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Meena Keshwar Kamal e la forza delle donne afghane.

Meena Keshwar Kamal, autrice della poesia “Mai più tornerò sui miei passi“, fu uccisa a soli 31 anni dagli agenti della polizia segreta afghana e dai loro complici fondamentalisti a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio del 1987.

Era un’attivista impegnata nella difesa dei diritti delle donne afghane. Il movimento femminista Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan” (RAWA) che ha fondato ed è ancora oggi un punto di riferimento per il femminismo asiatico.

Un gruppo organizzato per promuovere l’uguaglianza e l’istruzione per le donne. Meena e le sue compagne si riunivano in clandestinità, infondendo fiducia e coraggio alle donne, insegnando loro tutti i modi possibili per diminuire la dipendenza dagli uomini e incoraggiandole a sfidare le regole patriarcali.

Nel 1979 protestò apertamente contro quello che chiamò il governo fantoccio russo che controllava l’Afghanistan e organizzò incontri nelle scuole per mobilitare il sostegno contro quel governo. Due anni dopo fondò una rivista bilingue, in persiano e in pashtun, chiamata Payam-e-Zan, ovvero “Messaggio alle donne”, che spiegava la necessità di opporsi al fondamentalismo talebano.

Pochi mesi dopo, nel marzo del 1982, Meena partecipò a Milano al 19° Congresso del PSDI come rappresentante della resistenza afghana contro l’invasione sovietica. Quando la sua voce cominciò a farsi sentire, le repressioni contro la RAWA aumentarono e l’organizzazione dovette spostare la sua sede in Pakistan.

Lì, nel campo profughi di Quetta, c’erano centinaia di afghani che erano fuggiti dal conflitto bellico del paese. Così, Meena decise di fondare la scuola Watan, “patria” in lingua farsi, che si rivolgeva a bambini e donne dei campi che non avevano avuto alcuna istruzione o formazione professionale. La scuola accolse 500 ragazzi e 250 ragazze, una grande vittoria per Meena che allo stesso tempo stava organizzando una raccolta fondi internazionale per la costruzione di un ospedale.  

“Le donne afgane sono come leonesse addormentate, una volta sveglie possono svolgere un ruolo meraviglioso in qualsiasi rivoluzione sociale” Meena Keshwar Kamal.

Con il passare del tempo le sue parole, le sue idee e le sue azioni prendevano sempre più forza e seguito, e questo per molti era diventato un problema. Meena sapeva che la sua vita era in pericolo, ma comunque sia non smise mai di lottare.

Fu uccisa da degli agenti della polizia segreta afghana o dai loro complici fondamentalisti a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio del 1987. Aveva 31 anni. Quel giorno hanno ucciso il suo corpo, ma non le sue idee né la sua lotta. La RAWA continua ancora oggi a battersi per dare voce e speranza alle afghane e al suo popolo, preparando il ruggito delle leonesse.

Meena era anche una poetessa, questi i versi della sua poesia più conosciuta.

Mai più tornerò sui miei passi…

Sono una donna che si è destata

Mi sono alzata e sono diventata una tempesta

che soffia sulle ceneri

dei miei bambini bruciati

Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata

L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza

I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,

Sono una donna che si è destata,

La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.

Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto

Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro

Oh compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono una donna che si è destata.

La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.

Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa

Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto

Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà

nel loro insaziabile stomaco

sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio

La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei flutti di sangue e nella vittoria

Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace

Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.

La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate

I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti

Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,

Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero

sono una donna che si è destata

Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Otto Marzo!

Tutti i giorni.

Mandando un mare d’amore, comprensione, forza, autenticità, capacità di desiderare a tutte le bambine e alle giovani donne là fuori che cercano di essere se stesse in un mondo che sta costantemente dicendo loro di non farlo.

Tutti i giorni e non solo oggi #8marzo

La foto è della straordinaria Kate T. Parker Photography

Voglia di cinema: “La vita delle donne”.

Fotografia di Filippo Ilderico

The Hours è un film del 2002 diretto da Stephen Daldry e interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman, che per questa interpretazione ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista nel ruolo di Virginia Woolf.

Nel 1923 in Inghilterra, una Virginia Woolf (Nicole Kidman) annoiata dalla troppo tranquilla vita di campagna comincia a scrivere il suo celebre romanzo Mrs. Dalloway.

