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E se… ricominciassi dal principio? Il nuovo romanzo di Lorena Dellapiana.

Genere: Romanzi rosa

Trama:

Bianca ha trentaquattro anni, impiegata comunale in un paesino della cintura torinese, è sposata con un rampante avvocato di origini borghesi. Vive a Torino dove conduce una vita tranquilla e agiata che viene sconvolta un giorno di Settembre: una telefonata in piena notte fa crollare il suo castello di carte. Si trova da un giorno all’altro a dover combattere da sola i suoi demoni. Dopo aver trascorso giorni bui capisce che deve tentare di uscire dal suo guscio per affrontare l’ignoto. Un incontro fortuito le dà lo stimolo per rimettersi in pista.

Ed è proprio quando sta per riemergere dal baratro della disperazione, che segreti scioccanti emergono dalla sua vita passata, verità nascoste che mai avrebbe immaginato tornassero a galla stravolgendo nuovamente la sua esistenza. Tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora non era reale, le persone in cui aveva riposto la sua fiducia, che aveva amato con tutta se stessa non erano come aveva reputato. 

Tra schiaffi morali e colpi di scena riuscirà a ritrovare il suo posto nel mondo, tornando alle origini. A fianco dell’amata zia Imelda e in compagnia dalla fedele cagnolina Stella riuscirà a ricominciare dal principio proprio tra quelle colline di Langa in cui ha trascorso la sua infanzia. 

Perché Leggerlo?

Perché è un romance dinamico e sorprendente: “E se… ricominciassi dal principio?” è una lettura che coinvolge.

La scrittura scorrevole di Lorena Dellapiana ci immerge da subito nelle vicende della trama, al fianco della protagonista Bianca e di chi l’accompagna. Sebbene il romanzo si apra con una tragedia, l’autrice rende la lettura sempre piacevole, profonda, sì, ma senza generare ansie.

Si percepisce la volontà di ricominciare a vivere e venire a patti col dolore, grazie alla narrazione in prima persona di Bianca dove non manca un pizzico di brio e di autoironia, che descrive il coraggio, senza svilire il dolore.

Tutti i personaggi sono intriganti. Descritti con cura e tridimensionalità, offrono tanta varietà di caratteri, di vite e di segreti, che rendono un romanzo di amore e sentimenti imprevedibile, di ampio respiro grazie ai temi trattati che girano intorno all’evidenza che le persone non si conoscono mai fino in fondo.

La narrazione ha un ritmo in crescendo e apprezzo tantissimo che l’autrice non si sia chiusa nel ristretto cerchio della relazione amorosa, magari tra un lui tenebroso e problematico e una lei bellissima e concentrata solo sul lavoro, come capita fin troppo spesso, ma abbia esplorato altro, dando al lettore tanto su cui confrontarsi e riflettere.

Nell’opera troviamo il lutto e come lo si affronta, non in maniera accademica, ma tramite l’esempio unico della protagonista che ci coinvolge nella sua vita; affondiamo le mani nell’amicizia e nei non detti che esistono anche tra chi si affida e confida; sfioriamo la violenza sulle donne, l’adulterio, le bugie che si nascondono dietro un’apparenza perfetta e integerrima; infine abbiamo esempi diversi di unità famigliare, con amore, accoglienza e vicinanza che si contrappongono a supponenza, aria di superiorità e scarsa considerazione.

E se… ricominciassi dal principio?” è un romanzo che appassiona, prende di pancia e di testa, è davvero difficile posarlo, perché ci sono tante cose da scoprire e capire, tanti rapporti di cui vogliamo conoscere l’evoluzione, non solo personali, ma anche lavorativi.

È la vita quella che Lorena Dellapiana mette in romanzo, con tutti i suoi imprevisti, i mille impegni, le cose che capitano e che bisogna affrontare, le brutture, ma anche i regali che possono essere dolci, ancora più belli se arrivano non cercati.

Il libro ci ricorda che non sempre va tutto male e che si può ricominciare a vivere, trovare la luce anche in un labirinto che ci appare solo buio.
Un romanzo che mi ha sorpresa e che, ne sono certa, piacerà non solo alle romantiche, ma anche a chi di solito questo genere lo evita: qui c’è davvero tanto altro a movimentare una trama ben raccontata. 

