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Guerra in Ucraina, uomini soli al comando. Dove sono le donne?

Summit dei vari uomini di potere!

In questa tragica e assurda guerra le donne non ci sono ai tavoli dove si decide il futuro mondiale.

Le abbiamo viste negli scantinati, abbracciate ai loro bambini, ripararsi dai missili che cadevano sulle loro case; le abbiamo seguite mentre erano in fuga sugli autobus salutare con le lacrime agli occhi i figli e i mariti che restavano a combattere; abbiamo partecipato al loro strazio quando si facevano spazio nelle stazioni ferroviarie nel tentativo di salire su un treno, verso una salvezza oltre confine.

Quando scoppia una guerra le donne se non possono arruolarsi e restare a combattere, scappano con quello che hanno di più caro: i loro figli. Possiamo solo immaginare il dolore di dovere abbandonare casa e affetti e affrontare un viaggio pieno di incognite con dei bambini da accudire.

Servono pannolini, cibo, acqua pulita e tante parole rassicuranti per i più piccoli costretti ad assistere a scene di distruzione e disperazione. Ė qualcosa di così doloroso che non vorremmo accadesse mai a chi amiamo e che dobbiamo proteggere.

Succede, invece, in tutte le guerre e sta accadendo anche in Ucraina. Tutte le mamme del mondo sognano per i loro figli una vita fatta di opportunità e traguardi ambiziosi che si possono raggiungere solo dove regna la pace, uno tra i beni più preziosi da conquistare e mantenere.

Lo dimostrano i tanti conflitti disseminati nel pianeta e spesso dimenticati dai media. Sono le donne con i loro piccoli quelle che pagano il prezzo più alto nelle zone di guerra, spesso vittime di stupri usati dagli eserciti come armi per umiliare il nemico.

In questa guerra in Ucraina non ci sono donne ai tavoli dei negoziati. Abbiamo visto delegazioni di soli uomini, capi di stato, generali, ministri, mediatori. Si susseguono solo volti maschili che parlano un linguaggio aspro.

A un certo punto Putin è apparso a sorpresa circondato da donne, tutte hostess dell’Aeroflot, la compagnia di bandiera russa, sedute a un tavolo senza più le distanze alle quali ci aveva abituato. Un’immagine non scelta a caso dal leader russo: quella di un uomo solo al comando che parlava rilassato a delle donne silenti e per forza ubbidenti, in ascolto del loro capo.

Ė preoccupante l’assenza di figure femminili nelle stanze dove si prendono decisioni in queste ore. Appare come una mosca bianca sul palcoscenico mondiale della guerra in Ucraina, Ursula von der Leyen, spesso scambiata come un’accompagnatrice nelle visite ufficiali, fatta sedere su divanetti a parte o smentita dai suoi stessi colleghi come è successo di recente quando ha annunciato che ci sarebbe stato l’ingresso dell’Ucraina nella Unione Europa.

Servono più donne in politica, perché per natura hanno una predisposizione alla cura e tendono a proteggere quello che viene messo nelle loro mani. Nelle donne non c’è la stessa forza distruttrice che prende il sopravvento quando a decidere sono solo uomini.

Lo abbiamo visto in più occasioni, anche durante la pandemia, con i paesi governati da donne che hanno avuto meno danni per il Covid.

Quando a governare sono solo uomini, senza il punto di vista femminile e l’apporto dell’ingegno femminile, l’umanità tutta perde. È triste vedere scene strazianti delle donne ucraine in fuga dalla guerra e a quelle costrette a vivere in campi profughi, sono quasi dieci milioni.

E insieme a loro non scordiamoci di quelle private dei loro diritti più elementari, come le afghane, alle quali i talebani continuano a negare l’istruzione, unica vera chiave per una donna di costruirsi un futuro indipendente.

Le guerre non sono mai la soluzione e chi esalta l ‘uso delle armi temo non abbia mai visto il loro effetto. Lasciano solo odio, fame e morte.

Il ricordo delle donne “ribelli” di ieri. Una riflessione, oggi!

La violenza contro la donna, in tutte le sue forme, è sempre un’espressione conclamata di disprezzo verso il genere femminile e non può mai essere banalizzato.

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Una foto di gruppo scattata negli anni Trenta che proviene dal dipartimento di salute mentale della Asl di Teramo

Gli ospedali psichiatrici esistevano in Italia già dal XV secolo, privi di normative, spesso fatiscenti, luoghi di sperimentazione, dove il malato era sottoposto a torture piuttosto che a cure e terapie, condannato a un vero e proprio regime di detenzione. La prima legge a regolamentarli è quella del 1904, proposta due anni prima da Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno D’Italia. Era una legge che comunque non teneva conto del malato come persona con i propri diritti e bisogni, sanciva il principio secondo il quale a essere internati potevano essere anche persone che non avevano un disturbo psichico, ma che erano ritenute pericolose e improduttive, o semplicemente di “pubblico scandalo”.

Con l’avvento del fascismo le cose peggiorarono. Il Codice Rocco entrò in vigore nel 1931 e stabilì che gli internati fossero iscritti al casellario giudiziario. Ciò che agevolava ulteriormente l’internamento di molte persone non malate era il fatto che a segnalarle alle strutture poteva essere chiunque, mentre la testimonianza del soggetto segnalato non veniva considerata.

