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Marisa Bellisario… una leadership tutta al femminile!

Paola Chirico

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Marisa Bellisario (Ceva (CN), 1935 – Torino 1988), tra le figure più rappresentative della  storia M_bebb6b7c75 dell’imprenditoria italiana, è una donna che mi ha sempre affascinato, soprattutto per essere riuscita a raggiungere posizioni di prestigio rimanendo sempre se stessa e conservando le sue caratteristiche femminili in ambienti notoriamente maschili.

Laureata in discipline economiche all’Università di Torino nel 1959, si trasferì a Milano, dove, al suo primo colloquio di lavoro alla divisione elettronica della Olivetti, le fu proposto di lanciarsi nell’esplorazione dell’elettronica nel nuovo mondo dei computer. E lei raccolse la sfida.

Nel 1965 andò in America, dove doti, professionalità ed esperienza maturata negli ambienti aziendali, la resero presto indiscussa protagonista della Honeywell. Fu un’ascesa talmente brillante che nel 1979 venne invitata ad assumere la presidenza della Olivetti Corporation of America.

Fece ritorno in Italia nel 1981 per assumere la responsabilità della Italtel, un complesso di ben 30 aziende, che in quegli anni viveva una fase di acuta regressione. Marisa Bellisario aveva contro la politica aziendale e i sindacati che non credevano alla ristrutturazione, mentre la stampa scriveva che era stata scelta una donna per rendere più soft la chiusura del complesso. Riuscì, invece, nel miracolo di trasformare un complesso di fabbriche da rottamare in una moderna azienda elettronica.

Cambiò 180 dirigenti su 300; avviò progetti innovativi che, suscitarono interesse anche negli Stati Uniti; portò in tre anni il fatturato a 1300 miliardi con un cospicuo attivo; ottenne il consenso dei sindacati al suo piano di ristrutturazione e, soprattutto, la benedizione dei lavoratori.

La Bellisario aveva intuito che una grande azienda moderna non si evolve, né si guida senza una profonda rivalutazione dei
rapporti umani. Non più gerarchie burocratiche, ma gerarchie di merito; non più dipendenti, ma collaboratori, tutti, dai livelli più bassi fino ai vertici dell’azienda. Sfogliando la sua autobiografia si trovano aspetti, riflessioni e considerazioni sorprendentemente attuali: “Mi criticano perché mi trucco gli occhi, tingo i capelli biondo platino, porto la minigonna, cambio pettinatua, metto i pantaloni e scelgo gioielli strani e spiritosi… La lista delle cose che, secondo loro, una dirigente donna non deve fare è infinita.Credo si riassuma nella regola che un dirigente non deve essere donna e se, per disgrazia lo è, deve nasconderlo il più possibile” (…) “Io ho fatto carriera senza imitare modelli maschili e ho utilizzato le mie qualità senza rinunciare, come donna, a nulla d’importante”.

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H. Ibsen… simbolo del femminismo nascente!

 “Nessuno che impari a pensare può tornare ad obbedire come faceva prima, non per spirito ribelle, ma per l’abitudine ormai acquisita di mettere in dubbio ed esaminare ogni cosa” (Hannah Arendt)