Nel 1951 a Los Angeles, Laura Brown (Julianne Moore) incinta del secondo figlio scopre di non voler essere madre mentre prepara una festa di compleanno per il devoto marito.

Nel 2001 a New York, Clarissa Vaughn (Meryl Streep) cerca di salvare l’amico poeta Richard malato di AIDS organizzando una festa in suo onore.

Le storie di queste tre donne si intrecciano continuamente e le parole di Virginia Woolf, man mano che scrive, sembrano cambiare le sorti delle due signore Dalloway nel futuro. 

Dietro suggerimento dei medici, Virginia è costretta a vivere nella campagna inglese col marito Leonard a causa della sua instabilità mentale, mentre lei vorrebbe tornare nella capitale per stare in mezzo alla gente. È forse da questo desiderio che prende spunto per il suo romanzo; l’intera vita di una donna viene raccolta in un unico giorno, mentre organizza una festa nella grande città. 

Alienata dalla routine monotona e grigia che vive fuori Londra, la scrittrice tenta in tutti i modi di tornarci, con un treno o col pensiero, convinta che lì risieda la sua felicità.

Laura Brown è moglie, madre e casalinga in attesa del secondo figlio. Sembra avere tutto quello che una donna di quell’epoca può desiderare per se stessa, eppure è infelice e incapace di amare la propria famiglia. Il giorno del compleanno del marito decide di preparare una torta insieme al figlio di pochi anni, Richard. I programmi della giornata vengono interrotti della visita dell’amica Kitty, che le confessa di essere sterile e quindi di non poter avere un bambino: l’unica cosa che voleva veramente è anche l’unica che non è in grado di fare.

È in questo momento che Laura capisce di non essere nata per essere madre. Lei non ha mai provato il desiderio di maternità che prova Kitty e il fatto di essere madre non l’ha mai fatta sentire più donna o più completa, mentre, al contrario, l’amica dichiara che a suo parere, non ci si può definire donna finché non si diventa madre.

Durante la giornata la sua mente vaga e, leggendo il romanzo della scrittrice inglese, pensa in un primo momento al suicidio, ma cambia infine idea decidendo di aspettare fino alla nascita del secondo figlio per abbandonare la sua famiglia per sempre. 

Clarissa Vaughn vuole organizzare una festa per l’ex amante ed amico poeta malato di AIDS che ha recentemente vinto un premio prestigioso per le sue opere. Anche in questo caso la donna inizia la sua giornata tentando di essere positiva e fiduciosa, ma una prima breve visita al poeta mette in discussione il suo umore.

L’amico dichiara di essere stato vivo per lei fin troppi anni e che doveva lasciarlo andare. Queste parole tortureranno Clarissa durante tutta la giornata e la preparazione della festa. È davvero lui ad essere sopravvissuto per lei o, forse, il contrario?

Tutte e tre queste donne sono rimaste vive per qualcun altro e hanno cominciato le loro giornate mascherandosi da persone felici per qualcun altro; Virginia Woolf, alla fine del film, e le altre due, alla fine di questa giornata particolare, si saranno liberate dei loro pesi.

La prima si toglie la vita per donare speranza al marito a cui scrive nella lettera d’addio: “so che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti”. La seconda, Laura, non riesce a suicidarsi con un bimbo in grembo e per questo aspetterà di partorirlo per andarsene e non tornare mai più. La terza, Clarissa dovrà essere salvata da qualcun altro che si sacrificherà per lei, liberandola dal senso di colpa. 

Virginia, Laura e Clarissa appartengono a tre epoche e tre vite completamente diverse: un’artista, una casalinga e un’editrice. La prima non ha figli; la seconda li ha, ma non li vuole; la terza ha voluto una figlia tanto ardentemente da sottoporsi all’inseminazione artificiale per averla.

Non è la maternità o l’amore ad accomunare queste donne; è più che altro il senso di costrizione e di dovere nei confronti dei più cari. Da un marito sfinito, a un figlio indesiderato, a un amico in fin di vita. Le donne di questo film donano parte della propria vita a qualcun altro, forse più che per amore, per compassione.

