Lou Salomé a Freud: “Caro professore… la ringrazio con tutto il cuore di avermi trascinata in questa follia; immorale qual sono, traggo sempre il più gran piacere dai miei peccati”. Freud a Lou Salomé: “È assolutamente evidente che Lei mi anticipa e mi completa ogni volta”.
Lou Andreas Salomè nata a Pietroburgo in Russia nel 1861, morta a Vienna nel 1931, esule profuga, “heimatlos” come la si definisce, ossia una senza casa, senza patria. Una “straniera” che dà all’esperienza del viaggio un significato rivoluzionario, un’esperienza di rottura.
Essere senza terra, ma percorrere le strade nella notte, per una donna, diventa un modo di vivere che fa sovvertire i dogmi anche della tradizione del pensiero filosofico e psicoanalitico.
Lou conobbe Freud nel 1911 dopo aver preso parte al Congresso della Società psicanalitica di Vienna. Al termine degli studi divenne lei stessa psicoterapeuta. Donna intellettuale libera, irrequieta e anticonformista, l’innovazione della sua riflessione filosofica si trova nell’aver messo al centro l’eros, l’erotismo delle donne mai indagato, nell’aver dato “valore” alla materia erotica, alla sensualità sempre vista dalla tradizione storica e religiosa come il “male assoluto”.
Una sessualità femminile non subordinata al desiderio maschile ma libera, una sessualità eretica è sempre stata considerata immorale, pericolosa per l’uomo, perché divora e distrugge ciò che è stato fatto seguendo i soli canoni maschili.
I titoli delle sue opere ne sono la testimonianza: “La materia erotica”, “Scritti di psicoanalisi”, “Riflessioni sull’amore”, “Il mito di una donna”, “Eros e conoscenza”, “La rivolta dell’eros”, “Devota ed infedele”, e molti altri ancora. E poi c’è il carteggio con Freud di cui fu allieva libera, appassionata e indipendente rispetto alle idee del padre della psicoanalisi.
Peccato che questa grande teorica e innovatrice dalla cultura profonda, sia conosciuta molto spesso solo come una donna dalla bellezza magnetica, ispiratrice del filosofo Nietzsche e per la tormentata relazione con il poeta e scrittore Rainer Maria Rilke.
“Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci“.
Questa frase così tagliente, che inquadra in maniera tanto lucida la realtà omertosa in cui viviamo, non è stata pronunciata da un politico, da un intellettuale o da un magistrato, ma da una ragazza di 17 anni, che quel mondo, suo malgrado, lo conosceva fin troppo bene. Rita Atria nasce a Partanna, in provincia di Trapani, nel 1974 da Vito Atria e Giovanna Cannova. Suo padre appartiene a una cosca mafiosa trapanese e anche il fratello Nicola segue le sue orme, entrando nella cerchia di un boss locale. Rita entra in contatto con la morte troppo presto. Vito viene ucciso nel 1985, a seguito di un agguato, e Nicola viene eliminato 6 anni dopo, essendo ormai considerato pericoloso perché alla ricerca di vendetta per l’omicidio del padre.
Fino al 1991, Rita conosce solo un mondo in cui è l’omertà a farla da padrona, finché qualcuno non rompe la gabbia di cristallo e comincia a frantumare quel castello di silenzi e violenza: è Piera Aiello, sua cognata, la moglie di Nicola, che ha assistito all’omicidio del marito con la bambina di 3 anni tra le braccia. Piera collabora con la polizia, aiuta a identificare i killer e rompe l’omertà: sotto protezione, viene trasferita a Roma con la bambina.
Nel frattempo, a Partanna, la ragazza si trova sempre più sola: la scelta di Piera è vissuta da tutti come un tradimento dell’onore della famiglia e nessuno sembra voler aver più a che fare con gli Atria. Rita nel novembre del 1991 vede davanti a sé un’alternativa possibile e sceglie di seguire l’esempio di sua cognata: si reca in gran segreto a Marsala dal Procuratore Borsellino per rivelargli tutto ciò che sa sugli affari mafiosi in cui è coinvolta la sua famiglia. Le conseguenze non tardano a ripercuotersi sulla diciassettenne, che, dopo essere stata minacciata e rinnegata persino dalla madre Giovanna, viene trasferita a Roma sotto falsa identità, entrando nel programma di protezione testimoni.
Paolo Borsellino
Il rapporto con Borsellino si fa sempre più intenso, il Procuratore diventa un punto di riferimento per la giovane Rita, che insieme a Piera fornisce informazioni cruciali per l’arresto di decine di mafiosi del trapanese, compreso l’ex sindaco di Partanna Culicchio. “L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.”.
