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Lou Andreas Salomè: la prima donna psicoanalista e femminista ante litteram.

Ritratto fotografico di Lou Salomè, 1897 c.a.

“Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita ed essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…”.

Lou Andreas Salomé, “La rivolta dell’Eros. Sull’amore e Il tipo di donna”.

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Luo Andreas Salomè nata a Pietroburgo in Russia nel 1861, morta a Vienna nel 1931, esule profuga, “heimatlos” come la si definisce, ossia una senza casa, senza patria. Una “straniera” che dà all’esperienza del viaggio un significato rivoluzionario, un’esperienza di rottura.

Essere senza terra ma percorrere le strade nella notte per una donna diventa un modo di vivere che fa sovvertire i dogmi anche della tradizione del pensiero filosofico e psicoanalitico.

Sigmund Freud fotografato da Max Halberstadt nel 1922.

Lou conobbe Freud nel 1911 dopo aver preso parte al Congresso della Società psicanalitica di Vienna e al termine degli studi divenne lei stessa psicoterapeuta.

Donna intellettuale irrequieta, anticonformista è un’innovatrice della riflessione filosofica poichè pone al centro dell’eros l’erotismo delle donne mai indagato dando così rilievo alla materia erotica della sensualità sempre vista dalla tradizione storica e religiosa come il male.

La sessualità femminile quando non è subordinata al desiderio maschile ma è libera, viene da sempre considerata una sessualità “eretica”, immorale, che divora e distrugge e per questo pericolosa per l’uomo.

I titoli delle sue opere ne sono la testimonianza: “La materia erotica. Scritti di psicoanalisi”, “Riflessioni sull’amore”, “Il mito di una donna”, “Eros e conoscenza”, “La rivolta dell’eros”, “Devota ed infedele”, e molti altri ancora.

E poi c’è il carteggio con Freud di cui fu allieva libera, appassionata e indipendente rispetto alle idee del padre della psicoanalisi.

Friedrich Nietzsche nel 1882

Peccato che questa grande teorica e innovatrice dalla cultura profonda sia conosciuta molto spesso solo come una donna dalla bellezza magnetica, ispiratrice del filosofo Nietzsche e per la tormentata relazione con il poeta e scrittore Rainer Maria Rilke.

Lou però non fu una semplice musa capace di ispirarli con la sola bellezza e soavità, ma una raffinata intellettuale capace di aprire orizzonti  a chi le viveva accanto, creando così le condizioni ideali per la manifestazione del genio.

La Creola Giuseppina tra tradimenti e amori.

” I miei occhi si dono indeboliti, è  come se vivessi in un perenne tramonto. Non riesco più nemmeno a ricamare”.

“Ritratto di Giuseppina, Imperatruce dei Francesi ” di François Gèrard, 1808.

Così scrisse sul suo diario, nel marzo del 1814 pochi mesi prima di morire, colei che fu soprannominata l’“Imperatrice creola”.

Poco fortunata in vita e ancor meno in amore, Marie-Josèphe-Rose Tascher de la Pagerie nacque nel villaggio di Trois Ilets (Martinica) il 23 giugno del 1763.

Era la prima delle tre figlie di Monsieur Joseph-Gaspard de La Pagerie, sempre a corto di quattrini per la sua propensione al gioco d’azzardo, nonostante fosse proprietario di una vasta tenuta agricola dove, con la forza delle braccia di circa 150 schiavi, si coltivavano canna da zucchero, caffè e cacao.

Un uragano che la devastò nel 1766 contribuì alla decadenza familiare, tanto che il padre non poté permettersi di educare le figlie, come facevano i suoi pari, nella “Metropole”, dovendo così ricorrere ad istitutrici di scarsa cultura.

Le ragazze crebbero senza disciplina, poco istruite e impregnate di quelle abitudini che, agli schizzinosi occhi dei Parigini, facevano apparire i Creoli indolenti, sensuali e capricciosi.

Appena sedicenne fu promessa in sposa ad Alexandre, figlio del Visconte di Beauharnais.
Giunta a Parigi quando era poco più che una ragazzina, sola e spaesata, Giuseppina non legò veramente mai col marito, donnaiolo impenitente e dilapidatore di fortune.

Alexandre de Beauharnais.

La coppia tuttavia ebbe due figli: Eugenio, futuro viceré d’Italia, e Ortensia, destinata a diventare regina d’Olanda, oltreché madre del futuro imperatore Napoleone III.

La loro separazione divenne una realtà nel 1785, ma i due si ritrovarono pochi anni più tardi nella prigione parigina del Carmine, in pieno periodo del Terrore rivoluzionario, quando il marito, ex-presidente dell’Assemblea Costituente, fu ghigliottinato appena pochi giorni prima della caduta di Robespierre.

