Il libro del mese… “La vergogna” di Annie Ernaux

“Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri”.

Breve sinossi…

Romanzo dell’infanzia e dei suoi abissi, la vergogna ricostruisce con spietata lucidità una presa di consapevolezza: quella di una bambina di dodici anni testimone della “scena” spartiacque, rimasta a lungo indicibile, che le fa scoprire di colpo di essere dalla parte sbagliata della società. Inventariando i linguaggi, i riti e le norme che delimitavano il suo pensiero e la sua condotta di allora, Ernaux sprofonda nella memoria intima e collettiva – fatta di usanze, espressioni e modi di dire – e scompone l’habitat del mondo in cui era immersa: la scuola privata, i codici della religione cattolica, il culto della “buona educazione”, le leggi non scritte ma inviolabili della gerarchia sociale.

Come nessun altro, Annie Ernaux riesce a mettere a fuoco con bruciante distacco – da esemplare “etnologa di se stessa” – la più indifesa delle età, raccontando quel violento e reiterato sconcerto che è l’ingresso nella vita adulta. Da qui la Vergogna.

Ma che cos’è la vergogna? É un sentimento che sorge nel momento in cui si lascia l’infanzia e l’innocenza che appartiene a quel periodo della nostra vita.

Annie Ernaux

E quando succede? Nel caso di Annie Ernaux c’è un episodio ben preciso: un atto di violenza commesso dal padre verso la madre. Una domenica di giugno del 1952 è una data spartiacque nella vita di Annie Ernaux. Aveva dodici anni e si ritrovò ad assistere a una lite violenta tra i genitori, una scena “indicibile”, in cui il padre ebbe l’impulso di uccidere la madre.
Nasce così la “vergogna”, sensazione che la accompagnerà a lungo, separando la bambina che era prima di quella domenica dalla Annie del “dopo”. Nulla sarà più lo stesso, la vergogna le si incolla addosso qualunque cosa faccia. Non ne può parlare, non esistono parole per descrivere un episodio del genere, finché, a distanza di molti anni, decide di scriverne. E nel farlo, le sembra che la scena si ridimensioni, perché:

“Forse la narrazione, ogni narrazione, rende normale qualunque gesto, anche il più drammatico”.

Col suo linguaggio asciutto, spesso erroneamente definito algido e privo di sentimento, magnificamente reso dalla traduzione di Lorenzo Flabbi, la Ernaux tenta di reinserire l’accaduto nel suo contesto, in quel 1952 ormai lontano. Tra fotografie precedenti e successive a quella domenica, in cui cerca di individuare il tratto caratteristico della vergogna percepita, giornali dell’epoca, cartoline e altri, pochi, oggetti personali, l’autrice effettua una ricostruzione quasi chirurgica, lucida della sua vita di ragazzina.

“Quel che mi importa […] è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino inimmaginabile”.

È un viaggio a ritroso verso un mondo che non le appartiene più, verso regole di comportamento cui le sembrava naturale obbedire, verso una religiosità allora vissuta come necessaria, verso la scuola privata in cui, dopo quella domenica, si era sentita fuori posto.

“È la terra natale senza nome in cui, appena vi faccio ritorno, sono subito assalita da un torpore che mi sottrae ogni pensiero, pressoché ogni ricordo puntuale, come se fosse in procinto di inghiottirmi di nuovo”.

Era un paesino, il suo, in cui tutti si conoscevano e si tentava di mantenersi in equilibrio tra le domande fatte agli altri per estorcere informazioni sulla loro vita e l’esigenza di rendere inaccessibile la propria.
C’erano le ville dei ricchi e il quartiere come quello in cui viveva, abitato da persone che non si sognavano di mescolarsi a una classe sociale più elevata. La scuola privata consentiva una certa elasticità da questo punto di vista, sotto l’egida del cattolicesimo. Ma dopo quella terribile domenica, anche questo era stato spazzato via. La vergogna faceva sentire Annie indegna di quella comunità.

“Nella vergogna c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore”.

perché

“La vergogna non è altro che ripetizione e accumulo”.

Anche in altre opere, come Il Posto, si avverte questa sensazione, la vergogna nei confronti della famiglia, del lavoro dei suoi, della stanza in cui vivevano sopra la bottega, con la cucina nel retro, sempre esposti allo sguardo dei clienti.
Qui l’incursione nel passato accentua il distacco dalla Annie scrittrice, che espone al pubblico quello che dovrebbe restare privato.

“Mettere a nudo le regole del mondo dei miei dodici anni mi restituisce per qualche istante l’inafferrabile pesantezza, la sensazione di chiusura che avverto nei sogni. Le parole che ritrovo sono opache, rocce impossibili da smuovere. Prive di immagini precise. Prive persino di senso”.

Significativo, da questo punto di vista, il motto scelto dall’autrice:

“Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo”.
(Paul Auster, L’elogio della solitudine)

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