Fra la popolazione, a pagare il prezzo più alto furono le donne: madri, mogli, figlie, vedove, artiste rinchiuse nei manicomi perché non corrispondevano al modello di donna promosso dallo Stato. La donna, infatti, doveva assolvere il solo ruolo a lei destinato, quello di accuditrice della famiglia e soprattutto genitrice di nuova prole per favorire lo sviluppo della patria. Erano considerate “donne deviate” quante rifiutavano con determinazione di sposarsi o di avere una gravidanza e chi voleva proseguire gli studi anziché dedicarsi alla vita domestica.

Spesso erano gli stessi famigliari a condurle negli istituti psichiatrici, giudicando figlie o sorelle insane per quell’atteggiamento trasgressivo, l’abitudine a uscire da casa troppo spesso, a dedicarsi a hobby e amicizie trascurando i propri doveri di donne, mogli o madri. Bastava dimostrarsi apertamente insofferenti a queste regole, cercare una vita differente a quella impostata dalla società dell’epoca, essere tenaci e libere, per essere considerate sovversive, pericolose, di scandalo pubblico.

Le bambine di qualunque età, specie se orfane, a volte passavano direttamente dall’orfanotrofio all’istituto di igiene mentale. Lo Stato imponeva che fossero le province di pertinenza a sostenere le spese di mantenimento di quanti erano rinchiusi nei manicomi; anche per questo molte famiglie povere o incapaci di prendersi cura dei figli iperattivi o con lievi disabilità decidevano di internarli. Le spese di trasferimento dai più remoti paesini fino alle strutture psichiatriche erano interamente a carico dei comuni di provenienza. Era nell’interesse della nazione confinare nel buio e nel silenzio dei manicomi i più deboli  o per “deficienza etica e amoralità come nel caso delle prostitute

Si entrava in istituto per un periodo di osservazione e si poteva non uscirne più. I criteri di giudizio dei medici si basavano sul modello di normalità che lo Stato aveva stabilito, menzionando spesso nelle cartelle cliniche delle pazienti il fattore endogeno congenito o acquisito che ne rappresentava la condizione favorevole allo sviluppo delle malattie mentali. Tutti i comportamenti ritenuti “trasgressivi” erano sintomo di alienazione mentale.

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Michelina De Cesare: partigiana, guerrigliera e donna

Nel 1861, a unificazione avvenuta, l’Italia non era come Manzoni l’aveva immaginata “una d’arme, di lingue, d’altare, di memoria, di sangue, di cor“( Marzo 1821). Il Nord e il Sud del Paese erano ancora due mondi diversi e lontani, e per conciliarne le differenze culturali, sociali ed economiche sarebbe stato necessario – più che riconoscerle – attuare azioni politiche mirate a una maggiore giustizia sociale. Ciò, purtroppo, non avvenne e i nuovi governanti si trovarono a fronteggiare un fenomeno grave, quanto inaspettato: il brigantaggio, che occupò la scena del primo decennio dell’Italia unita.

I briganti erano eroi violenti e romantici, idealisti e attaccabrighe, i cui nomi e la cui fama mascheravano la miseria e l’ignoranza da cui cercavano di riscattarsi (contro tutto e tutti), incuranti della Storia, che, invece, stava delineando un nuovo mondo destinato a poggiarsi, ancora una volta, sulle spalle dei più deboli.

Accanto a loro giovani donne, povere come si poteva essere poveri nell’Ottocento, ignoranti, coraggiose, sfruttate, disperate e spesso feroci verso una società che chiedeva loro di donare in silenzio e in disparte la propria vita. E la vita se la fecero togliere… le brigantesse! Non furono poche, come si crede, e non furono soltanto “concubine, drude e manutengole” come si usava chiamarle a quei tempi. Accanto ai nomi di queste donne era segnata l’appartenenza a questa o quella banda, poiché le brigantesse facevano effettivamente parte dei gruppi organizzativi del banditismo.

Il loro contributo fu massiccio, alcune divennero capibanda, altre entrarono nella leggenda grazie al coraggio, al sacrificio; e di altre, invece, si ricorda la ferocia sanguinaria che fa pensare a una femminilità ferita, umiliata negli affetti e nell’animo. E tutte ebbero una tragica fine.

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Mi piace ricordare la storia di Michelina De Cesare, la cui vita (come quella di tante altre) è appena accennata in qualche libro di Storia che si rispetti e ricordata solo da chi l’unità d’Italia l’ha intesa come un’invasione, un’imposizione, una guerra sanguinosa e fratricida. Nessuna donna più di Michelina De Cesare è modello esemplare e lampante di resistenza e amor di Patria, uccisa a Mignano, terra che le aveva dato i natali, il 30 agosto del 1868, massacrata da feroci torture e crudeli sevizie per essersi rifiutata di svelare alle truppe piemontesi le varie posizioni locali.

Nata a Caspoli, frazione di Mignano, in provincia di Caserta, il 28 ottobre 1841, Michelina aveva tenuto, sin da giovane, un atteggiamento ribelle, refrattaria alla legge , educata al furto per sopravvivere. Di famiglia poverissima si sposò appena ventenne con Rocco Tanga, che la lasciò vedova dopo appena un anno di matrimonio. Si unì, tempo dopo, a Francesco Guerra , comandante di un fortissimo gruppo di guerriglieri legittimisti, che combattevano contro i piemontesi nel tentativo di riportare sul trono Francesco II, partecipò a ogni combattimento dimostrando abilità strategico – militari atte a prevenire gli attacchi e le imboscate del nemico. (altro…)