Il film propone un’importante riflessione sulla figura femminile, presentando tre personaggi completamente diversi tra loro che vivono in tre epoche distanti. Oltre al genere biologico, c’è poco altro che accomuna queste donne: Virginia è sfrontata, testarda e orgogliosa; Laura è confusa e indecisa; Clarissa è affettuosa ed emotiva. La domanda che sorge spontanea è: la compassione provata da queste donne è un fattore comune legato al sesso, al carattere o forse più al genere femminile come concepito dalla società

Bertha von Suttner, l’ispiratrice del Nobel per la pace.

Bertha von
Bertha von Suttner

Bertha von Suttner non solo fu la prima donna a essere insignita, nel 1905, del premio Nobel per la pace, ma ne fu anche l’ispiratrice.

Il suo operato nel campo del pacifismo non passò, infatti, inosservato all’amico e collaboratore Alfred Nobel, che la prese come punto di riferimento per la nascita di quel riconoscimento così prestigioso.

Nel 1885 la venticinquenne baronessa boema Bertha von Wchinitz sposa, contro il volere della famiglia, l’ingegnere von Suttner e decide di lasciare la propria patria che percepiva così duramente conservatrice.

Nel 1887 viene pubblicato il suo capolavoro “Giù le armi!” tradotto in oltre 20 lingue e divenuto uno dei libri più letti del XIX secolo. Il frutto più maturo di riflessioni e studi lunghi anni, di contatti epistolari con gli esponenti del pacifismo occidentale e di esperienze vissute durante la lontananza da casa.

Da qui in avanti l’attività di Bertha si intensifica sensibilmente: nel 1891 fonda la Società pacifista austriaca e nel 1899 consegna al mondo il suo attualissimo “L’era delle macchine” in cui, a discapito di un’Europa pienamente inserita nel clima positivista, denuncia la spinta sempre più violenta dei nazionalismi e la preoccupante corsa agli armamenti. E sarà lei, per prima, a istituire un sodalizio tra femminismo e pacifismo: le donne sarebbero più propense alle tematiche antimilitariste.

Dopo il Nobel Suttner assiste impotente al tracollo della situazione politica. Il precario equilibrio su cui si basava la pace europea si stava dissolvendo sotto il peso di quei pericoli che lei stessa aveva denunciato.

Nel 1912 esce la sua ultima opera, “L’imbarbarimento dell’aria”, nel quale auspica la creazione di un’unione degli stati europei, unico vero scudo contro la catastrofe dei conflitti armati.  

Bertha muore il 21 giugno 1914 e non vedrà consumarsi il dramma della Prima guerra mondiale. Un conflitto che aveva previsto e per il quale aveva fornito quelle soluzioni adottate solo decenni e milioni di vittime dopo.

“La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore tra le sciagure”.
Bertha Von Suttner

Fonte: iStorica

“La pergamena della seduzione”di Gioconda Belli, un romanzo tra storia e invenzione.

La pergamena della seduzione unisce sapientemente una precisa ricostruzione storica della vita di Giovanna la Pazza con una vicenda ambientata negli anni sessanta.

Lucia ha 17 anni, è orfana ed è stata mandata a Madrid a studiare in un collegio di monache. Conosce casualmente un professore quarantenne, appartenente a un’antica famiglia nobiliare. Questi è ossessionato dalla figura di Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, andata giovanissima in sposa a Filippo il Bello. Manuel convince Lucia a indossare antichi abiti, simili a quelli che indossava Giovanna e, raccontandole la vera storia di questa principessa, la fa entrare pian piano nella psicologia della stessa e le fa rivivere il suo passato. Quello che nasce quasi come gioco si rivela un percorso complicato, che coinvolge Lucia e ne stravolge la vita.

L’aspetto più interessante del romanzo è la revisione storica della vicenda di Giovanna, ingiustamente rimasta nei libri di storia come “la pazza”. In realtà, come molti storici hanno confermato, lei era una donna passionale, colta, indipendente, schiacciata dalle ambizioni del marito e da quelle del padre. Tradita da tutti, madre, padre, marito, figli, viene rinchiusa per quarantasei anni, sino alla morte, in una fortezza, senza alcun contatto con il mondo esterno.

Dice l’autrice “qualsiasi donna con la piena coscienza di sè, messa davanti agli arbitri e ai soprusi che ha dovuto affrontare, si sarebbe almeno depressa. E la depressione anche cronica non ha nulla a che fare con la schizofrenia“.

