Categoria: donne

“Shoshana” il film che racconta la Palestina degli anni Trenta  attraverso la storia di una donna ebrea.

La cover della pellicola.

La storia della protagonista del film, progressista e femminista, è ispirata a quella della figlia di Ber Borochov, tra i teorici del sionismo socialista, ‘convinto che arabi e israeliani potessero convivere in Palestina’.

L’ultimo film di Michael Winterbottom,  che si intitola  Shoshana, è stato presentato in prima mondiale a Toronto, ed è un thriller politico che racconta una vera storia avvenuta nella Palestina occupata dagli inglesi negli anni Trenta, prima della nascita di Israele, e che “affronta il modo in cui l’estremismo politico e la violenza creino una separazione tra le persone costringendole a scegliere da che parte stare”.

Le vie del cinema sono imperscrutabili: il film del regista inglese esce nel pieno della attuale fase dell’interminabile guerra tra Israele e i suoi nemici, scatenata dall’attacco di Hamas di oltre 8 mesi fa. Il tempismo può apparire sospetto, vista la inusuale prospettiva storica prescelta, ma in realtà il progetto di questo film risale – sembra – al 2007, anno in cui il cineasta aveva partecipato al Jerusalem Film Festival.
Si tratta, in ogni caso, di una uscita nelle sale (dal 27 giugno con Vision Distribution) quanto mai opportuna per fare chiarezza sulle origini di tanto odio e distruzione generati dal secolare dramma dell’ebraismo. 


La vicenda, infatti, è collocata nella Palestina sottoposta al mandato britannico, una sorta di protettorato che gli inglesi si attribuirono nello scacchiere del colonialismo internazionale sulla base della “Dichiarazione Balfour”, dal nome del ministro degli esteri di Sua Maestà che – nel pieno della I guerra mondiale, combattuta contro gli Imperi centrali tra cui quello Ottomano – si era impegnato ad assicurare agli ebrei un “focolare nazionale”, ovvero una patria dove raccogliere la diaspora millenaria del popolo di Jahvè.

Questo progetto, volto a realizzare le aspirazioni del sionismo, suscita l’entusiasmo e la voglia di partecipazione alla costruzione dello Stato d’Israele in tanti giovani provenienti soprattutto dall’Europa centro-orientale: tra questi la protagonista Shoshana (Irina Starshenbaum), una giovane giornalista ucraina di famiglia progressista, che si trasferisce nella sempre moderna Tel Aviv.

Qui Shoshana frequenta attivisti e intellettuali ebrei come lei, con i quali condivide il sogno di uno Stato socialista dove vivere in pace con gli arabi che vivono in terra di Palestina. Peccato, però, che quel sogno resterà tale, anche perché proprio negli anni in cui si sviluppa la vicenda (dal 1938 al 1940) all’aggravarsi dell’antisemitismo in Europa – culminato con l’aggressione nazista alla Polonia – corrisponde la nascita di gruppi paramilitari ebraici, intenzionati ad imporre con la violenza la creazione del loro Stato.

L’Irgun, un gruppo clandestino dedito al terrorismo, compie numerosi attentati dinamitardi sia contro civili arabi, sia contro membri dell’esercito britannico, considerato dagli oltranzisti una forza d’occupazione nemica. Uno degli ufficiali, Tom Wilkin (Douglas Booth), diventerà il fidanzato di Shoshana, sfidando convenzioni e regole non scritte. 
Di questo amore lei pagherà il prezzo più alto, come sempre o spesso capita alle donne, rischiando di fare la fine di altre ragazze colpevoli di “farsela con il nemico” e di essere ripudiata dal fratello integralista.

Winterbottom mette la relazione tra i due giovani a far da contrappunto al conflitto dal più ampio respiro storico, che in parallelo corre verso l’inevitabile inasprimento con, alla fine, l’avvio di una guerra strisciante a carattere ormai permanente in quella tormentata regione: Shoshana abbandonerà gli ideali socialisti del padre e imbraccerà le armi a fianco dei suoi compagni, contro popoli a loro volta vittime dei crudeli giochi imperialistici di un terribile ‘900. 


Di seguito il trailer del film di Michael Winterbottom con Harry Melling e Douglas Booth in lingua italiana.

Lou Andreas Salomè: la prima donna psicoanalista e femminista ante litteram.

Ritratto fotografico di Lou Salomè, 1897 c.a.

“Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita ed essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…”.

Lou Andreas Salomé, “La rivolta dell’Eros. Sull’amore e Il tipo di donna”.

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Luo Andreas Salomè nata a Pietroburgo in Russia nel 1861, morta a Vienna nel 1931, esule profuga, “heimatlos” come la si definisce, ossia una senza casa, senza patria. Una “straniera” che dà all’esperienza del viaggio un significato rivoluzionario, un’esperienza di rottura.

Essere senza terra ma percorrere le strade nella notte per una donna diventa un modo di vivere che fa sovvertire i dogmi anche della tradizione del pensiero filosofico e psicoanalitico.

Sigmund Freud fotografato da Max Halberstadt nel 1922.