Queste parole risalgono al giugno del 1992, poche settimane prima dell’assassinio di Paolo Borsellino. Purtroppo, dopo aver appreso la notizia della morte dell’unica persona al mondo che le aveva dato ascolto, Rita perde totalmente la speranza e si uccide il 26 luglio, lanciandosi dalla finestra del suo rifugio romano, in Via Amelia. Lascia scritto sulle pagine del suo diario: “Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito. […] Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. […] Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta“.
A Partanna ormai è nota come una fimmina lingua longa e amica degli sbirri e, quando torna nel paese in una bara bianca, al suo funerale non partecipano neanche i familiari. Piera Aiello sceglie la foto e l’incisione per la tomba “La verità vive”: il coinvolgimento della nuora scatena l’ira della madre Giovanna Cannova, che, dando esito a minacce precedenti, distrugge a martellate la lapide della figlia. Sul suicidio di Rita si è scritto tanto, ma una cosa non dobbiamo smettere di chiedercela: perché Rita si è sentita così sola? Perché una nostra testimone di giustizia è stata abbandonata al punto da darsi ormai per morta e scegliere di uccidersi da sola? Cara Rita, non possiamo riportarti indietro, ma, anche grazie a te, non vinceranno loro e forse ce la faremo!.
BIBLIOGRAFIA
Sandra Rizza, Una ragazza contro la mafia, Palermo, La Luna, 1993
Molto si è scritto su quella sorta di dolorosa epidemia di suicidi che caratterizzò la “poesia al femminile” del Novecento. Basti ricordare la triste storia e la solitaria fine della poetessa Antonia Pozzi e della fotografa Francesca Woodman (che si tolsero la vita la prima a 26 e la seconda a 22 anni).
Ma la poetessa milanese e la fotografa americana non furono che due esempi nel lungo e tragico elenco di donne che videro nella morte auto-inflitta una liberazione dal dolore di quel mondo che Pascoli aveva definito un “atomo opaco del male”.
Virginia Woolf
L’inglese Virginia Woolf, scrittrice, saggista e poetessa, animatrice del circolo di Bloomsbury, vivaio di talenti anticonformisti, dove la sperimentazione letteraria e gli amori saffici si alternavano alle lezioni di economia di Keynes, pose termine ai suoi giorni affogandosi nel torrente Ouse (quasi novella Ofelia).
Marina Cvetaieva
Mai dimenticate, poi, la moscovita Marina Cvetaieva, anima nomade e solitaria, impiccatasi ad una trave nella sua abitazione, l’argentina Alfonsina Storni (di famiglia svizzero-italiana del Canton Ticino) che si lasciò annegare nelle acque del Mar del Plata, e ancora la svedese Karyn Boye e poi, appunto, la Pozzi e la Woodman e Anne Sexton, americana autrice dei “Love Poems“, affetta da sindrome maniaco-depressiva (oggi meglio nota come disturbo bipolare) e, ancora, Sylvia Plath, forse la più famosa di questo tristissimo elenco. E infine un’altra poetessa dell’obiettivo come Francesca Woodman: la controversa, inquietante Diane Arbus.
Per quanto diverse siano state le loro singole storie, tutti i loro nomi sono legati dal filo rosso di una nevrosi, di una diversità vissuta come un disagio psichico in grado di usurare quotidianamente ogni residuo contatto col mondo circostante. Hanno sicuramente ragione quanti vedono nel periodo storico, nel breve, funesto trionfo delle dittature nazionaliste, nella persecuzione degli ebrei e nell’ossessione staliniana del nemico interno, una delle cause che favorirono l’estraniamento di alcune delle poetesse uccisesi nel Novecento.
Antonia Pozzi, “malata di nervi”, (così si diceva ai tempi…) soffrì molto anche per la persecuzione di cui furono vittime molti suoi amici ebrei, così come la dolce Marina Ivanovna Cvetaieva che scelse la morte, nel 1941 (come la Woolf), perché ormai incapace di sopportare le vessazioni cui era sottoposta assieme a buona parte degli intellettuali sovietici dal regime staliniano.
Una tesi sostenuta anche da chi era incline a considerare la malattia mentale come una manifestazione di un malessere sociale, primo fra tutti Wilhelm Reich (seguito oltre vent’anni dopo dal nostro grande Franco Basaglia), proprio in quegli anni costretto, lui austriaco ma ebreo, a trovare ricovero negli Stati Uniti che non furono tuttavia per lui la “land of opportunity“. Reich morì infatti nel penitenziario di Lewisburg dove un giudice americano (forse un seguace del senatore McCarthy) lo aveva spedito perché “comunista”, ma in realtà e soprattutto, per i suoi rivoluzionari scritti sulla repressione della sessualità.