Mi ha avvinto la storia di questa donna, tanto da invogliarmi ad approfondire la sua vicenda umana. Meno riuscita e un po’ morbosa, invece, la relazione tra Lucia e Manuel. Molto abile la scrittrice nell’analizzare la psicologia femminile e gli aspetti dell’innamoramento.

Un romanzo avvincente, ben scritto.

Oltre al libro mi ha conquistato la vita dell’autrice.

Gioconda Belli è giornalista, poetessa e scrittrice. La sua vita è come un romanzo.

Nasce nel 1948 in Nicaragua, in una famiglia di origine italiana, emigrata in Sudamerica per lavorare alla costruzione del canale di Panama. Seconda di 5 figli, Gioconda vive in una famiglie benestante, per cui può studiare e perfezionarsi sia in Spagna che in America. Si diploma in giornalismo a Filadelfia. A 18 anni si sposa con una cerimonia sfarzosa, nasce la prima figlia, Maryam, e Gioconda si comporta come una disincantata signora borghese. 

L’incontro con un uomo che chiama “il Poeta”, di cui diviene l’amante, l’introduce nel movimento del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale: conduce una doppia vita, in apparenza tranquilla borghese, in sostanza rivoluzionaria. Nel 1970 pubblica una raccolta di poesie, in cui esprime le proprie tensioni interne. Ha un’altra figlia, Melissa, si separa dal marito e s’innamora di un dirigente sandinista, Marcos (Eduardo Contrera Escobar), impegnandosi attivamente nel movimento.

Nel 1975 affida le figlie ai genitori e fugge in Messico, per evitare l’arresto. Si stabilisce in Costa Rica dal 1976, per decisione di Marcos, per organizzare i rifugiati. Marcos viene ucciso e per Gioconda è un grande dolore, anche se lui l’aveva abbandonata per un’altra donna. Divorzia dal marito e si fa raggiungere dalle figlie. Sposa il brasiliano Sergio de Castro, da cui ha un figlio, Camillo. Intensifica il proprio impegno politico, viaggiando molto per perorare la causa sandinista. 

Tornata in patria, nel 1979, in seguito alla vittoria del fronte sandinista ottiene cariche all’interno del governo rivoluzionario. Quando potrebbe vivere tranquillamente, s’innamora pazzamente del comandante Modesto, uno dei membri della Direzione Nazionale, e rompe il matrimonio, iniziando una relazione complessa. Divergenze con il partito spingono Gioconda a dimettersi dalle cariche e prendere un periodo di ripensamento. 

Nel 1984 incontra il giornalista americano Charlie Castaldi, che sposa nel 1987. Inizia una seconda vita, tra America e Nicaragua, dedicandosi prevalentemente alla letteratura. Ha un’altra figlia, Adriana. La raccolta di poesie La costola di Eva ottiene successo internazionale, così come il primo romanzo La donna abitata, pubblicato nel 1989. Seguono: Sofia dei presagi, Waslala, Il paese sotto la pelle, La pergamena della seduzione L’infinito nel palmo della mano.

Due cose che non ho deciso io hanno determinato la mia vita: il paese in cui sono nata e il sesso col quale sono venuta al mondo […] Non sono stata ribelle fin da piccola. Al contrario. Niente faceva presagire ai miei genitori che la creatura ammodo, dolce e garbata, delle mie fotografie infantili si sarebbe trasformata nella donna rivoluzionaria che tolse loro il sonno. […] Sono stata due donne e ho vissuto due vite. Una delle due donne voleva far tutto secondo i canoni classici della femminilità: sposarsi, fare figli, nutrirli, essere docile e compiacente. L’altra aspirava ai privilegi maschili: sentirsi indipendente, essere considerata per se stessa, avere una vita pubblica, la possibilità di muoversi, amanti. Ho consumato gran parte della vita alla ricerca di un equilibrio tra queste due donne, per unirne le forze, per non essere dilaniata dalle loro battaglie a morsi e graffi. Penso di avere ottenuto, alla fine che entrambe le donne coesistessero sotto la stessa pelle. Senza rinunciare a sentirmi donna, credo di essere riuscita a essere anche uomo“. ( da, Il paese sotto la pelle)

paola

A tutte noi Donne e donne libere!

Nei secoli ci hanno chiamate “streghe”, “befane” e in entrambe i casi ci hanno dato fuoco.