Leggenda vuole che, quando il carceriere lesse il suo nome fra quanti quel giorno dovevano avviarsi al patibolo, il sempre galante Alexandre abbia sussurrato alla moglie: “Permettete, Signora, che per una volta vi passi davanti io!”.

Se non ci rimise la testa anche lei fu solo per miracolo, grazie al provvidenziale intervento del segretario del Comitato di Sicurezza pubblica che, invaghitosene, fece sparire il relativo atto d’accusa.

Finalmente libera, Giuseppina cercò di mettere a frutto i “talenti” di cui madre natura l’aveva dotata.

Passando da uno spasimante all’altro, durante una cena sul finire del 1795 le riuscì il colpo grosso, facendo breccia nel cuore di un giovane ufficiale in sfolgorante ascesa sociale: Napoleone Bonaparte. Ammaliato dal fascino della bella Joséphine, quest’ultimo ne chiese la mano, sposandola dopo pochi mesi.

Il fatto che lei fosse di otto anni più anziana di lui, unito alle origini creole, la rese invisa alla famiglia dello sposo e soprattutto alle cognate, che perfidamente la chiamavano “la vecchia” a dispetto dei soli 33 anni d’età.

Giuseppina si risposò senza alcun trasporto, per ritrovare la perduta stabilità economica, ma la fede nuziale regalatale da un gelosissimo Napoleone non la trattenne dal cercare consolazione fra le braccia di altri ufficiali, quando il neo-marito era, come spesso gli capitava, lontano.

Le voci in arrivo da Parigi alla fine convinsero Napoleone ad ordinare alla moglie di raggiungerlo in Italia, durante la sua prima campagna militare nel nostro Paese.

Qui Giuseppina iniziò la sua personale scalata gerarchica al fianco del marito, passando dal ruolo di “moglie del primo console” a quello di imperatrice, incoronata dal consorte a Notre Dame il 2 dicembre del 1804, alla presenza del rassegnato papa Pio VII.

Subito si prospettò però il problema della sua sterilità: il neo-imperatore infatti doveva assicurare un erede alla patria e sebbene Giuseppina di figli ne avesse avuti due dal primo marito, era entrata in una menopausa precoce, forse causata dallo stress patito in carcere con l’incombente terrore di essere ghigliottinata.

Così, cinque anni dopo la sua incoronazione, dovette accettare il divorzio impostole dalla ragion di stato e il conseguente nuovo matrimonio di Napoleone con l’arciduchessa Maria Luigia d’Austria la giovanissima figlia dell’imperatore d’Austria. Questa unione era conveniente anche da un punto di vista politico. E l’erede arrivò: Napoleone Francesco Giuseppe. Il ragazzo tuttavia era di salute cagionevole, anche se molto bello, e morì poco più che ventenne.

Castello di Malmaison.

A Giuseppina non le restò che ritirarsi nel suo splendido castello alla Malmaison, nel cui parco si dedicherà a piante e animali rari (nel suo roseto venne isolata la prima Rosa Tea) per trascorrervi gli ultimi cinque anni di vita – come sempre – senza badare a spese, contando sulla generosità dell’ex marito, finché una polmonite la condusse alla tomba il 29 maggio del 1814. Napoleone era già in esilio e la sua disperazione fu grande non avendole potuto dire addio.

Vale la pena leggerlo…

Approfittando di un’influenza antipatica ma non troppo, e dei giorni di festa, ho deciso di leggere il romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini, mi permetto di condividere con voi alcuni pensieri terminata la lettura.

“La bambina si nasconde dietro al padre che ogni tanto si china su di lei, le fa una carezza ma brusca più per controllare che stia davvero guardando piuttosto che per rincuorarla”.

Il romanzo, per chi non lo conoscesse, parla della vita di una nobildonna siciliana del settecento che si ritrova muta a causa di un trauma avuto da bambina, e data in sposa a dodici anni allo zio scapolo e rinchiuso in una propria durezza.

Proprio il mutismo sembra darle una sensibilità e uno sguardo sul mondo, a tratti disincantato e distante, altre interno e quasi telepatico, verso le persone e gli ambienti che la circondano.

“Con le dita impolverate di borace Mariana si avvicina alle imposte chiuse. Le scosta leggermente lasciando entrare il chiarore della luna. Il cortile spennellato di calce, risplende. Gli oleandri formano delle masse scure che fanno pensare a dorsi di gigantesche tartarughe addormentate col muso contro vento per ripararsi dal freddo”.