Lorena Dellapiana nasce a Canelli in Piemonte nel 1974, cresce a Neive, un paese alle porte delle Langhe, dove tuttora lavora come impiegata comunale. Si diploma presso il Liceo Classico “Govone” di Alba e consegue la Laurea in Architettura presso il Politecnico di Torino. Dal 2018 recita nella compagnia teatrale “I Fabulanti di Neive”, associazione di cui è vice presidente, dal 2020 è membro dell’associazione culturale Manganum, con la quale collabora in veste di figurante in occasioni di rievocazioni medievali. 

Circa quindici anni fa si trasferisce a Mango dove, attraverso la finestra di casa, ammira ogni giorno le colline che tanto ama e che hanno dato i natali a generazioni della sua famiglia. É proprio questo radicato attaccamento alla sua terra che porta l’autrice ad ambientare in Langa “E se… ricominciassi dal principio?”, il suo romanzo d’esordio. Ed è qui che Bianca, personaggio principale e voce narrante della storia, ritroverà se stessa e la gioia di vivere quando, a causa di un destino avverso, dovrà cambiare vita e ricominciare dal principio.

Lessico famigliare di Natalia Ginsburg.

“Non fate malagrazie”, “nuovo astro che sorge”, “non riconosco più la mia Germania”, “egregio signor Lipmann”, “il baco del calo del malo” , “sgarabazzi, sempiezzi, sbrodeghezzi”, “addio Luigi undicesimo”… sono solo alcune delle parole, frasi, modi di dire che identificano e rendono unica la famiglia Levi, così come accade un po’ in tutte le famiglie con le storie raccontate che tramandano personaggi e fatti a noi lontani nel tempo e nella memoria.

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg è infatti un romanzo (forse) generazionale e di memoria che narra di cose realmente avvenute e di persone realmente esistete.
Memoria individuale, che diventa memoria collettiva quando la storia della famiglia si intreccia alla storia d’Italia di quel tempo (prima metà del Novecento) e la vive senza subirla, e le sopravvive.

Nuove parole si introducono allora nel lessico famigliare di ognuno dei componenti: antifascismo, campagna razziale, cospirazione, confino, Resistenza e ognuno, con il proprio modo di essere, agisce e combatte affinché queste parole non rimangano vuote, senza significato.

Non è una famiglia perfetta quella in cui l’autrice ha vissuto; genitori d’altri tempi che non badavano troppo ai modi, alle tenerezze e fratelli che si disprezzano anche, che si prendono a botte, che non si danno “spago”, ma che si ritrovano a guardare nella stessa direzione, ad essere dalla stessa parte, nonostante tutto.

Il ricordo rimarrà il filo conduttore, fino alla fine del libro quando, dopo tutte le “avventure” capitate, i vecchi genitori continuano a rievocare storie passate:
“Egregio signor Lipmann, disse mia madre – ti ricordi come diceva? E poi diceva sempre “Beati gli orfani!”.

Diceva che tanti erano matti per colpa dei loro genitori. Beati gli orfani diceva sempre” ”ah non cominciamo adesso con il Barbison! disse mio padre – quante volte l’ho sentita contare questa storia”.

“La pergamena della seduzione”di Gioconda Belli, un romanzo tra storia e invenzione.

La pergamena della seduzione unisce sapientemente una precisa ricostruzione storica della vita di Giovanna la Pazza con una vicenda ambientata negli anni sessanta.

Lucia ha 17 anni, è orfana ed è stata mandata a Madrid a studiare in un collegio di monache. Conosce casualmente un professore quarantenne, appartenente a un’antica famiglia nobiliare. Questi è ossessionato dalla figura di Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, andata giovanissima in sposa a Filippo il Bello. Manuel convince Lucia a indossare antichi abiti, simili a quelli che indossava Giovanna e, raccontandole la vera storia di questa principessa, la fa entrare pian piano nella psicologia della stessa e le fa rivivere il suo passato. Quello che nasce quasi come gioco si rivela un percorso complicato, che coinvolge Lucia e ne stravolge la vita.