Sylvia Plath
E nel Novecento, secolo di guerre mondiali e sanguinose rivoluzioni, di guerre civili e guerre fredde, la “normalità” non era normale. L’enigma di tanti suicidi forse si scioglie tentando di comprendere l’impossibilità di tante poetesse a sintonizzarsi con un’epoca di violenza in cui, pur tuttavia, le donne avevano cominciato la loro lunga lotta per i diritti, dalle suffragette inglesi dei primi del secolo alle femministe del ’68 e oltre.
Diane Arbus
Sylvia Plath e Diane Arbus furono forse gli ultimi “casi” in questa lunga scia di sangue che caratterizzò parte della letteratura femminile del ventesimo secolo. Anche loro forse travolte dallo Spirito del tempo, dalla malattia mentale che incarnava. Molto malata era Sylvia, divenuta un’icona delle generazioni nate nella seconda metà del secolo.
La newyorkese Arbus, di origini russe, manifestò invece il suo disagio interiore attraverso la proiezione dei suoi propri fantasmi sui “Freaks“: nani, gemelli siamesi, ermafroditi ed altri sfortunati esseri umani. Forse sperando di liberarsi delle sue più profonde angosce. Ma non fu così e nel luglio del 1971, Diane perse la sua partita con la depressione e si uccise.
“La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.”
Scomparsa nel 2021 è stata la voce femminile più rappresentativa del New Journalism: preveggente e inaspettata è stata la Cassandra del nostro secolo.
Joan Didion.
Le prime pagine iniziò a scriverle all’età di cinque anni, ricopiando i racconti di Hemingway, ma Joan Didion cominciò a sentirsi una scrittrice solo dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Run River nel 1963. Quasi sessant’anni dopo da quel debutto è inevitabile interrogarsi sull’eredità artistica e umana di una donna che ha attraversato la letteratura di mezzo secolo rimanendo sempre fedele a se stessa e al suo stile narrativo atroce e affilato.
Giornalista, autrice e acuta osservatrice della politica e della cultura americana contemporanea, Joan Didion è scomparsa lo scorso anno per il morbo di Parkinson, che da anni non le dava tregua e che ne aveva assottigliato sempre di più corpo e voce. Tra gli autori più rappresentativi del New Journalism, uno stile giornalistico anticonvenzionale tipico degli Anni 60 e 70, capace di mescolare narrativa e saggistica, letteratura e verità, Didion è stata per lungo tempo in odore di Nobel, fin da quando nel 2005 vinse il National Book Award per la saggistica per il suo capolavoro L’anno del pensiero magico. Un riconoscimento tardivo arrivò dalle mani del presidente americano Barack Obama, che nel 2013 le conferì la National Humanities Medal, quando era già molto debilitata nel fisico.
Joan Didion riceve dal presidente Barack Obama la National Humanities Medal.
Nata a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934, Joan Didion da bambina non frequentò le scuole regolarmente. A causa della professione del padre, membro delle United States Army Air Forces durante la Seconda Guerra Mondiale, era spesso costretta a continui trasferimenti con la famiglia e questo contribuì a fare di lei “un’eterna estranea” come poi scriverà nel suo memoir del 2003, Where I was from.
Timida e riservata, trovò consolazione nei libri, specialmente nelle biografie per adulti per le quali si faceva rilasciare un permesso speciale dalla madre da esibire in biblioteca. Proprio il genere biografico diventò uno degli ingredienti principali della sua prosa, dove al resoconto giornalistico si univa la soggettività dell’autrice, che tra gli Anni 60 e 70 diventò la voce femminile più rappresentativa all’interno di un movimento maschile come il New Journalism, che annoverava autori quali Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Talese.
Joan Didion ha vissuto per molti anni in California, che considerava il suo luogo di elezione.
Nel 1956 si laureò presso l’Università della California con un Bachelor of Arts in Lettere. Durante il secondo anno di studio a 21 anni vinse un concorso di saggistica sponsorizzato dal mensile di moda Vogue che le affidò un lavoro come assistente alla ricerca presso la rivista. In quegli anni lavorò prima come copywriter e poi come redattrice, mentre completava il suo primo romanzo, Run River, pubblicato nel 1963 (Il Saggiatore, 2016)
Successivamente lasciò New York e nel 1964, dopo aver sposato lo scrittore, giornalista e sceneggiatore John Gregory Dunne, si trasferì in California. Nel 1968 pubblicò Verso Betlemme (Il Saggiatore, 2008), il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli sulla propria esperienza in California, dove trascorrerà gran parte della sua vita. Il libro è un disincantato viaggio attraverso la promessa e la dissoluzione della controcultura californiana degli Anni 60, che tanto influenzerà la sua esperienza umana e professionale. “Un luogo – scrisse una volta – appartiene per sempre a chi lo rivendica più duramente, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, lo modella, lo rende, lo ama così radicalmente da rifarlo a sua immagine”.