I luoghi del romanzo sono per lo più nelle campagne di Palermo, a Bagherìa, in una tenuta della casata di Marianna, in cui lei vede crescere ed invecchiare non solo se stessa, i figli e parenti ma anche emozioni e sentimenti, sete di conoscenza e ragionamento tramite la sua passione per la lettura, considerata poco consona visto il suo status, e le esperienze di vita.

Il linguaggio utilizzato da Dacia Maraini è un linguaggio di prosa molto ricco e a tratti poetico, mi è molto piaciuto l’uso di alcune metafore e la sua capacità di adattare il linguaggio e il ragionamento anche all’età di Marianna Ucrìa.

“La ragione è e deve essere solo schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse”.

Questa frase, del pensatore Hume, entra nella vita di Marianna grazie ad un personaggio secondario e tale pensiero quale Tarletto che si fa spazio la accompagnerà nella sua evoluzione e riflessione di personaggio che mano a mano si aprirà all’esperienza.

Ho apprezzato il riportare nel romanzo, i rapporti di potere che definivano fortemente in quell’epoca i ruoli: non solo rispetto al genere, ma anche nel grado di parentela e di status sociale, per dirne alcuni, e di come i personaggi riescano a trovare in qualche modo, un loro grado di libertà all’interno d’essi.
Ci sono alcuni personaggi poi che sono interessanti per le complessità che portano: Filomena, Felice, Camelèo… a voi scoprirli 😊

Sibilla Aleramo: femminista, unica, testarda, passionale e ineguagliabile

Sopravvissuta a tante tempeste, portava ancora con sé, e imponeva agli altri, quella fermezza, quel senso di dignità ch’erano stati la sua vera forza e il suo segreto. (Eugenio Montale)

Sibilla Aleramo nel suo pieno fascino.

La vita di Sibilla Aleramo si è dipanata a cavallo di due secoli alla stregua di un romanzo con accenti da tragedia greca, messa nero su bianco da lei stessa nel libro autobiografico: “Una donna”, che ebbe un successo straordinario.

Nel libro Sibilla Aleramo denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Se ne parlò in Italia e anche oltre i confini nazionali, divenne un caso letterario e un tema di discussione che infiammava i salotti borghesi. Venne definito il primo libro femminista in Italia, anche se non sempre le donne amavano Sibilla Aleramo, molte vedevano in lei una nemica. Ma ormai Sibilla attraverso la scrittura aveva avuto il coraggio di ribellarsi, e da quel momento non si sarebbe più fermata.

Nata ad Alessandria il 14 agosto del 1876 come Marta Felicina Faccio (detta “Rina”), prima dei quattro figli di Ambrogio ed Ernesta Cottino, seguì le peregrinazioni lavorative dei genitori a Milano e poi, dall’età di 12 anni, a Civitanova Marche dove il padre assunse la direzione di una vetreria presso la quale la stessa Rina, giovanissima, lavorò come impiegata, mentre a casa si occupava della madre, affetta da quelle turbe psichiche che l’avrebbero portata prima a tentare il suicidio e infine a subire l’internamento coatto presso il manicomio di Macerata.

Tutto il suo affetto di bambina e adolescente lo riversò dunque sul babbo, a lungo considerato il modello da seguire, finché non scoprì che l’uomo da anni intratteneva una relazione extraconiugale che la sconvolse al punto da farla allontanare da lui.

Il mondo “dei maschi” la tradì una seconda volta, rubandole l’innocenza sotto le sembianze di un mediocre dipendente della stessa ditta presso cui lavorava, che le usò violenza quando lei era appena quindicenne, costringendola poi ad accettare un matrimonio riparatore, visto il suo stato di gravidanza.

Se il primo figlio le morì prematuramente, nel 1895 lo stanco ménage matrimoniale non fu ravvivato nemmeno dalla nascita del secondo, Walter, che anzi peggiorò il già precario equilibrio familiare inducendo il marito a operare su di lei insopportabili pressioni psicologiche affinché, rinunciando al suo impegno sociale in favore delle donne e all’avviata collaborazione in qualità di scrittrice e saggista con riviste quali “la Gazzetta Letteraria”, “l’Indipendente” e il socialista “Vita Internazionale”, di fatto si chiudesse in casa ad occuparsi del neonato.

Dopo aver tentato pure lei, come la madre, il suicidio e aver seguito a Milano, per motivi lavorativi, quell’uomo mai amato, nel capoluogo lombardo le si dischiusero orizzonti nuovi e diversi da quelli ristretti di una (pettegola) cittadina di provincia, con la direzione de “l’Italia femminile”.