Lou conobbe Freud nel 1911 dopo aver preso parte al Congresso della Società psicanalitica di Vienna e al termine degli studi divenne lei stessa psicoterapeuta.

Donna intellettuale irrequieta, anticonformista è un’innovatrice della riflessione filosofica poichè pone al centro dell’eros l’erotismo delle donne mai indagato dando così rilievo alla materia erotica della sensualità sempre vista dalla tradizione storica e religiosa come il male.

La sessualità femminile quando non è subordinata al desiderio maschile ma è libera, viene da sempre considerata una sessualità “eretica”, immorale, che divora e distrugge e per questo pericolosa per l’uomo.

I titoli delle sue opere ne sono la testimonianza: “La materia erotica. Scritti di psicoanalisi”, “Riflessioni sull’amore”, “Il mito di una donna”, “Eros e conoscenza”, “La rivolta dell’eros”, “Devota ed infedele”, e molti altri ancora.

E poi c’è il carteggio con Freud di cui fu allieva libera, appassionata e indipendente rispetto alle idee del padre della psicoanalisi.

Friedrich Nietzsche nel 1882

Peccato che questa grande teorica e innovatrice dalla cultura profonda sia conosciuta molto spesso solo come una donna dalla bellezza magnetica, ispiratrice del filosofo Nietzsche e per la tormentata relazione con il poeta e scrittore Rainer Maria Rilke.

Lou però non fu una semplice musa capace di ispirarli con la sola bellezza e soavità, ma una raffinata intellettuale capace di aprire orizzonti  a chi le viveva accanto, creando così le condizioni ideali per la manifestazione del genio.

Libro in vetrina…perché piace guardare le donne cadere!

Alzi la mano chi non conosce per filo e per segno le tristi vicende che hanno condotto Britney Spears alla tutela legale da cui solo qualche anno addietro si è liberata. E chi non si è rammaricato per la morte di Amy Winehouse  o di Whitney Houston, che da morte sono tornate a essere un mito mentre nell’ultima parte della loro vita erano diventate donne perdute?

Tutte loro sono trainwreckdonne spezzate, che hanno deragliato. Parla di loro e del perché ci piace osservarne la rovinosa caduta il libro “Spezzate” di Jude Ellison Sady Doyle uscito per le edizioni Tlon con la traduzione di Laura Fantoni e Andrea Salomone.

L’immagine del treno che deraglia è potente, ed è spaventosa: il tragitto di una donna deve seguire un percorso circoscritto, predeterminato, sempre identico. Se dai binari devia, inevitabilmente, deraglia. E non c’è ritorno, perdono o pietà.

Ancora più sconcertante è l’idea che la sofferenza di una persona diventi fonte di intrattenimento. Eppure ogni giorno stiamo a guardare. I sottili meccanismi che agiscono da secoli (sì, secoli, ben prima dell’avvento dei social media) hanno radicato nelle nostre menti l’idea che una donna che deraglia meriti le conseguenze del disastro.

Guardarla, giudicarla, biasimarla sono sfaccettature dello stesso atteggiamento: una donna che esce dai ranghi non rispetta le regole. Fa troppo sesso, beve troppo alcol, usa troppa droga, ha troppa rabbia, troppo dolore, troppa esuberanza? Allora la sua vita merita di essere frugata e messa sotto gli occhi di tutti: la sfortunata ex-brava ragazza che se l’è cercata.

La trainwreck come nuova icona femminista.

Tutto questo serve al patriarcato per dimostrare quale terribile sorte attenda chi non si conforma a modelli di comportamenti giudicati idonei. Ma Doyle offre una prospettiva nuova a chi voglia tentare di ribaltare lo sguardo. La trainwreck diventa un’icona femminista potentissima esattamente nel momento in cui deraglia e mostra con chiarezza quali sono i limiti che la società impone alle donne. Insomma, quanto ci è consentito fare rumore (spoiler: pochissimo, prossimo al niente). Le punizioni sono tremende: implacabile giudizio, oblio o morte, non ci sono alternative.

La donna che deraglia perde tutto – credibilità, status, rispetto – ma lo fa combattendo le norme che le vietano di agire secondo il suo sentire. Non le interessa il ruolo di brava ragazza. La brava ragazza può essere solo invisibile, occupare meno spazio possibile, non farsi notare. Oppure deve essere morta, la morte riabilita l’onore. Finché sono vive, ribollenti, sanguinanti, devianti, le trainwreck meritano di essere additate come cattivi esempi. Il motivo per cui sono sottoposte ai raggi X del biasimo sociale (e social) è proprio quello di indicare come non si deve essere. Doyle racconta che da ragazzina, scegliendo il suo costume per Halloween, aveva optato per Courtney Love. Un mostro. Una trainwreck.

Non ci vuole niente a spezzare una donna. Nel tempo sono cambiati i metodi e la rapidità, ma non l’efficacia del sistema. Se ai tempi di Mary Wollstonecraft c’era solo la stampa, oggi ci sono i social sempre pronti a registrare e riprodurre in loop ogni comportamento censurabile, a spettacolarizzare il dolore e renderlo esemplare. Ecco che fine farai se… E nessuno è al sicuro in un mondo in cui la tecnologia si trasforma facilmente in sorveglianza costante della vita di tutti e tutti mostrano continuamente la propria vita online.