La visione della serie tvL’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, trasmessa dallaRAI, e, in particolare, una battuta pronunciata da una delle due protagoniste, mi ha indotto ad elaborare alcune considerazioni circa il ruolo della donna nella pittura. Lenù, diminutivo di Elena, che ha già all’attivo il successo riscosso con la pubblicazione del primo romanzo, invitata dal suo interlocutore a leggere libri che parlano di donne, come Madame Bovary, afferma con una certa determinazione il suo desiderio di voler scrivere sull’argomento, in quanto nota come le figure femminili siano sempre state considerate unicamente dal punto di vista degli uomini.
In effetti questo fenomeno si riscontra anche nell’arte figurativa.
L’universo femminile ha sempre e, ovviamente, suscitato l’interesse degli uomini, che tuttavia hanno creato degli stereotipi – l’innocente fanciulla, la moglie, la madre, la prostituta, la femme fatale, ecc. – che in qualche misura hanno condizionato anche le donne, ingabbiandole in una sorta di recita a vita per identificarsi in ruoli pensati dai maschi per piacere ai maschi. Mi rendo conto che il problema è molto complesso, ma qui voglio proporre soltanto alcune brevi riflessioni, che evidenziano come la donna, sia come autrice, sia come soggetto dell’opera sia stata da sempre relegata ai margini della società.
Ad esempio, in pittura, per secoli essa viene presentata o come un personaggio mitologico, di cui viene esaltata la bellezza come in Venere, o la gelosia come in Giunone, caratteristiche che in un certo senso sono legate allo sguardo dell’uomo, ammirato oppure assente, tanto da scatenare passioni ostili, basti pensare a Medea, o a Elena di Troia. Oppure viene raffigurata come una tenera madre, anzi come la madre per eccellenza, la Vergine che tiene in braccio il suo bambino, o ancora si ricorre alla figura femminile per rappresentare un concetto allegorico, la Carità, la Giustizia fino ad arrivare alla celeberrima Libertà che guida il popolo di Delacroix.
Le artiste spesso non vengono neanche menzionate dai biografie ancora oggi stentano a trovare un posto nei manuali di storia dell’arte. Si parla quasi esclusivamente di Artemisia Gentileschi, ma più che per il suo valore artistico, per la triste vicenda personale che la vide vittima dello stupro subito dall’aguzzino Agostino Tassi, o di Frida Kahlo, anche lei proposta quale icona dell’opposizione al capitalismo imperante per quella sua ostinata ostentazione del costume tradizionale messicano e dei baffi, segno della ribellione alle convenzioni, o di Tamara de Lempicka per le sue trasgressioni.
Certo oggi, per fortuna, stanno uscendo dall’ombra artiste notevoli, spesso presenti in varie mostre. Ma le varie Sofonisba Anguissola, Elisabetta Sirani, Fede Galizia, Ginevra Cantofoli, Orsola Maddalena Caccia, che oggi cominciano a trovare il giusto spazio nel panorama culturale della loro epoca, avendo condotto esistenze “normali” senza grandi eventi, hanno dovuto aspettare secoli prima di essere valutate nella giusta ottica, prima che qualche studioso abbia condotto ricerche atte a ripercorrerne le carriere brillanti. Le nobili potevano occuparsi della miniatura, ritenuta un’arte minore, potevano dipingere ritratti,per i quali spesso erano giudicate per l’abito indossato dall’effigiato, più o meno rispettoso della moda del tempo, argomento classificato come “frivolo”, più difficilmente se ne coglieva la portata innovativa in senso estetico, formale, tematico. Le donne si formavano in ambito familiare, non potevano frequentare accademie.
Questa situazione si protrae fino a tutto il Settecento e l’Ottocento.
Faustina Bracci, eccellente ritrattista miniaturista, non riscuote lo stesso plauso dei fratelli, Virginio architetto, Alessandro scultore e Filippo pittore. E ancora nel secolo successivo i primi pittori che spezzano con la tradizione, gli impressionisti, che pur accolgono nel loro gruppo Berthe Morisot, non riescono a concepire le donne fuori dell’ambito domestico, come le Stiratrici di Degas, e se svolgono altre attività, o sono illecite come la prostituzione o sono mansioni a servizio dello svago degli uomini. Le ballerine di Degas servono per far divertire un pubblico borghese costituito anche da donne, ma che vanno a teatro per essere notate, oltre che per assistere agli spettacoli, come si vede in La loggia di Mary Cassatt del 1879 o le Giovani donne nel palco del 1882 (fig. 1).