L’aspetto più interessante del romanzo è la revisione storica della vicenda di Giovanna, ingiustamente rimasta nei libri di storia come “la pazza”. In realtà, come molti storici hanno confermato, lei era una donna passionale, colta, indipendente, schiacciata dalle ambizioni del marito e da quelle del padre. Tradita da tutti, madre, padre, marito, figli, viene rinchiusa per quarantasei anni, sino alla morte, in una fortezza, senza alcun contatto con il mondo esterno.

Dice l’autrice “qualsiasi donna con la piena coscienza di sè, messa davanti agli arbitri e ai soprusi che ha dovuto affrontare, si sarebbe almeno depressa. E la depressione anche cronica non ha nulla a che fare con la schizofrenia“.

Mi ha avvinto la storia di questa donna, tanto da invogliarmi ad approfondire la sua vicenda umana. Meno riuscita e un po’ morbosa, invece, la relazione tra Lucia e Manuel. Molto abile la scrittrice nell’analizzare la psicologia femminile e gli aspetti dell’innamoramento.

Un romanzo avvincente, ben scritto.

Oltre al libro mi ha conquistato la vita dell’autrice.

Gioconda Belli è giornalista, poetessa e scrittrice. La sua vita è come un romanzo.

Nasce nel 1948 in Nicaragua, in una famiglia di origine italiana, emigrata in Sudamerica per lavorare alla costruzione del canale di Panama. Seconda di 5 figli, Gioconda vive in una famiglie benestante, per cui può studiare e perfezionarsi sia in Spagna che in America. Si diploma in giornalismo a Filadelfia. A 18 anni si sposa con una cerimonia sfarzosa, nasce la prima figlia, Maryam, e Gioconda si comporta come una disincantata signora borghese. 

L’incontro con un uomo che chiama “il Poeta”, di cui diviene l’amante, l’introduce nel movimento del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale: conduce una doppia vita, in apparenza tranquilla borghese, in sostanza rivoluzionaria. Nel 1970 pubblica una raccolta di poesie, in cui esprime le proprie tensioni interne. Ha un’altra figlia, Melissa, si separa dal marito e s’innamora di un dirigente sandinista, Marcos (Eduardo Contrera Escobar), impegnandosi attivamente nel movimento.

Nel 1975 affida le figlie ai genitori e fugge in Messico, per evitare l’arresto. Si stabilisce in Costa Rica dal 1976, per decisione di Marcos, per organizzare i rifugiati. Marcos viene ucciso e per Gioconda è un grande dolore, anche se lui l’aveva abbandonata per un’altra donna. Divorzia dal marito e si fa raggiungere dalle figlie. Sposa il brasiliano Sergio de Castro, da cui ha un figlio, Camillo. Intensifica il proprio impegno politico, viaggiando molto per perorare la causa sandinista. 

Tornata in patria, nel 1979, in seguito alla vittoria del fronte sandinista ottiene cariche all’interno del governo rivoluzionario. Quando potrebbe vivere tranquillamente, s’innamora pazzamente del comandante Modesto, uno dei membri della Direzione Nazionale, e rompe il matrimonio, iniziando una relazione complessa. Divergenze con il partito spingono Gioconda a dimettersi dalle cariche e prendere un periodo di ripensamento. 

Nel 1984 incontra il giornalista americano Charlie Castaldi, che sposa nel 1987. Inizia una seconda vita, tra America e Nicaragua, dedicandosi prevalentemente alla letteratura. Ha un’altra figlia, Adriana. La raccolta di poesie La costola di Eva ottiene successo internazionale, così come il primo romanzo La donna abitata, pubblicato nel 1989. Seguono: Sofia dei presagi, Waslala, Il paese sotto la pelle, La pergamena della seduzione L’infinito nel palmo della mano.