La sua indipendenza e libertà di giudizio, diventata ormai motivo di vergogna per il marito e fonte di continui, furiosi litigi, la convinse infine a prendere la decisione più difficile: quella di abbandonare il tetto coniugale e l’amato figliolo per iniziare veramente a vivere, trasferendosi da sola a Roma nel 1902.

Spogliatasi – con sollievo – delle vesti di moglie e – con infinito dolore – di quelle di madre, rivestì così le uniche che le si addicevano veramente: quelle di donna.

E proprio “Una donna” fu il titolo che scelse per il suo primo e più importante romanzo, pubblicato nel 1906 con lo pseudonimo carducciano di Sibilla Aleramo scelto per lei dal nuovo compagno, il poeta Giovanni Cena, e subito tradotto in dodici lingue, per l’eco mediatica che riscosse.

Quello con Cena fu solo il primo dei numerosi, oltreché turbolenti e contrastati, rapporti amorosi che la videro coinvolta, in relazioni quasi sempre improntate ad una passione bruciante che ardeva con la stessa velocità con cui si spegneva.

Fra le più note, figura quella col “matto di Marradi”, il poeta Dino Campana (celeberrimo autore de “i Canti Orfici”) pure lui destinato all’internamento in manicomio non prima però di aver stilato parole orribili nei confronti dell'(ex) amata, che per lui nel 1919 scrisse “Il Passaggio”, libro destinato a ispirare Michele Placido, regista del film “Un viaggio chiamato amore”, del 2002.

Nel romanzo “Il frustino”, del 1932, la Aleramo raccontò dei tre uomini (Giovanni Boine, Clemente Rebora e il pittore Michele Cascella) sui quali riversò contemporaneamente il suo affetto, dopo i rapporti già sfioriti con Giulio Parise (cui lei dedicò “Amo dunque sono”, del 1927) e ancor prima con la poetessa Lina Poletti.

Nel 1936 eccola iniziare un – per quei tempi – scandaloso rapporto, destinato a durare un intero decennio seppure fra alti e bassi, col poeta Franco Matacotta, di ben 40 anni più giovane di lei, ispiratore della raccolta di poesie “Selva d’amore”.

Se grande fu la sua irrequietezza in campo sentimentale, il filo conduttore delle numerose opere, come pure dell’intera esistenza di Sibilla Aleramo, spirata il 13 gennaio del 1960, fu l’orgogliosa rivendicazione della sua indipendenza, sfociante in sostanziale parità di genere con gli uomini, i quali infatti si meravigliavano di poter interloquire con lei “da pari a pari”.

Il prezzo da pagare per raggiungere un risultato allora tanto difficile da ottenere, quanto da lei ambito, consisté però nel doversi “adattare” a loro, rinunciando per esempio alla sua maternità.

Un’altra violenza perpetrata “dai maschi” nei suoi confronti, dopo quella fisica subita all’età di 15 anni.

Lasciarsi un giorno a Roma.

Lasciarsi un giorno a Roma è un film del 2021 diretto da Edoardo Leo, con Edoardo Leo, Marta Nieto, Claudia Gerini , Stefano Fresi e narra il rapporto complesso di coppie “navigate”.

I personaggi principali si trovano all’interno di una crisi profonda dettata dal successo della compagna che mette in crisi il maschio.
Zoe è un’affermata imprenditrice, mentre il suo compagno, Tommaso, è uno scrittore che arrotonda lo stipendio rispondendo alle lettere del cuore di donne per una rivista femminile.

Tommaso verrà a conoscenza dell’intenzione di Zoe di chiudere la loro relazione proprio per una lettera che lei scriverà alla posta del cuore della rivista per cui lui scrive sotto lo pseudonimo di Marquez.

L’altra coppia del film è composta dalla sindaca di Roma, fagocitata da impegni burocatrici che la tengono occpata h24 sul lavoro. Il marito, un professore, si trova chiuso nella morsa della carriera della moglie, costretto a rientrare in cliché che non gli appartengono e si deve occupare della figlia e della casa.
Le storie si intrecciano e i punti di vista di sofferenza sia femminili che maschili vengono portati alla luce mettendo in risalto le rispettive sofferenze.

Lo consiglio perché…
Seppure la trama sia il semplice ribaltimento di ruoli, ho trovato interessante come il regista sia stato in grado di dare voce alla frustrazione e alla fragilità maschile, permettendo ai personaggi maschili di parlare delle loro emozioni e sofferenze.

Sofferenze e frustrazioni che si possono leggere anche nei personaggi femminili del film. Per la prima volta i sentimenti si mescolano e restano il filo conduttore del film, mettendo in evidenza che non importa il genere a cui una persona appartiene, l’emozione è la medesima.

