Isabella d’Este, donna dalle mille sfaccettature.

Tiziano ~ Ritratto di Isabella d’Este, 1534- 1536

Quando Tiziano la ritrasse nel 1534, lei aveva già varcato la soglia dei sessant’anni, età che nel XVI secolo era considerata avanzata.

L’antica bellezza di Isabella d’Este, vedova del marchese di Mantova Francesco I Gonzaga, era ormai diventata un ricordo, tanto che il sempre caustico Pietro Aretino la definì “disonestamente brutta e arcidisonestamente imbellettata”.

Pur ammettendo che esagerasse, come spesso gli capitava, di certo Isabella col passare del tempo era ingrassata, i denti le si erano guastati e dimostrava più degli anni che aveva, a dispetto del trucco.

Ma la sua proverbiale coquetterie era quella di sempre, la “regina del gusto” era ancora lei e, di conseguenza, non meraviglia il fatto che abbia voluto commissionare al più famoso ritrattista di quei tempi un’opera che la raffigurasse negli anni dello splendore giovanile.

Così Tiziano, lavorando “da remoto”, sulla base di un vecchio ritratto eseguito da Francesco Francia, evidenziò il prestigioso status sociale della marchesa, mostrandocela con indosso un’elegante veste dalle maniche ornate di finissime guarnizioni in oro e argento, sovrastata da una stola di pelliccia, coi bei capelli ricci che fuoriescono da un sontuoso turbante in stile moresco.

Questa straordinaria figura d’intellettuale al femminile, che fece di Mantova una delle più raffinate corti dell’Italia rinascimentale, nacque a Ferrara il 17 maggio del 1474 come figlia primogenita del duca Ercole I d’Este e di Eleonora d’Aragona.

Fin da bambina fu circondata da cose belle e preziose, ed apprese il gusto per i viaggi che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, seguendo la mamma a Venezia, Napoli e in molte altre città.

A soli sei anni fu promessa in sposa al quindicenne Francesco Gonzaga, erede del confinante Marchesato di Mantova, per rinsaldare i già stretti vincoli parentali intercorrenti fra due Stati che avevano tutto l’interesse a fare fronte comune per mantenere la loro fragile indipendenza, in anni in cui le due super-potenze dell’epoca (Impero e Regno di Francia) si sfidavano sul tavolo di un’Italia mai tanto divisa.

E pazienza se Francesco, oltre ad essere brutto poco istruito, si trovava più a suo agio in compagnia dei soldati che alla feste di corte.

Amante della caccia e della “ars bellica”, concepiva le donne come il meritato “riposo del guerriero”, prediligendo fra di esse quante non lo torturassero con capricci e astruse discussioni culturali, ma arrivassero subito al dunque.

Fu uno dei pochi uomini a non subire il fascino di sua moglie, preferendole una serie di amanti di modeste pretese e ancor minore istruzione, che alla fine gli portarono in dote il “mal francese” che l’avrebbe condotto alla tomba.

Isabella tuttavia, provenendo da una città dove a sua volta ne aveva viste di tutti i colori, non se ne ebbe mai a male. Refrattaria alla gelosia, si sentì addirittura sollevata dal fatto che quel marito tanto diverso da lei, col quale però aveva concepito nove figli, cercasse sollievo altrove, lasciandola in pace.

Sebbene le occasioni non le mancassero, Isabella gli rimase sempre fedele anche perché gli uomini le interessavano poco e di essi le bastava la galante adorazione cui rispondeva solo con mezze frasi, delicatezze, ammiccamenti, letterine e regalucci vari, ricevendo però in cambio favori e doni di ben altro valore.

Così Ludovico Ariosto, Bernardo Tasso, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione per lei scrissero gratis, come ancora una volta gratis il più famoso editore di quegli anni, Aldo Manuzio, le inviò i suoi libri più costosi.

Piangendo miseria, riuscì a procurarsi per pochi spiccioli un capolavoro del maestro fiammingo Van Eyck, il “Passaggio del Mar Rosso”, e sempre a causa della sua tirchieria innumerevoli furono gli screzi che la videro opposta ad Andrea Mantegna, pittore della corte gonzaghesca.

Ma a lei, Marchesa di Mantova e Signora del Rinascimento, tutto era permesso perché, durante le lunghe assenze del marito spesso impegnato in condotte militari, era proprio lei a reggere le sorti dello Stato, facendolo bene perché trattava alla pari con papi, re, imperatori, diplomatici ed alti prelati all’unico scopo di garantire l’indipendenza ed il benessere dei propri domini.

Il consorte, pur in privato sparlando della moglie e lamentandosi della sua eccessiva indipendenza, non poteva però farne a meno, tanto più che fu lei ancora una volta a cavarlo d’impiccio, traendolo fuori dalla prigione veneziana dov’è era stato rinchiuso dopo essere caduto in un’imboscata.

Nella scelta del suo motto personale “Nec spe, nec metu” (“Né con speranza, né con timore”) Isabella volle riassumere la filosofia di una vita trascorsa all’insegna dell’oraziana “aurea mediocritas”, qui intesa nel senso etimologico di “giusta via di mezzo”, che le consentì sempre d’affrontare con misura e sopportazione gli alti e bassi della vita, senza perdersi d’animo o esaltarsi, ma cercando piuttosto di governare per quanto possibile il corso degli eventi.

Rimasta vedova nel 1519, trascorse il resto dei suoi anni fra il bellissimo studiolo che si era fatta costruire nel Palazzo Ducale di Mantova e i viaggi che tanto amava, riuscendo a scampare indenne al terribile sacco di Roma del 1527 perché suo figlio Ferrante, uno dei comandanti dei Lanzichenecchi, la protesse da quelle furie scatenate.

Spirò a 65 anni e fu sepolta nella chiesa di Santa Paola a Mantova, dove una lastra tombale la ricorda ancora come “virili animo foemina” facendole un gran torto perché tutto ciò che fece fu all’insegna della sua raffinata femminilità.

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