Donne che deragliano: trainwrech di ieri e di oggi.

Nel libro si scoprono le traiettorie di molti personaggi accomunati da un unico destino, di ieri e di oggi… Paris Hilton e Tara Reid, Lindsay Lohan e Taylor Swift. Britney Spears, naturalmente. E ancora Miley Cyrus, Monica Lewinsky, Amy Winehouse, Lady D, Whitney Houston. E ci sono anche le trainwreck del passato. Oltre a Mary Wollstonecraft e Charlotte Brontë, anche la scrittrice afroamericana ed ex-schiava Harriet Jacobs che raccontò l’abuso del padrone in un libro bollato come fiction, indegno di credibilità e condannato all’oblio. C’è anche la parabola di Sylvia Plath, e quella di Valerie Solanas. Tutte hanno pagato un prezzo altissimo, imposto da una società che pretende che le donne siano, e rimangano, controllabili.

Una miriade di regole norma ogni sfera dell’esistere di una donna e quando una scelta qualunque devia dalla norma è a quella che si riduce l’intera vita della trainwreck. Per una donna saltare gli steccati, ieri come oggi, è visto come un tentativo di sovvertire tutte le regole su cui si fonda la società, non come il desiderio personale di vivere la vita che si vuole. Su chi è famosa l’errore viene fatto pesare in maniera amplificata, ma siamo tutte soggette allo stesso meccanismo. Quello che si scatena immediatamente va dalla curiosità all’indignazione, più raramente c’è pena.

Non c’è scampo per la trainwreck né per noi che stiamo a guardare. Distogliere lo sguardo è difficile perché insieme al sistema di norme da non violare il meccanismo patriarcale ha messo a punto anche un formidabile strumento di deterrenza: farci guardare le donne sporgersi sull’abisso e precipitarvi ha il potere dell’esempio da non imitare, pena ritrovarsi nella stessa situazione.

Il libro lo consiglio per chi come me conosceva poco di queste vicende o comunque ha seguito distrattamente gli sviluppi su Clinton, sulle attrici, sulle poetesse prima osannate e poi dimenticate. Chi invece conosce già questi episodi potrebbe non trovare nulla di nuovo nel libro in termini di nozioni, ma la parte importante del saggio è tutta riflessiva. Spezzate fa scattare una molla, che è quella del ragionamento ed è quella che ci renderà davvero libere.
* * * *

L’ autrice Jude Elison Sady Doyle.

Accogliamo Giugno con due poesie al femminile.

Due visioni del mese di giugno, quello più verde e umido di un bosco russo cantato dalla poetessa futurista Elena Guro, e quello mediterraneo, giallo di grano e di sole, caldo, in contrasto con l’azzurro del mare e con i falò che illuminano la notte del Corpus Domini nei versi della scrittrice catalana Olga Xirinacs

ELENA GURO

Giugno

Intenso, azzurro intenso. 
Il bosco è pieno di calore. 
Ed ebbri pendono gli aghi dei pini 
e c’è un lieve 
risuonar di sogni. 
Intensi, intensi gli aghi.
Pieni di calore, 
e di felicità, 
e di ebrezza, 
e di estasi

1913

OLGA XIRINACS

Poesia di Giugno

Poesia del mese di giugno
giallo di sole e di grano
gigli in fiore sulla montagna
e le spiagge spalancate.
Che luce nel mese di giugno
dolce e aspro, radioso e chiaro
mille falò sopra le vette
li guardano dal mare azzurro.

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 Elena Genrichovna Guro (Pietroburgo, 18 maggio 1877 – Usikirko, 6 maggio 1913), scrittrice e pittrice russa. La sua carriera ha attraversato il periodo di transizione tra il simbolismo e il futurismo: fu esponente di spicco del gruppo conosciuto come Cubofuturismo. È nota per aver sviluppato nuove teorie sul colore nella pittura.

Olga Xirinacs Díaz (Tarragona, 11 maggio 1936), scrittrice e pianista spagnola in lingua catalana. Ha una solida formazione artistica, che dona spessore alla sua opera letteraria. Ha scritto poesie, romanzi, racconti e saggi.  Sul piano della poesia spicca la raccolta di poesie Llavis que dansen, del 1987.

Isabella d’Este, donna dalle mille sfaccettature.

Tiziano ~ Ritratto di Isabella d’Este, 1534- 1536

Quando Tiziano la ritrasse nel 1534, lei aveva già varcato la soglia dei sessant’anni, età che nel XVI secolo era considerata avanzata.

L’antica bellezza di Isabella d’Este, vedova del marchese di Mantova Francesco I Gonzaga, era ormai diventata un ricordo, tanto che il sempre caustico Pietro Aretino la definì “disonestamente brutta e arcidisonestamente imbellettata”.

Pur ammettendo che esagerasse, come spesso gli capitava, di certo Isabella col passare del tempo era ingrassata, i denti le si erano guastati e dimostrava più degli anni che aveva, a dispetto del trucco.