Quando alziamo lo sguardo oltre le pretese maschili ci ammazzano, fisicamente, economicamente, mediante tribunali patriarcali.

La verità è che le donne LIBERE, sia che volino su una scopa, o sulle ali della libertà, fanno paura.

Fanno paura le DONNE che imparano a VOLARE.

Paola

Ella Maillart, viaggiatrice dalle mille sfaccettature.

Ella e Annemarie

Esplorò in barca vela il Mediterraneo fino a quando, a 23 anni, abbandonò le regate e cominciò a viaggiare con la compagna Annemarie Schwarzenbach dall’Europa all’ Afghanistan .

Ella Maillart (1903-1997) era nata a Ginevra, padre commerciante di pellicce, uomo di vedute liberali e madre di origine danese, appassionata di sport. Da ragazzina si distinse nello sci, nella vela e fondò a 16 anni il primo circolo femminile di hockey su ghiaccio della Svizzera francese.

Era appassionata di mappe, avventure e viaggi in terre lontane e diventò una grande esploratrice, scrittrice e fotografa.

Nel 1932 attraversò da sola il Turkestan russo, vivendo con le tribù nomadi locali. Al suo ritorno raccontò il viaggio nel libro “Vagabonda nel Turkestan”.

Nel 1939, con la compagna Annemarie Schwarrzenbach, (un’anima fragile e tormentata in fuga da un matrimonio di facciata e con una dipendenza dalla morfina), inquieta scrittrice, fotografa e giornalista, viaggiò dalla Svizzera all’Afghanistan a bordo di una Ford. (Foto)

Si lasciarono a Kabul, proseguendo ciascuna per la propria strada.

Ella Maillart raccontò quell’avventura nel libro “La via crudele. Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul”, definendola “un viaggio più psicologico che geografico”.

Annemarie pubblicò “La via per Kabul, Turchia, Persia, Afghanistan 1939-40”; morì due anni dopo in Engadina poco più che trentenne, per le ferite dovute a una banale caduta da bicicletta

Negli anni successivi, Ella Maillart fece trekking per 8 mesi da Pechino lungo la Via della Seta, si trasferì in India durante la Seconda Guerra Mondiale, prendendo lezioni spirituali dai grandi maestri e a 91 anni intraprese l’ultimo viaggio della sua vita, fino a Goa.

Ella Maillart

Morì a Chandolin nel 1997 in Svizzera, all’età di 94 anni, dopo aver testimoniato con la sua vita che il corretto equilibrio si può trovare a contatto con le popolazioni semplici e primitive: i nomadi, i montanari, i marinai.

Le sono stati dedicati numerosi libri e il film “Ella Maillart: Double Journey” del 2015 che racconta le tappe salienti del viaggio in Afghanistan e India, documentato attraverso i diari, le fotografie e i filmati in 16mm.

Mary Wollstonecraft e la “Rivendicazione dei diritti della donna”.

Mary Wallstonecraft

“Le donne si trovano dovunque a vivere in questa deplorevole condizione: per difendere la loro innocenza, eufemismo per ignoranza, le si tiene ben lontane dalla verità e si impone loro un carattere artificioso, prima ancora che le loro facoltà intellettive si siano fortificate. Fin dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna e la mente quindi si modella sul corpo e si aggira nella sua gabbia dorata, contenta di adorarne la prigione. Gli uomini possono scegliere attività e occupazioni diverse che li tengono impegnati e concorrono inoltre a dare un carattere alla mente in formazione. Le donne invece costrette come sono di occuparsi di una cosa sola e a concentrarsi costantemente sulla parte più insignificante di se stesse, raramente riescono a guardare al di là di un successo di un’ora. Ma se il loro intelletto si emancipasse dalla schiavitù a cui le hanno ridotte l’orgoglio e la sensualità degli uomini, insieme al loro miope desiderio di potere immediato, simile a quello di dominio da parte dei tiranni, allora ci dovremmo sorprendere delle loro debolezze”.

“Istruite fin dall’infanzia che la bellezza è lo scettro della donna, il loro spirito prende la forma del loro corpo e viene chiuso in questo scrigno dorato, ed essa non fa che decorare la sua prigione “.

Mary Wollstonecraft da, “Rivendicazione dei diritti della donna”.