1) M. Cassatt, Giovani donne nel palco, Washington, National Gallery
Le signorine ben vestite che si riparano con l’ombrellino di Monet, o le figlie di Renoir intente a leggere o a suonare il pianoforte rivelano un immaginario maschile in cui le donne si occupano di faccende futili, come era giudicata allora la moda, o creative come la musica, ma solo per soddisfare un piacere da gustarsi nell’intimità delle quattro mura di una casa. Il non etichettabile Manet dipinge in Angolo di un caffè concerto (fig. 2) una cameriera che sta portando un boccale di birra ad un tavolo dove è seduto un operaio, che si concede una pausa dalla sua occupazione, godendo di uno spettacolo di danza.
2) E. Manet, Angolo di un caffè concerto, Londra, National Gallery
La cameriera e la ballerina, che si vede sullo sfondo del quadro, dunque, servono per il relax dell’uomo, l’unico che pare aver lavorato, come se la dura disciplina della danza o il servizio in un locale non implicassero la stessa fatica. Interessanti, a tal proposito, alcuni studi condotti sui dipinti della Morisot.
Drusilla Tanzi, piccola di statura, obiettivamente bruttina tipo Marcie dei Peanuts, miope a tal punto che sembrava indossare dei bicchieri anziché degli occhiali, spesso malata, è stata la musa principale del grande poeta Eugenio Montale. Il premio Nobel l’ha anche sposata quando entrambi erano avanti con gli anni, nonostante il poeta avesse avuto in tutta la sua vita amanti giovani, belle e colte. Tuttavia ha sempre preferito lei, fino in fondo… come mai?
Molti sottovalutano le potenzialità seducenti di certe donne obiettivamente non belle, ma dotate di altri talenti. Così come molte donne, guardandosi allo specchio e non ritrovandosi nei canoni di bellezza della propria epoca, si scoraggiano e si rassegnano, non considerando che una bruttina stagionata, come ad esempio Drusilla, può avere una vita sentimentale più movimentata di tante donne bellissime.
“Ho conosciuto una simpatica e intelligente sua ammiratrice … porta il bizzarro nome di Drusilla…” con questa lettera di Montale a Svevo, facciamo conoscenza con questa donna, diversamente bella, in uno scritto datato 1927.
Drusilla ha quarantadue anni e Montale trentuno. Lei, inoltre, è sposata e con un figlio. Nonostante tutto tra i due sboccia un sentimento molto forte, che resisterà a molte intemperie. Montale le dà il nomignolo di “Mosca”, per via della grande miopia, ma si innamora di lei nonostante sia sposata con un altro, Matteo Marangoni, celebre critico d’arte.
Il poeta però è giovane e sensibilissimo, nonostante l’apparenza seria e quasi scontrosa, al fascino femminile. Libero da impegni matrimoniali con Drusilla, si lascerà affascinare da molte donne, fino alla fine dei suoi giorni, ciclicamente. La prima donna rilevante nella storia sentimentale di Montale era davvero irresistibile, una giovane americana dagli occhi azzurri, pettinata alla maschietta, Irma Brandeis, da lui immortalata nelle poesie di quel periodo come Clizia. Irma, innamoratissima, vorrebbe che Montale la seguisse in America negli anni trenta, tra l’altro gli anni del fascismo e delle leggi razziali (“Clizia” era ebrea), ma Drusilla, con cui porta avanti una storia parallela, minaccia due volte il suicidio. Il poeta non parte. Vince Drusilla, la bruttina.
La seconda donna è celeberrima, è la grande poetessa italiana Maria Luisa Spaziani che incontra quando lei ha ventisei anni e lui cinquantadue, lei bella e talentata, lui goffo ma già intellettuale acclamato dal pubblico. Si daranno nelle lettere i nomignoli di Volpe e Orso. Lei non è ancora sposata ma sta per farlo, lui in realtà non riesce a darle più di un’affettuosa amicizia. Lei si sposa. Si frequentano anche successivamente, ma a livello soprattutto intellettuale. Torna a vincere Drusilla, la bruttina.
Come ha potuto Drusilla sbaragliare una simile concorrenza? Perché Montale era così legato a questa donna?. La risposta si può leggere nelle poesie più belle del Montale della maturità: la raccolta denominata Xenia, che nasconde la sua Drusilla in ben ventotto liriche, tutte dedicate a lei, da poco scomparsa.
È a lei e solo a lei che egli dedica una delle più belle poesie d’amore del Novecento:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, ne più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Il dolore del poeta per la sua perdita è inestinguibile.
Dopo la sua morte Montale capisce perché amava Drusilla… Drusilla, nonostante le “distrazioni” del suo uomo, è stata sempre la sua guida, il suo punto di riferimento e il loro rapporto ha il sapore della quotidianità affettuosa e partecipe, dell’amore consolidato e irrinunciabile.
