
Nell’era dei tuttologi digitali chiunque ritiene di avere titolo per parlare con “competenza” di qualsiasi cosa. Le discussioni sui social network ne sono un plastico esempio. C’è gente che non riesce ad azzeccare il quoziente di una divisione nemmeno per sbaglio, ma nonostante ciò sale in cattedra per pontificare in materia di ingegneria, fisica e chimica.
Ma per i libri è diverso. Se qualcuno ci parla di libri famosi, quei must che è indispensabile aver letto (o “riletto”, come dicono i cultural chic), noi andiamo in crisi perché non conosciamo nemmeno il colore delle copertine. Immediatamente ci assale un senso di disagio, di imbarazzo e addirittura di colpa. Per un attimo rimaniamo sospesi, fra la ricerca del coraggio per confessare che non abbiamo mai letto la Recherche, l’Ulisse, Anna Karenina ed esprimere un commento per non passare da ignoranti.
Eppure, in molte occasioni, riusciamo a cavarcela più che egregiamente. Perché leggere non è solo la fase terminale di un atto cominciato con la creazione da parte dello scrittore, ma è un processo di costruzione del nostro mondo più intimo. Tant’è che non esistono due persone che leggono lo stesso libro nello stesso modo, ovvero ricavandone le medesime sensazioni. La lettura delle pagine, dalla prima all’ultima, non è un fatto meccanico che si esaurisce in sé. Cambia la nostra percezione delle persone e delle cose, cambia il tempo, cambiamo noi. Letti oggi, lontani anni luce dagli obblighi scolastici e da noi stessi, I promessi sposi sono un altro libro.
In questa nuova dimensione che lascia sullo sfondo la lettura come mero esercizio sequenziale, ci troviamo immersi in uno spazio dove i nostri ricordi e, talvolta, i nostri fantasmi, diventano i mediatori indiscussi di una ricostruzione tout court del libro. E quest’ultimo è sempre una nostra invenzione, sia che l’abbiamo letto oppure no. È questo l’unico statuto possibile dei libri, cioè quello di (ri)creare continuamente nuovi mondi dentro di noi. Un territorio immaginifico che culmina con il paradosso di Oscar Wilde: “Non leggo mai libri che voglio recensire: non vorrei rimanerne influenzato”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, si collocano le certezze del bibliotecario de L’uomo senza qualità di Musil. Non ha mai letto i libri che conserva sugli scaffali, ma li conosceva tutti. A dimostrazione del fatto che la cultura non deriva dal numero di pagine lette, ma dal senso di orientamento acquisito grazie alla visione d’insieme, derivata, a sua volta, dai segnali che le relazioni con gli altri ci lasciano, volontariamente o involontariamente. È il trucco di Guglielmo da Baskerville.

La lettura, o la non lettura, è sempre un viaggio. Per meglio dire, è il racconto di un viaggio, reale e fantastico allo stesso tempo. Ritornano la memoria, le connessioni, l’invenzione. Pare che Marco Polo non si sia spinto oltre Costantinopoli, eppure il racconto del suo viaggio nelle terre di Kubilai Khan è minuzioso, particolareggiato, verosimile. Ci dice tutto sui liocorni e nulla sulla Grande Muraglia che avrebbe dovuto vedere se davvero fosse stato dove ha detto.
Il mercante veneziano mente solo a sé stesso, perché le sue ricostruzioni fantasiose di animali pseudo-mitologici incontrano le “verità” che il suo tempo voleva ascoltare.
Come per i libri non letti, anche un viaggio che abbiamo fatto, ma che è scomparso dalla nostra memoria, resta un posto che ci ha visti transitare, sostare, pensare.
Alla fine, più che un luogo fisico, il nostro è sempre un viaggio che si snoda, ancora una volta, dentro di noi. In perenne equilibrio fra quello che immaginiamo e quello che non sappiamo.