui emancipazione si battè strenuamente. Fu sempre in prima linea nella difesa dei diritti civili e umani. Il suo impegno e la sua ricerca poetica l’accompagnarono per tutta l’esistenza, rendendola testimone preziosa del suo popolo e della sua terra. Per questo oggi la sua voce si fa sempre più nitida e forte, faro luminoso della poesia gallega, ancora così poco conosciuta in Europa e nel mondo.