È commovente come lui la cerchi ovunque, come desideri che ancora lo consigli, gli parli, come aveva sempre fatto nelle loro vita insieme, da donna moderna, coraggiosa, combattiva qual era, ed estremamente intelligente. Drusilla, infatti, è una donna piena di sorprese: è persino un personaggio letterario. Infatti è la zia Drusilla: “colei che rompeva sempre gli occhiali” in “Lessico famigliare” di Natalia Ginsburg, di cui era veramente la zia nella vita. E anche Montale appare in un breve cameo nel libro, come suo compagno, assieme a lei anche in quell’occasione.
Se all’inizio il loro rapporto ha risentito del ricatto emotivo della “Mosca”, nel momento della minaccia del suicidio, ha forse suscitato in Montale lo stimolo di quello che si suole definire “amore generoso”. Nel corso degli anni questo sentimento si è stabilizzato , diventando fortissimo. Il poeta continuerá a volerle bene e a stare sempre con lei, fino a sposarla quando lei rimarrà vedova del suo primo marito.
La cerimonia ufficiale avverrà quando Drusilla sarà ultra settantenne, ancora accanto al suo uomo che l’ha scelta ancora una volta. Ma stavolta come sua moglie.
Niente male per una bruttina stagionata!
P.s: a tal proposito consiglio la lettura di un simpaticissimo romanzo ( anche se un po´ datato!) di Carmen Convito la bruttina stagionata.
“Viva la vida” di Frida Kahlo viene realizzato otto giorni prima di morire, il 13 luglio del 1954, a 47 anni in Città del Messico. L’ultimo saluto gioioso di una persona che nella vita ha conosciuto molto presto la malattia e la sofferenza fisica.
Ha appena sei anni quando si ammala di poliomielite, guarisce, ma la gamba destra resterà meno sviluppata e rimarrà claudicante. A 18 anni un terribile incidente tra l’autobus e un tram quasi la uccide. Sarà costretta a indossare busti ortopedici e a sottoporsi ad una trentina di interventi chirurgici. La pittura rimarrà per lei l’unica consolazione e valvola di sfogo, ma anche forte dichiarazione di amore per la vita e resistenza. Dipinge essenzialmente autoritratti dolenti, contribuendo al filone autobiografico in arte.
“Viva la vida” è una natura morta che rappresenta angurie succose, rosse e appetitose. Un grido di colore, il desiderio infinito di gioia di vivere. È un estremo omaggio alla vita. I cocomeri si stagliano verdi e rossi su un cielo azzurro. Sulla polpa succosa e sensuale delle fette è scritto “Viva la Vida – Coyoacán 1954 Mexico”. Le angurie del dipinto vengono rese in tutta la loro fecondità e pienezza, come ricca è stata percepita la vita dall’artista nonostante tutto. Queste le ultime parole che Frida scrive nel suo diario. Un testamento commovente ed energico.
«Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più»
Frida ha vissuto intensamente attraversando, anzi, tuffandosi nelle gioie dell’amore e nell’impegno politico. Donna emancipata e indipendente, passionale e sanguigna che non pose mai limiti alla sua coraggiosa indole. “Viva la vida” è il suo lascito, il messaggio ultimo per se stessa e per chi ancora vive: la vita malgrado tutto merita di essere vissuta.
La simbologia dell’anguria e l’omaggio dei Coldplay
L’anguria è per eccellenza il frutto dell’estate, fresco e dissetante, simbolo di passione e amore. Rappresenta anche l’intelletto, il lavoro e il benessere. Nelle credenze egizietorna questo frutto come simbolo. Si riteneva provenisse dal seme del dio Seth, divinità del deserto e della siccità, della bufera e dei morti. Proprio per questo veniva spesso posto nelle tombe come forma di nutrimento per l’aldilà, a rimpolpare una vita metafisica altrimenti destinata alla desolazione.
“Viva la vida” di Frida Kahlo è stata fonte di ispirazione per molti artisti, tra cui in musica i Coldplay. Era il 2007 quando Chris Martin in tour con i Coldplay giunse a Città del Messico. Tra un’esibizione e l’altra ebbe modo di visitare la Casa Azul, il museo ufficiale di Frida Kahlo.
Fu così che il frontman del gruppo britannico scoprì questo dipinto. Chris si segnò subito il titolo e rese omaggio all’opera intitolando così il suo album e il singolo principale.
“Viva la vida” deiColdplay è uno dei brani pop barocco/pop rock più amati del nuovo millennio, un testo ricco di riferimenti biblici, artistici e letterari, sopra una strumentazione e un arrangiamento altrettanto ricercati.
Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano, senza ascensore, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, piccole sculture sottili appese alle pareti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è la nostra maggior poeta vivente.