Ma la sua proverbiale coquetterie era quella di sempre, la “regina del gusto” era ancora lei e, di conseguenza, non meraviglia il fatto che abbia voluto commissionare al più famoso ritrattista di quei tempi un’opera che la raffigurasse negli anni dello splendore giovanile.

Così Tiziano, lavorando “da remoto”, sulla base di un vecchio ritratto eseguito da Francesco Francia, evidenziò il prestigioso status sociale della marchesa, mostrandocela con indosso un’elegante veste dalle maniche ornate di finissime guarnizioni in oro e argento, sovrastata da una stola di pelliccia, coi bei capelli ricci che fuoriescono da un sontuoso turbante in stile moresco.

Questa straordinaria figura d’intellettuale al femminile, che fece di Mantova una delle più raffinate corti dell’Italia rinascimentale, nacque a Ferrara il 17 maggio del 1474 come figlia primogenita del duca Ercole I d’Este e di Eleonora d’Aragona.

Fin da bambina fu circondata da cose belle e preziose, ed apprese il gusto per i viaggi che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, seguendo la mamma a Venezia, Napoli e in molte altre città.

A soli sei anni fu promessa in sposa al quindicenne Francesco Gonzaga, erede del confinante Marchesato di Mantova, per rinsaldare i già stretti vincoli parentali intercorrenti fra due Stati che avevano tutto l’interesse a fare fronte comune per mantenere la loro fragile indipendenza, in anni in cui le due super-potenze dell’epoca (Impero e Regno di Francia) si sfidavano sul tavolo di un’Italia mai tanto divisa.

E pazienza se Francesco, oltre ad essere brutto poco istruito, si trovava più a suo agio in compagnia dei soldati che alla feste di corte.

Amante della caccia e della “ars bellica”, concepiva le donne come il meritato “riposo del guerriero”, prediligendo fra di esse quante non lo torturassero con capricci e astruse discussioni culturali, ma arrivassero subito al dunque.

Fu uno dei pochi uomini a non subire il fascino di sua moglie, preferendole una serie di amanti di modeste pretese e ancor minore istruzione, che alla fine gli portarono in dote il “mal francese” che l’avrebbe condotto alla tomba.

Isabella tuttavia, provenendo da una città dove a sua volta ne aveva viste di tutti i colori, non se ne ebbe mai a male. Refrattaria alla gelosia, si sentì addirittura sollevata dal fatto che quel marito tanto diverso da lei, col quale però aveva concepito nove figli, cercasse sollievo altrove, lasciandola in pace.

Sebbene le occasioni non le mancassero, Isabella gli rimase sempre fedele anche perché gli uomini le interessavano poco e di essi le bastava la galante adorazione cui rispondeva solo con mezze frasi, delicatezze, ammiccamenti, letterine e regalucci vari, ricevendo però in cambio favori e doni di ben altro valore.

Così Ludovico Ariosto, Bernardo Tasso, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione per lei scrissero gratis, come ancora una volta gratis il più famoso editore di quegli anni, Aldo Manuzio, le inviò i suoi libri più costosi.

Piangendo miseria, riuscì a procurarsi per pochi spiccioli un capolavoro del maestro fiammingo Van Eyck, il “Passaggio del Mar Rosso”, e sempre a causa della sua tirchieria innumerevoli furono gli screzi che la videro opposta ad Andrea Mantegna, pittore della corte gonzaghesca.

Ma a lei, Marchesa di Mantova e Signora del Rinascimento, tutto era permesso perché, durante le lunghe assenze del marito spesso impegnato in condotte militari, era proprio lei a reggere le sorti dello Stato, facendolo bene perché trattava alla pari con papi, re, imperatori, diplomatici ed alti prelati all’unico scopo di garantire l’indipendenza ed il benessere dei propri domini.

Il consorte, pur in privato sparlando della moglie e lamentandosi della sua eccessiva indipendenza, non poteva però farne a meno, tanto più che fu lei ancora una volta a cavarlo d’impiccio, traendolo fuori dalla prigione veneziana dov’è era stato rinchiuso dopo essere caduto in un’imboscata.

Nella scelta del suo motto personale “Nec spe, nec metu” (“Né con speranza, né con timore”) Isabella volle riassumere la filosofia di una vita trascorsa all’insegna dell’oraziana “aurea mediocritas”, qui intesa nel senso etimologico di “giusta via di mezzo”, che le consentì sempre d’affrontare con misura e sopportazione gli alti e bassi della vita, senza perdersi d’animo o esaltarsi, ma cercando piuttosto di governare per quanto possibile il corso degli eventi.

Rimasta vedova nel 1519, trascorse il resto dei suoi anni fra il bellissimo studiolo che si era fatta costruire nel Palazzo Ducale di Mantova e i viaggi che tanto amava, riuscendo a scampare indenne al terribile sacco di Roma del 1527 perché suo figlio Ferrante, uno dei comandanti dei Lanzichenecchi, la protesse da quelle furie scatenate.