Mary Wollstonecraft, (Londra 1759 – Londra 1797) è stata la prima donna filosofa e scrittrice a porre con la “Rivendicazione dei diritti della donna”, un opuscolo pubblicato nel 1792, la questione dei diritti delle donne in maniera sistematica, precedendo di un secolo le lotte del femminismo in difesa e a sostegno di tali diritti.

Fu una donna libera, indipendente, madre single e poi moglie del filosofo William Godwin, precursore dell’anarchismo, vivranno in due case distinte, adiacenti.

Non ebbe però un’esistenza facile, la sua opera e lei stessa non ebbero mai molti riconoscimenti sino a quando non fu riscoperta dalle femministe del xx secolo (tra cui Virginia Woolf) che vedranno in lei una vera e propria pioniera nella rivendicazione dei diritti donne.

La sua vita sarà di breve durata poiché morirà di setticemia all’età di 37 anni dopo aver dato vita a Mary Shelley, futura autrice di Frankestein.

Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse”.

Guerra in Ucraina, uomini soli al comando. Dove sono le donne?

Summit dei vari uomini di potere!

In questa tragica e assurda guerra le donne non ci sono ai tavoli dove si decide il futuro mondiale.

Le abbiamo viste negli scantinati, abbracciate ai loro bambini, ripararsi dai missili che cadevano sulle loro case; le abbiamo seguite mentre erano in fuga sugli autobus salutare con le lacrime agli occhi i figli e i mariti che restavano a combattere; abbiamo partecipato al loro strazio quando si facevano spazio nelle stazioni ferroviarie nel tentativo di salire su un treno, verso una salvezza oltre confine.

Quando scoppia una guerra le donne se non possono arruolarsi e restare a combattere, scappano con quello che hanno di più caro: i loro figli. Possiamo solo immaginare il dolore di dovere abbandonare casa e affetti e affrontare un viaggio pieno di incognite con dei bambini da accudire.

Servono pannolini, cibo, acqua pulita e tante parole rassicuranti per i più piccoli costretti ad assistere a scene di distruzione e disperazione. Ė qualcosa di così doloroso che non vorremmo accadesse mai a chi amiamo e che dobbiamo proteggere.

Succede, invece, in tutte le guerre e sta accadendo anche in Ucraina. Tutte le mamme del mondo sognano per i loro figli una vita fatta di opportunità e traguardi ambiziosi che si possono raggiungere solo dove regna la pace, uno tra i beni più preziosi da conquistare e mantenere.

Lo dimostrano i tanti conflitti disseminati nel pianeta e spesso dimenticati dai media. Sono le donne con i loro piccoli quelle che pagano il prezzo più alto nelle zone di guerra, spesso vittime di stupri usati dagli eserciti come armi per umiliare il nemico.

In questa guerra in Ucraina non ci sono donne ai tavoli dei negoziati. Abbiamo visto delegazioni di soli uomini, capi di stato, generali, ministri, mediatori. Si susseguono solo volti maschili che parlano un linguaggio aspro.

A un certo punto Putin è apparso a sorpresa circondato da donne, tutte hostess dell’Aeroflot, la compagnia di bandiera russa, sedute a un tavolo senza più le distanze alle quali ci aveva abituato. Un’immagine non scelta a caso dal leader russo: quella di un uomo solo al comando che parlava rilassato a delle donne silenti e per forza ubbidenti, in ascolto del loro capo.

Ė preoccupante l’assenza di figure femminili nelle stanze dove si prendono decisioni in queste ore. Appare come una mosca bianca sul palcoscenico mondiale della guerra in Ucraina, Ursula von der Leyen, spesso scambiata come un’accompagnatrice nelle visite ufficiali, fatta sedere su divanetti a parte o smentita dai suoi stessi colleghi come è successo di recente quando ha annunciato che ci sarebbe stato l’ingresso dell’Ucraina nella Unione Europa.

Servono più donne in politica, perché per natura hanno una predisposizione alla cura e tendono a proteggere quello che viene messo nelle loro mani. Nelle donne non c’è la stessa forza distruttrice che prende il sopravvento quando a decidere sono solo uomini.

Lo abbiamo visto in più occasioni, anche durante la pandemia, con i paesi governati da donne che hanno avuto meno danni per il Covid.

Quando a governare sono solo uomini, senza il punto di vista femminile e l’apporto dell’ingegno femminile, l’umanità tutta perde. È triste vedere scene strazianti delle donne ucraine in fuga dalla guerra e a quelle costrette a vivere in campi profughi, sono quasi dieci milioni.