Possiamo darci del tu?
Certamente, risponde Patrizia.
Ho letto da qualche parte che… Non provi più amore.Ma da quanto?
Da anni.
E come si sta senza amore? Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisista per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato.
Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti? Boh.
Perché ti fai chiamare «poeta» e non «poetessa»? Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro.
La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerti, ti disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice». A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”.
“Con passi giapponesi” è un libro di prose. Com’è nato? Non c’è stata una vera intenzione. La prosa fa parte di me, io ho sempre scritto molto, ho uno stanzino pieno di note e appunti. I testi qui raccolti sono brevi, almeno per la maggior parte, indago il linguaggio.
Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani? Disperati.
Perché? Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà.
Poi questa casa, dove abiti dal 1972. Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti.
Non sei mai stata attratta dai maschi? Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene.
A Kim Novak hai dedicato la tua prima poesia. Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così: Chi sei tu dunque Kim, Kim, Kim Novak? Sei forse l’angelo che appar di tratto? Sei forse luce, calore e sogno? Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza. Credo, in te credo con l’anima mi’ intera»
«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione. Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua.
Stai scrivendo in questo periodo? No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora.
Che cosa provi in quei momenti? Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose , senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non sempre sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole.
Il “corpo è tutto”? E certo, e di che cosa vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita.
In “Con passi giapponesi” uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato. Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini.
Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà mai a prenderci? Forse.
Hai trascorso molto tempo senza pubblicare. Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere.
Ma a settembre è uscita una nuova raccolta, «Vita meravigliosa». È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”.
Che Dolores Ibàrruri fosse una donna piena di passione, è evidenza storica. Però il soprannome di Pasionaria veniva, come lei stessa rivelò, da tutt’altro: il suo primo articolo, scritto per un piccolo giornale della sinistra, fu pubblicato proprio la settimana prima di Pasqua, la settimana della Passione, e da ciò trasse lo pseudonimo. Dolores veniva da una famiglia basca molto religiosa e lei stessa aveva pensato di farsi monaca; in effetti la sua vita è stata interamente consacrata all’antifascismo e al comunismo.
Nata nel 1895 a Gallarta, nella zona mineraria di Somorrostro, a ovest di Bilbao sul golfo di Biscaglia, era l’ottava di undici figli. Il padre, minatore nelle miniere di ferro a cielo aperto, lavorava dall’alba al tramonto per una paga da fame. La madre era una donna rigida, dura per indole o necessità. Vivevano in una baracca e il paesaggio doveva essere simile all’inferno, fra i fumi delle miniere e quelli delle vicine fabbriche di Bilbao.
Dolores era sveglia e ribelle e invano la madre cercava di domarla a suon di ceffoni. Avrebbe voluto studiare, ma giovanissima dovette andare a servizio in città presso famiglie facoltose. A vent’anni non ne poteva più. Per uscire da quella vita grama e senza speranza sposò nel 1916 un operaio socialista militante del PSOE (Partido Socialista Obrero Español) e, come tale, sempre dentro e fuori dal carcere. Juliàn Ruiz, così si chiamava, non era certo un genio, ma fisicamente non male: Dolores era piuttosto alta e lui altrettanto, così non sfigurava e non la metteva in imbarazzo.
Ebbero sei figli, dei quali sopravvissero agli stenti dell’infanzia soltanto due, Rubén e Amaya. Non fu un matrimonio particolarmente felice, durò una quindicina d’anni e finì per consunzione quando nel 1931 Dolores si trasferì a Madrid. Juliàn fu sempre molto signorile: non si sentì surclassato dalla moglie che in breve fece una carriera politica più brillante della sua, anzi quando si separarono affermò nobilmente: “Io perdo una moglie, il partito guadagna un dirigente”. Forse era anche stanco di avere in casa un dirigente del partito. Che, nel frattempo, era diventato quello comunista, nato da una scissione del PSOE.
Sulla scia del marito Dolores aveva intrapreso la strada della militanza politica, strada molto ardua soprattutto per una donna. Lei poteva contare su un grande fascino, non però nel senso in cui lo intendiamo noi oggi.
Vestiva infatti sempre di nero e in modo castigato, come nella tradizione basca, ma era di una eleganza naturale, semplice e senza fronzoli, e riusciva a contagiare con la sua passione politica, a infiammare la folla con i suoi discorsi. Trasparivano in essi non astratti ideali ma una vita vissuta con affanni e dolori, nonché una assoluta determinazione al riscatto. Dolores non fu mai una femminista vera e propria, come altre contemporanee che militarono nel movimento anarchico. In quanto comunista era molto severa nella morale sessuale e si sentì grandemente in colpa per la relazione con Francisco Antòn, parecchio più giovane di lei; fu l’unica, pare, di tutta la sua vita oltre a quella col marito.