Due cose che non ho deciso io hanno determinato la mia vita: il paese in cui sono nata e il sesso col quale sono venuta al mondo […] Non sono stata ribelle fin da piccola. Al contrario. Niente faceva presagire ai miei genitori che la creatura ammodo, dolce e garbata, delle mie fotografie infantili si sarebbe trasformata nella donna rivoluzionaria che tolse loro il sonno. […] Sono stata due donne e ho vissuto due vite. Una delle due donne voleva far tutto secondo i canoni classici della femminilità: sposarsi, fare figli, nutrirli, essere docile e compiacente. L’altra aspirava ai privilegi maschili: sentirsi indipendente, essere considerata per se stessa, avere una vita pubblica, la possibilità di muoversi, amanti. Ho consumato gran parte della vita alla ricerca di un equilibrio tra queste due donne, per unirne le forze, per non essere dilaniata dalle loro battaglie a morsi e graffi. Penso di avere ottenuto, alla fine che entrambe le donne coesistessero sotto la stessa pelle. Senza rinunciare a sentirmi donna, credo di essere riuscita a essere anche uomo“. ( da, Il paese sotto la pelle)

paola

Il libro del mese… “La vergogna” di Annie Ernaux

“Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri”.

Breve sinossi…

Romanzo dell’infanzia e dei suoi abissi, la vergogna ricostruisce con spietata lucidità una presa di consapevolezza: quella di una bambina di dodici anni testimone della “scena” spartiacque, rimasta a lungo indicibile, che le fa scoprire di colpo di essere dalla parte sbagliata della società. Inventariando i linguaggi, i riti e le norme che delimitavano il suo pensiero e la sua condotta di allora, Ernaux sprofonda nella memoria intima e collettiva – fatta di usanze, espressioni e modi di dire – e scompone l’habitat del mondo in cui era immersa: la scuola privata, i codici della religione cattolica, il culto della “buona educazione”, le leggi non scritte ma inviolabili della gerarchia sociale.

Come nessun altro, Annie Ernaux riesce a mettere a fuoco con bruciante distacco – da esemplare “etnologa di se stessa” – la più indifesa delle età, raccontando quel violento e reiterato sconcerto che è l’ingresso nella vita adulta. Da qui la Vergogna.

Ma che cos’è la vergogna? É un sentimento che sorge nel momento in cui si lascia l’infanzia e l’innocenza che appartiene a quel periodo della nostra vita.

Annie Ernaux

E quando succede? Nel caso di Annie Ernaux c’è un episodio ben preciso: un atto di violenza commesso dal padre verso la madre. Una domenica di giugno del 1952 è una data spartiacque nella vita di Annie Ernaux. Aveva dodici anni e si ritrovò ad assistere a una lite violenta tra i genitori, una scena “indicibile”, in cui il padre ebbe l’impulso di uccidere la madre.
Nasce così la “vergogna”, sensazione che la accompagnerà a lungo, separando la bambina che era prima di quella domenica dalla Annie del “dopo”. Nulla sarà più lo stesso, la vergogna le si incolla addosso qualunque cosa faccia. Non ne può parlare, non esistono parole per descrivere un episodio del genere, finché, a distanza di molti anni, decide di scriverne. E nel farlo, le sembra che la scena si ridimensioni, perché:

“Forse la narrazione, ogni narrazione, rende normale qualunque gesto, anche il più drammatico”.

Col suo linguaggio asciutto, spesso erroneamente definito algido e privo di sentimento, magnificamente reso dalla traduzione di Lorenzo Flabbi, la Ernaux tenta di reinserire l’accaduto nel suo contesto, in quel 1952 ormai lontano. Tra fotografie precedenti e successive a quella domenica, in cui cerca di individuare il tratto caratteristico della vergogna percepita, giornali dell’epoca, cartoline e altri, pochi, oggetti personali, l’autrice effettua una ricostruzione quasi chirurgica, lucida della sua vita di ragazzina.

“Quel che mi importa […] è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino inimmaginabile”.

È un viaggio a ritroso verso un mondo che non le appartiene più, verso regole di comportamento cui le sembrava naturale obbedire, verso una religiosità allora vissuta come necessaria, verso la scuola privata in cui, dopo quella domenica, si era sentita fuori posto.

“È la terra natale senza nome in cui, appena vi faccio ritorno, sono subito assalita da un torpore che mi sottrae ogni pensiero, pressoché ogni ricordo puntuale, come se fosse in procinto di inghiottirmi di nuovo”.

Era un paesino, il suo, in cui tutti si conoscevano e si tentava di mantenersi in equilibrio tra le domande fatte agli altri per estorcere informazioni sulla loro vita e l’esigenza di rendere inaccessibile la propria.
C’erano le ville dei ricchi e il quartiere come quello in cui viveva, abitato da persone che non si sognavano di mescolarsi a una classe sociale più elevata. La scuola privata consentiva una certa elasticità da questo punto di vista, sotto l’egida del cattolicesimo. Ma dopo quella terribile domenica, anche questo era stato spazzato via. La vergogna faceva sentire Annie indegna di quella comunità.