Laddove ci troviamo ad indagare scopriamo che l’emozione non è rosa o azzurra, non ha colore, se non quello legato allo stato d’animo.

Bello e intrigante vedere e toccare che anche “l’uomo che non deve chiedere mai” può parlare del suo “sentire”, interessante osservare l’umanità che ci collega tutti, indipendentemente dal ruolo, dal sesso.

Marguerite Guggenheim, per gli amici Peggy… la dogaressa dell’arte.

Peggy Guggenheim alla Biennale di Venezia, 1948

L’arte è una componente fondamentale per noi italiani, abituati a passeggiare nelle nostre città che sono dei veri e propri musei a cielo aperto. Forse non è vero che l’arte salverà il mondo, ma sicuramente risolleva il morale grazie alla sua bellezza e maestosità. Nel corso della storia tanti personaggi si sono innamorati del nostro Paese e hanno contribuito a renderlo la culla dell’arte non solo antica, ma anche e soprattutto moderna: tra questi Peggy Guggenheim che ha svolto un ruolo di grande prestigio.

Nata a New York nel 1898, in un finale di secolo effervescente e complesso, in un mondo che sta cambiando a velocità abbastanza sostenuta e si sta avviando all’incendio della Grande Guerra. È una nata con la camicia, si direbbe: suo nonno Solomon R. Guggenheim aveva fondato l’omonima fondazione per la creazione di musei in giro per il mondo, suo padre, Benjamin Guggenheim, si era arricchito con l’estrazione del rame, dell’argento e con l’acciaio, invece sua madre, Florette Seligman, apparteneva ad una delle più importanti famiglie di banchieri americani.

Il padre muore sul transatlantico più tristemente famoso della storia, il Titanic, in modo eroico a discapito della sua presenza, abbastanza clandestina, sulla nave, in compagnia dell’ennesima amante: dopo aver ceduto il suo posto in scialuppa a donne e bambini, ritorna a bordo e attende la fine del naufragio bevendo champagne in smoking, scena ricostruita fedelmente anche nel film Titanic di James Cameron.

Lei ha tredici anni ed è destinataria di un’eredità di 2,5 milioni di dollari. Un futuro brillante e ricco già praticamente spianato per Peggy. Ma alla ragazza non interessava la vita dorata che la sua appartenenza familiare le avrebbe garantito e compie, nel 1922, il primo atto di ribellione: sposa un artista squattrinato, un dadaista di nome Laurence Vail. È l’epoca delle avanguardie storiche e artistiche, Peggy è attratta moltissimo da questo mondo: durante gli anni del matrimonio con Vail conosce personalità come Man Ray, per cui poserà, Jean Cocteau, Kiki de Montparnasse, Ezra Pound, con cui giocava a tennis, Gertrude Stein e James Joyce, Constantin Brâncuși e Marcel Duchamp. 

Il matrimonio con Vail fallisce nel 1928 e lei si trasferisce in Europa vagando tra Londra e Parigi con i suoi due figli, Sinbad e Pegeen. Nello stesso anno conosce a Saint Tropez uno scrittore raffinato ma alcolizzato, John Holms, che diventa uno dei suoi grandi amori, morto nel 1934 a soli trentasei anni per una banale operazione al polso. Nel gennaio del 1938 è a Londra e insieme a Jean Cocteau inaugura la galleria Guggenheim Jeune: è il suo battesimo da mecenate dell’arte, la prima di una lunga serie di collezioni che la consacrano a più importante sostenitrice dell’arte contemporanea.

Nella galleria espone opere di Picasso, Jean Arp, Max Ernst, Tanguy (con il quale nel frattempo ha intrecciato una relazione), Kandinskij, Brâncuși, Braque, un tripudio di artisti di avanguardia, corrente artistica a cui l’avevano avvicinata in particolare gli amici Samuel Beckett e Marcel Duchamp. L’anno successivo Peggy decide di far diventare la galleria un vero e proprio museo, ma sopraggiunge la guerra e nel 1941 è costretta a lasciare l’Europa (anche per le sue origini ebree) e ritornare negli Stati Uniti, dove però non si arrende nemmeno di fronte alle crescenti difficoltà generali dovute allo scoppio del conflitto mondiale: nel 1942, infatti, inaugura la galleria Art of this century. Probabilmente senza il mecenatismo lungimirante e istintivo di Peggy Guggenheim, non avremmo conosciuto e apprezzato Jackson Pollock, che finanzia sopportandone i capricci e l’alcolismo e che per prima considera il più grande artista del secolo dopo Picasso