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Voglia di cinema: “La vita delle donne”.

Fotografia di Filippo Ilderico

The Hours è un film del 2002 diretto da Stephen Daldry e interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman, che per questa interpretazione ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista nel ruolo di Virginia Woolf.

Nel 1923 in Inghilterra, una Virginia Woolf (Nicole Kidman) annoiata dalla troppo tranquilla vita di campagna comincia a scrivere il suo celebre romanzo Mrs. Dalloway.

Nel 1951 a Los Angeles, Laura Brown (Julianne Moore) incinta del secondo figlio scopre di non voler essere madre mentre prepara una festa di compleanno per il devoto marito.

Nel 2001 a New York, Clarissa Vaughn (Meryl Streep) cerca di salvare l’amico poeta Richard malato di AIDS organizzando una festa in suo onore.

Le storie di queste tre donne si intrecciano continuamente e le parole di Virginia Woolf, man mano che scrive, sembrano cambiare le sorti delle due signore Dalloway nel futuro. 

Dietro suggerimento dei medici, Virginia è costretta a vivere nella campagna inglese col marito Leonard a causa della sua instabilità mentale, mentre lei vorrebbe tornare nella capitale per stare in mezzo alla gente. È forse da questo desiderio che prende spunto per il suo romanzo; l’intera vita di una donna viene raccolta in un unico giorno, mentre organizza una festa nella grande città. 

Alienata dalla routine monotona e grigia che vive fuori Londra, la scrittrice tenta in tutti i modi di tornarci, con un treno o col pensiero, convinta che lì risieda la sua felicità.

Laura Brown è moglie, madre e casalinga in attesa del secondo figlio. Sembra avere tutto quello che una donna di quell’epoca può desiderare per se stessa, eppure è infelice e incapace di amare la propria famiglia. Il giorno del compleanno del marito decide di preparare una torta insieme al figlio di pochi anni, Richard. I programmi della giornata vengono interrotti della visita dell’amica Kitty, che le confessa di essere sterile e quindi di non poter avere un bambino: l’unica cosa che voleva veramente è anche l’unica che non è in grado di fare.

È in questo momento che Laura capisce di non essere nata per essere madre. Lei non ha mai provato il desiderio di maternità che prova Kitty e il fatto di essere madre non l’ha mai fatta sentire più donna o più completa, mentre, al contrario, l’amica dichiara che a suo parere, non ci si può definire donna finché non si diventa madre.

Durante la giornata la sua mente vaga e, leggendo il romanzo della scrittrice inglese, pensa in un primo momento al suicidio, ma cambia infine idea decidendo di aspettare fino alla nascita del secondo figlio per abbandonare la sua famiglia per sempre. 

Clarissa Vaughn vuole organizzare una festa per l’ex amante ed amico poeta malato di AIDS che ha recentemente vinto un premio prestigioso per le sue opere. Anche in questo caso la donna inizia la sua giornata tentando di essere positiva e fiduciosa, ma una prima breve visita al poeta mette in discussione il suo umore.

L’amico dichiara di essere stato vivo per lei fin troppi anni e che doveva lasciarlo andare. Queste parole tortureranno Clarissa durante tutta la giornata e la preparazione della festa. È davvero lui ad essere sopravvissuto per lei o, forse, il contrario?

Tutte e tre queste donne sono rimaste vive per qualcun altro e hanno cominciato le loro giornate mascherandosi da persone felici per qualcun altro; Virginia Woolf, alla fine del film, e le altre due, alla fine di questa giornata particolare, si saranno liberate dei loro pesi.

La prima si toglie la vita per donare speranza al marito a cui scrive nella lettera d’addio: “so che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti”. La seconda, Laura, non riesce a suicidarsi con un bimbo in grembo e per questo aspetterà di partorirlo per andarsene e non tornare mai più. La terza, Clarissa dovrà essere salvata da qualcun altro che si sacrificherà per lei, liberandola dal senso di colpa. 

Virginia, Laura e Clarissa appartengono a tre epoche e tre vite completamente diverse: un’artista, una casalinga e un’editrice. La prima non ha figli; la seconda li ha, ma non li vuole; la terza ha voluto una figlia tanto ardentemente da sottoporsi all’inseminazione artificiale per averla.

Non è la maternità o l’amore ad accomunare queste donne; è più che altro il senso di costrizione e di dovere nei confronti dei più cari. Da un marito sfinito, a un figlio indesiderato, a un amico in fin di vita. Le donne di questo film donano parte della propria vita a qualcun altro, forse più che per amore, per compassione.

Il film propone un’importante riflessione sulla figura femminile, presentando tre personaggi completamente diversi tra loro che vivono in tre epoche distanti. Oltre al genere biologico, c’è poco altro che accomuna queste donne: Virginia è sfrontata, testarda e orgogliosa; Laura è confusa e indecisa; Clarissa è affettuosa ed emotiva. La domanda che sorge spontanea è: la compassione provata da queste donne è un fattore comune legato al sesso, al carattere o forse più al genere femminile come concepito dalla società

Cerchiamo l’estate…

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«Sai che dice il Rig-Veda?
La bellezza sorprende ogni giudizio;
e l’amore non sa contare i giorni».

-=o*o=-

Amici 
mi prendo del tempo
prima che l’estate trascorra
vorrei
(dovrei)…
sorridere ai giorni
leggere camminare
… e avere cura

Buona estate a tutti, ci rivedremo ai primi di settembre!

Paola

 

E quando tutto sarà finita, pensiamo alle cose serie!

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Quando la crisi finirà, ci sarà tanto di quel testosterone da smaltire nell’aria, nella comunicazione politica, nel modo di governare e di intendere l’autorità, che i diritti delle donne rischieranno di essere scacciati via come una spruzzata di lacca molesta.