Spirò a 65 anni e fu sepolta nella chiesa di Santa Paola a Mantova, dove una lastra tombale la ricorda ancora come “virili animo foemina” facendole un gran torto perché tutto ciò che fece fu all’insegna della sua raffinata femminilità.

Julia Morgan, la prima donna architetto in California.

Julia Morgan 1872- 1957

Quando parlava, parlava piano.
Ma quando chiedeva era autorevole come un sergente dei Marines.
Parlo di Julia Morgan, architetta.
La sua carriera è durata 42 anni.
Ha progettato circa 790 strutture.
Lo testimonia un bel libro a lei dedicato di Vittoria Kastner

Nasce a San Francisco nel 1872, da una importante famiglia. È una bambina che cresce guardando la madre, esempio vivente di intraprendenza e capacità di desiderare. In una casa che unisce bellezza architettonica a tecnologie visionarie.
È una giovane donna che vorrebbe studiare architettura ma a Berkeley ancora non esiste. Julia sceglie allora ingegneria civile. Una delle prime. E si batte da subito per le donne creando squadre sportive e la confraternita Kappa Alpha Theta.

Qui incontra Phoebe Apperson Hearst, che influenzerà fortemente la sua carriera.
Si laurea con lode nel 1894 e decide di frequentare l’École des Beaux-Arts a Parigi, la scuola di formazione architettonica più prestigiosa del mondo. Ma c’è un ma…le donne non sono ammesse. Solo corsi serali.
La misoginia in certi ambienti impera.

Nel 1897 viene concessa l’ammissione ai corsi di laurea. Ma solo formalmente. Gli esami sono costruiti per dimostrare che le femmine non possono.
Julia, dopo tre bocciature, ce la fa.
Nel 1904 Julia rientra negli USA e apre il suo studio. Dove, cosa assolutamente rivoluzionaria per l’epoca, condivide i profitti con i suoi operai.

Da lì in avanti la sua fioritura: Morgan progetta un mare di edifici prevalentemente per le donne. Club di ogni natura ma anche scuole e orfanotrofi, ospedali e case di cura.
In alcuni casi ci mette i suoi soldi o si abbassa il cachet.

Ma anche edifici sontuosi come la sede del Los Angeles Examiner, di William Hearst (figura a cui si ispirerà Quarto Potere di Orson Welles). E il suo faraonico castello a San Simeon.

Julie non si sposa né costruisce famiglia tradizionale. Ma la sua vita sarà assai ricca di relazioni e desideri. Si rifiutò spesso di rilasciare interviste sui propri edifici. L’obiettivo? Evitare di spiccare come “caso” di donna potente in un settore ancora maschile, lasciando che il suo lavoro  parlasse per lei.

Nell’ultima parte della vita viaggió parecchio, senza mai abbandonare il lavoro: grandi crociere intorno al mondo e in Europa (soprattutto in Italia e Spagna) , riempiendo di fitti ricordi i suoi diari.

Muore nel nel 1957, a 85 anni, e gli amici istituiscono una borsa di studio a suo nome ancora attiva nell’Università della California.

Cosí la salutò l’American Institute of Architects :” La lunga e utile vita di Julia Morgan è la prova che anche in questi tempi frenetici un un’architetto con capacità reali e obiettivi precisi può, senza ricorrere a trucchi pubblicitari o a esibizioni di egoismo, contribuire al progresso della professione”.

Elayne Jones, la prima percussionista di colore.

Elayne Jones agli albori della sua carriera. 1965.

Tu non pulirai i pavimenti dei bianchi…
Si chiama Elayne Jones, ed è stata una fantastica timpanista.
Nata a New York da immigrati delle Barbados, da bambina scopre l’amore per la musica attraverso sua madre, figura centrale nella sua educazione al desiderio e alla determinazione.

La madre sarà la sua prima insegnante di piano, lei che era arrivata a New York proprio per tentare una carriera nella musica, ma alla fine aveva dovuto rinunciare per la cortina impenetrabile di razzismo di quegli anni.
“Laynie, tu non pulirai i pavimenti dei bianchi!”
Frequenta una scuola ad Harlem e, grazie alle sue abilità pianistiche, viene accettata alla Music and Art High School.

In quella scuola, chi studia pianoforte deve esercitarsi anche su uno strumento da orchestra. È lì che accade. La sua insegnante Isadore Russ le porge un paio di bacchette per suonare i timpani. Scatta l’amore. Poi la madre scopre che Duke Ellington sta dando borse di studio alla Juilliard. La iscrive.
Elayne sara l’unica nera ad ottenerla.

È una giovane donna quando si laurea e comincia a lavorare.
Il suo nome si fa strada. Elayne è una pioniera.
Non le basta vincere per sé. Vuole che altre giovani donne nere seguano il suo cammino.
Nel 1950, durante una tournée, si reca alla Chicago Opera House ma il portiere si rifiuta di farla entrare: “Noi non facciamo entrare “negri” in teatro”.

Nel 1965 co-fonda la Symphony of the New World, la prima che offre a musicisti/e neri/e l’opportunità di suonare il repertorio orchestrale. E introduce le “blind audition” proprio per eliminare i pregiudizi.