E insieme a loro non scordiamoci di quelle private dei loro diritti più elementari, come le afghane, alle quali i talebani continuano a negare l’istruzione, unica vera chiave per una donna di costruirsi un futuro indipendente.

Le guerre non sono mai la soluzione e chi esalta l ‘uso delle armi temo non abbia mai visto il loro effetto. Lasciano solo odio, fame e morte.

L’oblio nuoce alla conoscenza: la storia della scrittrice Fausta Cialente.

Fausta Cialente da giovane

Pochi sono gli intellettuali che, negli anni, si sono confrontati con la scrittura delle donne: esigue sono le figure femminili che vengono ricordate oggigiorno (Sibilla Aleramo, Alda Merini, Ada Negri, Matilde Serao: chi altro?), e questo accade perché la memoria delle loro parole è stata volutamente occultata e nascosta ai lettori, soprattutto perché le donne non venivano ritenute abbastanza capaci di saper scrivere come uno scrittore, non sufficientemente in grado di trasmettere le stesse sensazioni tramite le parole che utilizzavano.

Parliamo di una vera e propria subordinazione della scrittura femminile nei confronti di quella maschile sulla base di criteri canonici valsi per moltissimi anni: criteri basati sullo stile, sul pathos, sull’etica di un’opera. Le donne, secondo la maggior parte dei critici, non facevano parte della casta inarrivabile degli scrittori, ma semplicemente si dilettavano con dei romanzi d’amore, relegati ad un pubblico di bassa lega (anch’esso formato da donne, naturalmente!).

Nonostante i pregiudizi e le difficoltà che le scrittrici hanno dovuto affrontare per arrivare a possedere quella dignità che era stata loro negata, nel ‘900 sembra esserci una sorta di rivalsa, di riscatto: è proprio in questo secolo che alcuni dei più importanti personaggi letterari del tempo sono donne.

Donne che vendono milioni di copie dei loro libri, che diventano pilastri intellettuali del secolo breve, che si fanno portatrici di battaglie per rivendicare la loro libertà intellettuale diventando scrittrici affermate e agognate dagli editori più importanti: parliamo di personaggi come Sibilla Aleramo, Alba De Céspedes, Anna Banti e, soprattutto, Fausta Cialente. Figura decisamente poco studiata e conosciuta, Cialente rappresenta la donna-scrittrice che si crea da sé, un demiurgo muliebre che crede fermamente nella propria libertà letteraria ed intellettuale, decidendo quindi di affermarsi in una società che non è pronta ad accogliere le scrittrici per conferire loro la giusta considerazione e dignità artistica. 

Fausta Cialente (Cagliari 1898 ) nasce come scrittrice autodidatta, diventando in seguito una giornalista radiofonica durante il periodo della Resistenza (una delle esperienze più determinanti e centrali della sua vita), collaborando inoltre anche con vari giornali dell’epoca tra cui “L’Unità”, “Noi donne” e “Il contemporaneo”.

La sua è decisamente una formazione di tipo cosmopolita e multiculturale: si trasferisce ad Alessandria d’Egitto appena ventenne (passando per Cagliari, Trieste, Firenze, Milano), in seguito al suo matrimonio con Enrico Terni (compositore e agente di cambio), e partecipa alle vicende italiane come figura intellettuale attraverso il giornalismo e i suoi numerosi racconti. Malgrado tutto, Fausta, ovunque vada, si sente una straniera, senza radici né casa: la sua multiculturalità è contemporaneamente nomadismo, che la porta ad affrontare numerosi viaggi senza mai insediarsi completamente in nessun luogo, senza appartenere a nessuna terra. 

Nonostante non abbia una dimora che possa essere definita “sua”, Cialente continua a scrivere romanzi, racconti, sceneggiature cinematografiche.

Il riconoscimento più importante arriva nel 1976 col premio Strega, grazie al romanzo “Le quattro ragazze Wieselberger”, attraverso il quale Cialente racconta due storie: quella della sua famiglia, dunque una storia privata, che si intreccia con la storia collettiva coeva, quella della borghesia italiana di inizio ‘900, colpevole di aver innescato quella scintilla bellica che si sarebbe poi tramutata in conflitto mondiale.