“Nella vergogna c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore”.

perché

“La vergogna non è altro che ripetizione e accumulo”.

Anche in altre opere, come Il Posto, si avverte questa sensazione, la vergogna nei confronti della famiglia, del lavoro dei suoi, della stanza in cui vivevano sopra la bottega, con la cucina nel retro, sempre esposti allo sguardo dei clienti.
Qui l’incursione nel passato accentua il distacco dalla Annie scrittrice, che espone al pubblico quello che dovrebbe restare privato.

“Mettere a nudo le regole del mondo dei miei dodici anni mi restituisce per qualche istante l’inafferrabile pesantezza, la sensazione di chiusura che avverto nei sogni. Le parole che ritrovo sono opache, rocce impossibili da smuovere. Prive di immagini precise. Prive persino di senso”.

Significativo, da questo punto di vista, il motto scelto dall’autrice:

“Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo”.
(Paul Auster, L’elogio della solitudine)

La scelta di Anne: il film tratto dal romanzo biografico di Annie Ernaux.

La scelta di Anne” è un film diretto da Audrey Diwan, adattamento cinematografico del libro con il titolo L’evento di Annie Ernaux.

Il libro della scrittrice francese è stato pubblicato in Francia nel 2000, seguito dall’adattamento in italiano a cura dell’Orma editore, pubblicato solo 2 anni fa. La scrittrice nata nel 1940 racconta la sua esperienza autobiografica: si mette a nudo, di fronte ad un inaspettato evento. Quest’ultimo le cambierà la vita e la costringerà ad una scelta molto difficile.

La scrittrice poco più che trentenne, durante la sua carriera di insegnante liceale, deciderà di sposarsi. Pochi anni dopo fará parte del movimento femminista, e durante gli anni settanta scriverà articoli sulla rivista Le Monde.

La sua attività di stesura si tramuta in romanzi, dove decide di raccontare alcuni avvenimenti che le hanno segnato la vita. Tra le quali una notte di follia che la porterà ad una gravidanza indesiderata e inaspettata, che la condurranno nel difficile cammino dell’aborto clandestino.

Infatti nel 1963 quando da studentessa universitaria, scopre di aspettare un bambino non si dà pace.

Anne ha bisogno di non far nascere quella vita, ricorrere all’aborto in Francia era ancora illegale. Nessun dottore sembra voler mettere a rischio la propria carriera e la salute della paziente.

La sua vita è appesa a un filo, quando finalmente riuscirà a trovare una donna in grado di aiutarla in quest’impresa. Un film durissimo, potente, che lascia senza fiato, un vero pugno nello stomaco.

Una visione che non può lasciare indifferenti, e a testimoniare il suo successo il premio come miglior film alla 78a Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia.

Quella di Anne sembra una vita divisa in due, nonostante l’umile vita riesce ad istruirsi, frequentando l’Università di Rouen. Il confronto tra due mondi completamente opposti, dove entra in contatto con persone di un rango più alto.

Sembra che la vita della giovane donna sia duplice, ciò è ben visibile anche nel film. Ostile spesso, fredda ma schietta e decisa nelle sue scelte. Sua madre, prima di lei aveva perso un bambino, lei decide di abortire. Sembra paradossale, ma è chiara l’intenzione della scrittrice di segnare una cesura, l’inizio di una nuova era, quella della libertà e della emancipazione femminile.

I suoi romanzi, però, sembrano seguire un filo ben preciso, si guarda all’interno, ci ritroverà un vero e proprio mondo, come ella stessa annuncia nel romanzo “Gli anni”.

L’emancipazione di una donna che non vuole rinunciare ai suoi sogni, un viaggio che l’autrice percorre a piccoli passi. Ma l’impatto è fortissimo, travolgente, stravolge il lettore lasciandolo inerte, di fronte la forza di una ragazza.

Annie narra i luoghi, le emozioni che prova; di un’esperienza dolorosa una testimonianza sotto forma di cronistoria, nella quale è autrice e protagonista allo stesso tempo.