Elayne ha incontrato un mare di razzismo e sessismo e li ha attraversati come una navigante straordinaria fa con le tempeste.
Dopo il suo ritiro dalle scene scrive la sua autobiografia, “Little Lady with a Big Drum”.
Nel 2019 diventa la quarta donna della Percussive Arts Society Hall of Fame.Muore nel 2022, a 94 anni.

Una donna magnifica!

La Creola Giuseppina tra tradimenti e amori.

” I miei occhi si dono indeboliti, è  come se vivessi in un perenne tramonto. Non riesco più nemmeno a ricamare”.

“Ritratto di Giuseppina, Imperatruce dei Francesi ” di François Gèrard, 1808.

Così scrisse sul suo diario, nel marzo del 1814 pochi mesi prima di morire, colei che fu soprannominata l’“Imperatrice creola”.

Poco fortunata in vita e ancor meno in amore, Marie-Josèphe-Rose Tascher de la Pagerie nacque nel villaggio di Trois Ilets (Martinica) il 23 giugno del 1763.

Era la prima delle tre figlie di Monsieur Joseph-Gaspard de La Pagerie, sempre a corto di quattrini per la sua propensione al gioco d’azzardo, nonostante fosse proprietario di una vasta tenuta agricola dove, con la forza delle braccia di circa 150 schiavi, si coltivavano canna da zucchero, caffè e cacao.

Un uragano che la devastò nel 1766 contribuì alla decadenza familiare, tanto che il padre non poté permettersi di educare le figlie, come facevano i suoi pari, nella “Metropole”, dovendo così ricorrere ad istitutrici di scarsa cultura.

Le ragazze crebbero senza disciplina, poco istruite e impregnate di quelle abitudini che, agli schizzinosi occhi dei Parigini, facevano apparire i Creoli indolenti, sensuali e capricciosi.

Appena sedicenne fu promessa in sposa ad Alexandre, figlio del Visconte di Beauharnais.
Giunta a Parigi quando era poco più che una ragazzina, sola e spaesata, Giuseppina non legò veramente mai col marito, donnaiolo impenitente e dilapidatore di fortune.

Alexandre de Beauharnais.

La coppia tuttavia ebbe due figli: Eugenio, futuro viceré d’Italia, e Ortensia, destinata a diventare regina d’Olanda, oltreché madre del futuro imperatore Napoleone III.

La loro separazione divenne una realtà nel 1785, ma i due si ritrovarono pochi anni più tardi nella prigione parigina del Carmine, in pieno periodo del Terrore rivoluzionario, quando il marito, ex-presidente dell’Assemblea Costituente, fu ghigliottinato appena pochi giorni prima della caduta di Robespierre.

Leggenda vuole che, quando il carceriere lesse il suo nome fra quanti quel giorno dovevano avviarsi al patibolo, il sempre galante Alexandre abbia sussurrato alla moglie: “Permettete, Signora, che per una volta vi passi davanti io!”.

Se non ci rimise la testa anche lei fu solo per miracolo, grazie al provvidenziale intervento del segretario del Comitato di Sicurezza pubblica che, invaghitosene, fece sparire il relativo atto d’accusa.

Finalmente libera, Giuseppina cercò di mettere a frutto i “talenti” di cui madre natura l’aveva dotata.

Passando da uno spasimante all’altro, durante una cena sul finire del 1795 le riuscì il colpo grosso, facendo breccia nel cuore di un giovane ufficiale in sfolgorante ascesa sociale: Napoleone Bonaparte. Ammaliato dal fascino della bella Joséphine, quest’ultimo ne chiese la mano, sposandola dopo pochi mesi.

Il fatto che lei fosse di otto anni più anziana di lui, unito alle origini creole, la rese invisa alla famiglia dello sposo e soprattutto alle cognate, che perfidamente la chiamavano “la vecchia” a dispetto dei soli 33 anni d’età.

Giuseppina si risposò senza alcun trasporto, per ritrovare la perduta stabilità economica, ma la fede nuziale regalatale da un gelosissimo Napoleone non la trattenne dal cercare consolazione fra le braccia di altri ufficiali, quando il neo-marito era, come spesso gli capitava, lontano.

Le voci in arrivo da Parigi alla fine convinsero Napoleone ad ordinare alla moglie di raggiungerlo in Italia, durante la sua prima campagna militare nel nostro Paese.

Qui Giuseppina iniziò la sua personale scalata gerarchica al fianco del marito, passando dal ruolo di “moglie del primo console” a quello di imperatrice, incoronata dal consorte a Notre Dame il 2 dicembre del 1804, alla presenza del rassegnato papa Pio VII.

Subito si prospettò però il problema della sua sterilità: il neo-imperatore infatti doveva assicurare un erede alla patria e sebbene Giuseppina di figli ne avesse avuti due dal primo marito, era entrata in una menopausa precoce, forse causata dallo stress patito in carcere con l’incombente terrore di essere ghigliottinata.