L’ impegno nei confronti delle donne era piuttosto rivolto ad emanciparle, liberandole dalla miseria e dal peso di dover tirar su da sole i figli mentre i compagni erano tutti presi dalla lotta di classe o passavano anni in galera. I tempi erano durissimi. Non solo la Spagna viveva in un terribile stato di arretratezza, ma le classi dirigenti erano tanto inette quanto sfruttatrici. Le pessime condizioni dei braccianti e degli operai sfociavano spesso in rivolte spontanee e irrazionali regolarmente soffocate nel sangue dalla Guardia Civil, come la Semàna Tragica di Barcellona del 1909 e la rivolta delle Asturie del 1934. Nel febbraio del 1936, finalmente, libere elezioni mandarono al governo la sinistra: si attendeva un periodo di pace sociale e grandi riforme, senonché, in luglio, l’alzamiento, la rivolta militare guidata dal generale Francisco Franco, dette il via alla guerra civile.
Dolores si buttò in una strenua attività a sostegno della Repubblica. Non potendosene occupare e per loro sicurezza spedì i figli adolescenti a studiare a Mosca. Visitò i numerosi fronti, entrò coraggiosamente nelle caserme per convincere i soldati a non seguire gli ufficiali ribelli, tenne comizi di massa, viaggiò per cercare l’appoggio della Francia e dell’Inghilterra alla causa della Repubblica. Appoggio vilmente negato, com’è noto.
Il 6 aprile 2021 l’Europa è stata sconfitta come nel 2015, quando ha raccolto il corpo del piccolo Aylan Kurdi.
Era l’ottobre del 2015 quando sulla costa della città turca di Bodrum la foto di un bimbo siriano, Aylan Kurdi, riverso sulla riva come se dormisse divenne l’immagine potente della tragedia dell’emigrazione per migliaia di creature innocenti in fuga con le loro famiglie da guerre, fame, e violenze d’ogni genere. Foto di una tenerezza struggente. Quel bambino con la maglietta rossa e i pantaloncini scuri fu per giorni sui giornali a parlarci della tragedia dell’emigrazione e poi, per sempre, depositata nell’archivio della storia da dove periodicamente viene riproposta per la simbologia che evoca e le infinite vite sacrificate, che impersona per sempre.
Il 2015, casualmente lo stesso anno in cui, sempre facendo parlare una foto uscita dagli archivi quale testimone di comportamenti sperimentati, è stato possibile capire (ovviamente per chi vuole capire) che quanto è capitato il 6 aprile a Ursula von der Leyen ….. è stato pensato e deciso per offendere, attraverso lei, l’Europa e le donne tutte, iniziando da quelle turche. Infatti in quel 2015 lo stesso Erdogan incontrò, a margine del G20 ad Antalya in Turchia, Jean Claude Juncker e Donald Tusk, rispettivamente Presidente della Commissione come Ursula von der Leyen e del Consiglio come Charles Michel. Immortalati in una foto mostrano la precisa collocazione di quelle tre poltrone con cui Erdogan all’epoca decise di dare pari dignità e potere ai due rappresentanti dell’Unione, nel rispetto del protocollo che evidentemente conosce bene.
Passano sei anni e, sorvolando su quanto avvenuto in questo periodo, è peraltro difficile non sottolineare oggi, nonostante il virus e le difficoltà che comporta in ogni campo, come sia stato importante concretizzare un nuovo incontro fra Erdogan, come nel 2015, e i due politici più rappresentativi d’Europa: Ursula von der Leyen Presidente della Commissione (recatasi in Turchia per discutere non a caso dell’emigrazione!) voce dell’Europa e istanza comunitaria per eccellenza e Charles Michel Presidente del Consiglio Europeo, dimensione intergovernativa dell’Unione.
Due ruoli e funzioni politiche formalmente di pari grado ma che non è difficile comprendere che a seconda delle situazioni e degli incontri l’uno di fatto simbolicamente prevalga sull’altro. Ed è deducibile per le questioni che erano in discussione il 6 aprile, compreso il tema degli emigranti, che forse fosse proprio Ursula von der Leyen l’interlocutrice più significativa.
Era l’Europa in primis più che la somma degli stati europei che incontravano il premier turco. Questa riflessione, che non è di lana caprina, rende ancor più grave il comportamento di Michel che in nome della politica, e non del semplice galateo, avrebbe dovuto aspettare a sedersi.
Lo sgarbo avvenuto ad Ankara che ha visto Michel incapace di reagire a Erdogan è stato dunque il subire uno sgarbo all’Europa, usando una donna e negandole il ruolo e la funzione che rappresenta.