Se fino a ieri le cose serie si declinavano al maschile, da domani non si tratterà soltanto di quelle serie, ma della nostra sicurezza, dello spirito di sacrificio necessario per risorgere come comunità, della volontà comune di ripartire. E in quella volontà comune, le aspirazioni delle donne e i loro progetti di vita saranno ammennicoli graziosi che possono abbellire gli scaffali in tempo di noia, ma che in caso di emergenza devono essere spazzati via da un braccio possente e muscoloso, senza esitare, per fare spazio a quello che conta.

Nessuno ci dice abbastanza che quello che conta, ora, per salvarci, non sono le misure sempre più autoritarie, non sono i politici che fanno la voce sempre più grossa e neanche i militari o le forze dell’ordine.

Senza nulla togliere al buon senso e alla necessità e all’importanza di restare in casa, in questi giorni a salvarci sono state la fantasia e la creatività e la generosità, di chi crea mascherine in 3D, di chi si reinventa professionalmente in un batter di ciglia, di chi regala il proprio lavoro, crea piattaforme on line, di chi sa che i problemi esigono soluzioni, non solo divieti.

Quando la crisi finirà, sarà facile, fin troppo facile, lasciarsi convincere che non c’è spazio per i sogni di tutti e che quelli delle donne devono essere i primi a cadere, per lasciare posto agli altri.

Allora cominciamo da adesso a ricordarci che non esiste un solo modo di gestire la società, che i sacrifici non hanno genere, che nessuno potrà venire a dirci che il lavoro delle donne conta di meno o è meno utile per ripartire e che tutto questo sfoggio di autorità e potere sulla vita delle persone è un vizietto a cui più d’uno farà fatica a rinunciare, soprattutto in una società in cui i maschi ultracinquantenni si aggrappavano al potere con i cerotti di un ego smarrito, e non è che l’altra faccia dei sorrisi paternalistici con cui hanno guardato al nostro impegno fino a ieri.

Fonte: rosapercaso.wordpress.com

Il 14 aprile 1986 moriva Simone de Beauvoir, madre del femminismo moderno.

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A volte sono proprio le ricorrenze a riportare a galla alcune figure della storia del genere umano e con esse i loro pensieri, le loro parole e le loro azioni che hanno influenzato o modificato molte sfaccettature di un mondo complesso. Oggi, nell’anniversario della scomparsa (14 aprile 1986) mi piace ricordare una tra le figure più importanti e fondamentali nella storia del femminismo: Simone de Beauvoir.

Simone de Beauvoir, nata a Parigi il 9 gennaio 1908,  è stata una presenza di forte impatto sulla filosofia del XX secolo. Di madre e padre borghesi, studia filosofia alla Sorbona, luogo in cui avviene l’incontro con l’uomo che l’accompagnerà, dal 1929 in poi, per il resto della vita: Jean-Paul Sartre. Tra i due si instaura un legame solido e duraturo, ravvivato e rinsaldato costantemente nella stima reciproca e nel profondo affetto del rapporto (che tuttavia mai li fece convolare a nozze).

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L’amicizia – se così si può intendere – tra i due porta a ritrovare nel pensiero di Simone de Beauvoir un riconosciuto velo sartriano. L’esistenzialismo della filosofa si dirige però, a differenza del compagno, verso un terreno molto più concreto e calato nel reale. Pensatrice molto più pragmatica che astratta, dai molti concetti densi e contestualizzati nel vissuto piuttosto che tendente a teorie e speculazioni indirette. È per questo che il suo nome spicca, con gran luce, sul palcoscenico del femminismo del Novecento, con parole quali:

Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo: è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.

Come si può vedere, nessun mezzo termine. Linguaggio che parla senza filtri o artificiosa retorica. Da donna, si schiera con le donne nel dibattito sull’affermazione di un loro ruolo riconosciuto nella società.

Simone de Beauvoir è individuata come irrinunciabile punto di riferimento per una teoria della decostruzione del determinismo biologico, guardando soprattutto alla sua opera Secondo sesso (1949).  Il suo pensiero diventa il principale conforto e punto di riferimento per i movimenti del suo tempo, e oggi è il pilastro degli studi che intendono sottolineare una differenza tra il sesso e il genere.

La donna è un risultato di cultura, una costruzione sociale. Le concezioni della natura femminile sono quindi dei costrutti antropologici, che si basano su motivazioni biologiche: il maschio e la femmina sono distinti anatomicamente, e con il concetto di ‘genere’ si è impostata la società, dando all’uomo e alla donna determinati ruoli prestabiliti.

La donna è stata vittima di preconcetti e acritiche convinzioni sulla propria capacità intellettuale e fisica, e qui si innestano le teorie decostruttiviste che vogliono evidenziare la fallacia di tali impostazioni mentali, individuando e scambiando ciò che appartiene alla natura con qualcosa che invece è prodotto della ‘cultura’. Questo intero discorso è quanto possiamo trovare con evidenza nella legittimazione del sistema patriarcale, ciò che si intende scardinare con i movimenti femministi.

Il poter ricordare oggi Simone de Beauvoir è un’occasione quanto mai ricca di spunti costruttivi per una riflessione di tutto rispetto. Una filosofa, una pensatrice, un’insegnante, un volto deciso e irremovibile nelle sue espressioni – come appare nelle sue fotografie che ci vengono mostrate –, una donna che ha saputo fare storia.

Ma parliamo di un ‘far storia’ alla stregua di un condottiero che lascia impronte profonde sul sentiero che percorre, orme di orientamento per i seguaci e i sostenitori che vogliono imparare e apprendere, almeno in parte, da quel carisma che ha contrassegnato una lotta convinta nel raggiungimento di un obiettivo comune.

 

 

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