Così, cinque anni dopo la sua incoronazione, dovette accettare il divorzio impostole dalla ragion di stato e il conseguente nuovo matrimonio di Napoleone con l’arciduchessa Maria Luigia d’Austria la giovanissima figlia dell’imperatore d’Austria. Questa unione era conveniente anche da un punto di vista politico. E l’erede arrivò: Napoleone Francesco Giuseppe. Il ragazzo tuttavia era di salute cagionevole, anche se molto bello, e morì poco più che ventenne.

Castello di Malmaison.

A Giuseppina non le restò che ritirarsi nel suo splendido castello alla Malmaison, nel cui parco si dedicherà a piante e animali rari (nel suo roseto venne isolata la prima Rosa Tea) per trascorrervi gli ultimi cinque anni di vita – come sempre – senza badare a spese, contando sulla generosità dell’ex marito, finché una polmonite la condusse alla tomba il 29 maggio del 1814. Napoleone era già in esilio e la sua disperazione fu grande non avendole potuto dire addio.

Elsa Oliva, partigiana, che per due volte fuggì dalla prigionia nazifascista.

Elsa Oliva, nome di battaglia, Elsinki.

Nata a Piedimulera (Novara) l’11 aprile 1921, deceduta a Domodossola l’11 aprile 1994.

Era nata in una famiglia antifascista (quarta di sette fratelli e sorelle), che si era trovata in particolari difficoltà allorché il padre, nel 1930, aveva perso il lavoro perché non voleva iscriversi al Fascio.

Elsa poté frequentare soltanto la quarta elementare e, a otto anni, fu messa “a servizio”.
Ragazzina irrequieta, aveva solo 14 anni quando, con il fratello Renato, si allontanò di casa e se ne andò in Valsesia. Poi si trasferì ad Ortisei e si mise a lavorare in un laboratorio artigiano di pittura su legno. Elsa non nascondeva le sue idee e fu così che fu presa di mira dalla polizia, tanto che ritenne più conveniente andarsene in un centro più grande.

A Bolzano riuscì a farsi assumere all’Anagrafe del Comune, dove rimase fin dopo l’armistizio. Fu quello il momento dell’impegno totale nella Resistenza.
Elsa partecipò alla difesa della caserma di Bolzano contro i tedeschi, organizzò la fuga di militari internati dagli occupanti, procurò certificati falsi a molti soldati perché potessero sottrarsi alla cattura, poi distrusse l’archivio dell’Anagrafe perché non restassero tracce del suo operato.

Sino al novembre del 1943, la ragazza partecipò coraggiosamente, con gli antifascisti locali, ad azioni di sabotaggio contro i tedeschi, ma finì per essere arrestata. Era in viaggio per Innsbruck, dove avrebbero dovuto processarla, quando riuscì a fuggire e a raggiungere poi, fortunosamente, Domodossola dove i suoi si erano nel frattempo trasferiti.

Ricercata dalle SS, nel maggio del 1944 la ragazza si unì, come infermiera, ai partigiani della 2a Brigata della Divisione “Beltrami”, ma presto divenne partigiana combattente. Nell’ottobre ecco che Elsa lascia la “Beltrami”. Vuole raggiungere un altro fratello, Aldo, che milita nella “Banda Libertà” e che sarebbe stato trucidato due mesi dopo dai fascisti a Baveno. Di nuovo Elsa Oliva cambia formazione.

Gruppo della Brigata “Franco Abrami”.

Nella Brigata partigiana “Franco Abrami” della Divisione “Valtoce”, che ha la sua base sul Mottarone, le affidano il comando di una squadra chiamata “Volante di polizia” e che presto, dal nome di battaglia di Elsa, sarà chiamata “Volante Elsinki”.
Nello stesso giorno, l’8 dicembre 1944, dell’uccisione del fratello (“Ridolini” era il nome di battaglia di Aldo Oliva), Elsa è catturata dai fascisti, che la portano in una loro caserma di Omegna. La ragazza è certa che la fucileranno e decide quindi di simulare il suicidio. Ha ingerito un gran numero di compresse di sonnifero ed è portata in ospedale. Una lavanda gastrica e, prima che i fascisti tornino a riprendersela, con l’aiuto di una suora e di un prete, Elsa riesce a fuggire. Ritornata tra i partigiani della “Valtoce”, continuerà la lotta armata sino alla Liberazione. Per questo, alla smobilitazione, le sarà riconosciuto il grado di tenente.

Elsa Oliva, partigiana ribelle.

Nel dopoguerra Elsa Oliva si è impegnata politicamente sino agli anni ’70, quando fu eletta consigliere comunale di Domodossola come indipendente in una lista del PCI.
Si staccò dal partito poco dopo, non aderendo più, ufficialmente, a nessuna formazione politica. Lasciò anche l’ANPI e si iscrisse all’Associazione Volontari della Libertà (di cui fu vicepresidente) aderente alla FIVL

Elsa Oliva ha lasciato la sua testimonianza del periodo della militanza antifascista nel libro Ragazza partigiana, del 1974. Ha pubblicato anche una raccolta di racconti dal titolo La Repubblica partigiana dell’Ossola e altri episodi. Due anni dopo, è uscito postumo, il suo racconto autobiografico Bortolina. Storia di una donna.