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Perché Ibsen? E perché ” Casa di bambola?”… Semplicemente perché si tratta della storia di una donna e dei temi a lei legati come, la libertà, le scelte, l’identità e la ricerca di sé, ma soprattutto del ruolo delle donne nella società di ieri e di oggi e del loro rapporto con la figura maschile.
Personalmente non mi è mai piaciuta la figura femminile troppo devota all’uomo (e Nora, la protagonista del dramma ibseniano, lo era!), quella che si appiattisce sulla sua ombra, e appare quasi soggiogata… Ci sono, purtroppo, ancora delle donne che, per mancanza di consapevolezza, scelgono un ruolo “ancillare”, pur non essendone completamente convinte tanto da sacrificare la propria vita in nome di “certezze” cui non sanno rinunciare… ma qualcuna, o forse, gran parte di esse, per fortuna oggi riesce a liberarsene!.
Quando il dramma di Ibsen viene rappresentato per la prima volta nel 1879, suscita scandalo e polemica ovunque, proprio per la sua lettura, come di un femminismo estremotanto che in Germania, Ibsen fu costretto a trovargli un nuovo finale perché la protagonista/attrice si rifiutava di impersonare una madre da lei ritenuta “snaturata”.
Ma se tutto questo ha fatto di “Casa di bambola” il dramma, forse, più noto di Henrik Ibsen (1828-1906), che scrisse in Italia ispirandosi a una vicenda reale, non per questo lo relega in un passato ottocentesco… anzi, ancora oggi, può essere considerato d’avanguardia per come parla della donna e la renda persona, ancor prima di essere femmina, moglie e madre.
Il dramma, comunque, al di là di ogni contenuto polemico, rimane di una grande complessità moderna perché abitata da personaggi capaci di parlare ancora a noi contemporanei!
Ma veniamo ora alla storia di Nora per comprendere il suo femminismo nascente e il suo insopprimibile  anelito alla libertà!.
Madre di tre figli, Nora é sposata da otto anni con l’avvocato Torvald Helmer, che la considera alla stregua di un grazioso animaletto e di una bambola… E lei sembra felice in questa “gabbia familiare.
La scoperta di se stessa (da parte di Nora) avviene però in modo imprevisto; ad aprirle gli occhi é la reazione di Helmer davanti all’ipotesi di un ricatto che Nora si trova a subire per un prestito che  aveva contratto con Krogstad (impiegato nella banca presso cui Helmer é direttore e che vuole lincenziare) falsificando la firma del padre per salvare la vita al marito ammalatosi gravemente.
Quando Helmer scopre il fatto viene assalito dall’ansia di perdere la propria reputazione, questa angoscia annebbia ogni altro pensiero e, in preda alla disperazione, dichiara a Nora che è una moglie indegna, senza quindi riconoscerle che il gesto era stato dettato dall’amore per lui.
Grazie all’intervento di un’amica di Nora, Kristine, il ricatto che minaccia la famiglia viene annullato ed Helmer appena appresa la felice notizia perdona all’istante la moglie. Ma per Nora, ormai, la vita non può ritornare ad essere quella di prima… tutte le sue illusioni sono state tradite, le sue certezze infrante e decide così di abbandonare la famiglia alla ricerca della sua vera identità e, come lei stessa dice ad Helmer, per “scoprire chi ha ragione, io o la società!”
La vicenda di Nora non è soltanto una polemica sulla condizione femminile del XIX secolo, ma rappresenta anche una testimonianza al desiderio di libertà e all’esaltazione della vita. Ella afferma di non capire queste leggi e di non riuscire a vivere; tutte le leggi che le proibiscono di amare, di essere felice non sono altro che parole scritte in qualche libro che restano tali!.
Prima di ogni cosa Nora vuole vivere pienamente, realizzarsi come persona“, badando a se stessa autonomamente senza essere più la bambola di qualche bambino viziato e come lei stessa dice:“Credo di essere prima di tutto una creatura umana come te… o meglio voglio tentare di divenirlo”. Alla fine é il dolore che trasformerà Nora da “bambola” a “donna”, la sua scelta di rinunciare alla sicurezza della vita matrimoniale per andare incontro a un mondo ricco di incognite e di instabilità coincide con il suo bisogno di una nuova cittadinanza per così dire “esistenziale”.
Nora va via da sola, non fugge con e per un altro uomo, non insegue un altro amore, ma va via perché quel ruolo di “ornamento”, se pure l’avesse deliziata in passato non le si addice più: quindi non più moglie-bambina, ma Donna, una Donna con piena consapevolezza e coscienza di sé.
Ibsen,che era noto per aver sostenuto la causa dell’emancipazione femminile ha voluto fare di Nora una delle prime raffigurazioni letterarie della donna moderna, una pre-femminista capace di ribellarsi alle convinzioni e alla sottomissione sociale a cui era costretta e non a caso l’opera  è stata a lungo considerata  una sorta di “manifesto del movimento femminista”.
Paola Chirico

La storia di Enrichetta Caracciolo… monaca per forza, patriota per amore!

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La storia di Enrichetta, della nobile e potente famiglia dei Caracciolo di Napoli, è la storia di una monacazione forzata – come tantissime, a partire dal medioevo -, di una incredibile prevaricazione, ma anche di una ribellione ostinata  e di un meritato riscatto. La storia di una donna destinata a vivere in un’epoca in cui un articolo del Codice Civile consentiva ai genitori, se non di costringere le proprie figlie a prendere i voti, di rinchiuderle in istituti religiosi. Giovane, bella e intelligente, Enrichetta ha la sfortuna di nascere a Napoli nel 1821, durante l’ultimo regime dei Borboni. Alla morte improvvisa del padre, Fabio Caracciolo, maresciallo borbonico discendente dai principi di Forino, Enrichetta, ancora adolescente, viene affidata alla tutela della madre (Teresa Cutelli, gentildonna palermitana) che, avendo deciso di risposarsi, la manda in monastero contro la sua volontà, continuando in tal modo la radicata tradizione del “convento”come destino da cui era esclusa la primogenita.

Enrichetta, quinta di ben sette figlie, parte quindi alla volta del monastero di San Gregorio Armeno a Napoli, dove prende i voti nel 1841. Qui si scontra con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti e per lo più analfabete che le rendono la vita difficile tanto da pensare di evadere a tutti i costi.
Colta e amante degli studi, ben presto si procura la fama di “rivoluzionaria”comprando, senza nascondersi, i giornali dell’opposizione che legge ad alta voce nel convento approfittando della libertà di stampa concessa da Papa Pio IX. Incoraggiata dal clima di speranza riposta nel Papa liberale, nel 1846 presenta al pontefice la prima di una lunga serie di istanze per ottenere lo scioglimento dei voti o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute… suppliche destinate purtroppo a naufragare per l’ostinata opposizione del nuovo arcivescovo di Napoli Sirio Riario Sforza (1810 – 1877), che nutre per Elisabetta un disprezzo profondo perché donna colta e non sottomessa. In convento la Caracciolo fa la sagrestana, respinge le proposte oltraggiose dei preti e, nel 1848, legge a voce alta la stampa liberale, diventando, di fatto, anticlericale e repubblicana. Ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferisce dare fuoco alle sue memorie.

Nel frattempo autorizzata dal Papa, si trasferisce nel Conservatorio di Costantinopoli, ma Riario Sforza le impone, per ripicca, di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache. Ma nemmeno a Costantinopoli Enrichetta ha vita facile: la badessa le sequestra i libri, tra cui alcuni scritti del Tommaseo e del Manzoni, le impedisce di suonare al pianoforte i brani di Rossini e di scrivere lettere o tenere un diario. Enrichetta, nonostante tutto, continua a inviare lettere, nascondendole nel cesto della biancheria sporca, grazie alla complicità di una domestica. Ma alcuni suoi scritti, pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vengono inviati a Pio IX affinché non ceda alle suppliche di Teresa Cutelli (ora separata dal marito e riconciliatasi con la figlia) per la libertà di Enrichetta. (altro…)