Ella è costretta a fare i conti con una vita dentro di sé, non voluta, una libertà che è costretta a ricercare a tutti i costi, battendo addirittura la paura, quando la dottoressa le annuncia: “a suo rischio e pericolo”. La vergogna è complice della corazza con la quale la giovane si copre, la paura di essere giudicata.

Straziante è inoltre la ricerca di un dottore disposto ad aiutarla nell’interruzione, guidati da questioni etiche, morali ma in quegli anni soprattutto legali.

Un film in grado di scuotere gli animi e permettere una profonda riflessione, verso un tema più attuale che mai.

Annie Ernaux così scrive del film che narra l’esperienza da lei vissuta: “Uscendo dalla sala di proiezione di L’Événement, ero molto commossa, non ho avuto altro da dire a Audrey Diwan che queste parole: Hai fatto un film giusto… iI film non dimostra , non giudica, né tantomeno drammatizza. Segue Anne nella sua vita e nel suo mondo da studentessa, tra il momento in cui aspetta invano l’arrivo delle mestruazioni, e quello in cui la gravidanza è alle sue spalle, in cui l’evento ha avuto luogo.”

E, ancora, per Ernaux è giusto che il film racconti le pratiche alle quali le donne hanno fatto ricorso prima della legge Veil, che ha depenalizzato l’aborto in Francia nel ’75.

Le sequenze dell’aborto, pur ellittiche, sono sensoriali e immersive fino al limite del sopportabile.

Annie Ernaux e Audrey Diwan entrano nei dettagli perché sono i dettagli che uccidono.

Le sorelle Field di Dorothy Whipple

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                                                      andrea kowch

Di sorellanza ha molto parlato il movimento femminista, nel senso della solidarietà tra donne, per aiutarsi concretamente e affermare, insieme, con più forza, i propri diritti  superando le disparità di genere. I percorsi della sorellanza, sebbene funestati da ripensamenti e inevitabili competizioni, sono ancora attivi e forniscono tuttora elementi per riflettere, essendo probabilmente l’eredità più utile e vivace degli anni Settanta del secolo scorso. Ma il rapporto tra sorelle, unite dal vincolo famigliare, non è meno ricco di implicazioni. Pensiamo alle sorelle celebri della letteratura, le Austen, le Brontȅ, le Woolf, le De Beauvoir e quelle che abbiamo incontrato nei loro libri, come le sorelle March, che una certa critica, ormai superata, identifica pari pari con le Alcott.

Nel romanzo  Le sorelle Field, di Dorothy Whipple, per la prima volta tradotto in italiano da Simona Garavelli, troviamo Lucy, Charlotte e Vera, orfane di madre, con tre fratelli alquanto scapestrati. Pubblicato nel 1943, ma ambientato alla fine degli anni Trenta del Novecento, sorprende per l’attualità dei temi e la scrittura fluida eppure puntuale, il tocco lieve e profondo insieme con cui vengono tratteggiate le protagoniste. La narrazione trascura quasi subito i fratelli, emigrati in Canada o rimasti a Londra, del tutto ininfluenti nella storia e si occupa invece delle sorelle che, con caratteri e temperamenti diversi, approdano a matrimoni altrettanto diversi.  L’abbiamo imparato nei romanzi di Jane Austen e misurato sulla nostra pelle, fino alla metà del secolo scorso, che le donne non potevano sottrarsi al destino di mogli, pena l’invisibilità sociale e la precarietà economica, quindi anche le Field scelgono la loro strada nella vita sulla base delle pressioni ambientali e dell’educazione ricevuta.

Dorothy Whipple, quando rimproverata perché ai suoi romanzi mancava intreccio o lieto fine,  usava dire che non scriveva libri di trama, ma di personaggi e questo romanzo rivela la sua complessità proprio nella definizione dei caratteri delle sorelle e nelle loro  scelte, prospettando anche il tema, tristemente attuale, della violenza psicologica nel matrimonio. Quella lama sottile che taglia di netto l’autostima e fa vacillare la sicurezza, nutrendosi di ambiguità tra il fuori-società e il dentro-famiglia, così da rendere poco fattibile la ribellione a un marito autoritario.

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