Elsa Oliva, nella sua vita è stata tante cose, pittrice, infermiera autodidatta, comandante di una volante. È stata una vera combattente che maneggiava le armi con destrezza. Si è trovata in difficoltà tante volte e ha superato gli ostacoli di essere una donna libera, ribelle e antifascista, con determinazione, intelligenza, furbizia ed esuberanza. È stata sempre in prima fila e non ha mai abbandonato nessuno e nessuna indietro, a rischio della sua stessa incolumità.

Ricordo che negli interrogatori che ho ricevuto a Bolzano da parte dei nazisti mi hanno chiamata per la prima volta “ribelle”. Ebbene io mi sono detta: “Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre“. (Elsa Oliva)

La Virgin Queen che cambiò  il volto dell’Inghilterra.

Ritratto di Elisabetta I, di Federico Zuccari (attr.), 1575 ca. -“National Portrait Gallery”, Londra.

Il 24 marzo del 1603 si spense, dopo 45 anni di regno, la regina Elisabetta I d’Inghilterra.

Soprannominata “good Queen Bess” oppure “the Virgin Queen” dai moltissimi che la amavano, ma anche detta “la Bastarda” dai non pochi che la detestavano perché figlia di Anna Bolena, decapitata per la mai provata accusa di adulterio, ebbe una vita quanto mai movimentata.

In tenera età, dopo essere stata privata della madre, fu cresciuta dalle governanti alle quali suo padre, l’irrequieto re Enrico VIII, l’affidava secondo l’umore del giorno. Quest’ultimo certo non brillò con lei per amore parentale, avendola relegata nella tenuta di Hatfield in attesa di coronare il suo sogno di avere finalmente l’agognato erede maschio.

Anche a causa di queste difficoltà Elisabetta assunse fin da bambina quell’espressione seria e distaccata che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, sebbene non le fosse mancata un’istruzione d’altissimo livello, tanto che, oltre al francese e all’italiano, apprese anche il latino e il greco. Pur se educata secondo i principi della religione riformata, non risultò mai particolarmente fanatica, preferendo alle dispute teologiche le arti, le lettere e la musica.

Dopo la morte del padre, riuscì ad attraversare miracolosamente indenne i regni del fratellastro Edoardo VI e soprattutto della sorellastra Maria, la cattolica figlia di Caterina d’Aragona, prima moglie di suo padre, che ne ordinò per un certo periodo la reclusione nella Torre di Londra perché sospettata di tradimento.

Pur di cavarsi d’impiccio Elisabetta dichiarò di aborrire l’eresia, mantenendo però nel suo intimo il credo protestante, che manifestò di nuovo non appena ascese al trono il 17 novembre del 1558, alla morte di Maria.

Per lei il trionfo fu immediato, grazie anche alla sua straordinaria capacità di interagire col suo popolo, captandone al volo gli umori e i desideri, oltreché all’esercizio in modo non certo formale di un potere assoluto sempre però gestito “super partes” all’unico fine di riappacificare un Paese lacerato e così farlo risorgere dalla miseria in cui era piombato.

Lei, donna, si comportò come una sorta di patriarca, un buon “pater familias” che non disdegnava affatto di consigliarsi coi suoi ministri facendone proprie le idee migliori.

Riportò un diffuso benessere in Inghilterra anche grazie all’indicibile accordo stretto col corsaro Francis Drake, cui diede carta bianca per depredare i ricchissimi possedimenti spagnoli sulla costa pacifica del Continente Sudamericano. Una volta aperta la strada ai traffici marittimi, costituì quella che sarebbe stata la prima Società per Azioni della storia, cioè la “Compagnia Britannica delle Indie Orientali”, una brillante intuizione che fece dell’Inghilterra la grande e ricca potenza marittima che divenne nei secoli successivi.

Non le mancò nemmeno una buona dose di fortuna, quando nel 1588 le pessime condizioni atmosferiche e le continue tempeste aiutarono i suoi ammiragli a sconfiggere “l’Invincibile Armata” inviatale contro dal cognato Filippo II di Spagna.

Per caricare i suoi soldati tenne un mirabile discorso in cui disse: “So di avere il corpo di una debole donnicciola, ma so anche di avere il cuore e lo stomaco di un re, e più precisamente di un re d’Inghilterra!”. Sante parole, perché proprio così era il suo carattere, gentile e distaccato esternamente, ma deciso e irremovibile dentro.

Ne fece le spese la cugina Maria Stuarda, cioè la cattolica Regina di Scozia che, dopo una lunga detenzione in terra inglese dove si era rifugiata per trovare riparo da alcuni tumulti interni al suo Paese, fu decapitata perché sospettata di tradimento.

Durante quella che giustamente fu chiamata la “Elisabethan Age” l’Inghilterra s’impose come una delle principali potenze europee sotto il profilo politico, economico e culturale. Raramente in Europa, a parte forse il caso del Re Sole, la vita collettiva di un’intera nazione s’identificò per un così lungo periodo di tempo con quella del proprio monarca, conformandosi al di lui o, nel caso di specie, di lei stile personale.