Categoria: politica al femminile

“Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi.

Apparso per la prima volta nel 2003, “Leggere Lolita a Teheran” è una raccolta di memorie di una docente universitaria iraniana di letteratura americana. “L’America per noi era come veleno […] dovevamo insegnare agli studenti a combattere l’immoralità americana”. 

Le citazioni di cui mi sono avvalsa sono estratte dall’edizione Adelphi del 2004.

Nel 1995, abbandonato l’incarico all’università dove insegnava letteratura angloamericana, Azar Nafisi propone a sette delle sue migliori studentesse di trovarsi a casa sua, nel primo giorno del weekend, per discutere di letteratura. Un seminario privato: per due anni Nafisi vede le ragazze entrare nel suo salotto, “togliersi il velo e la veste e diventare di botto a colori”.

Il fatto è che insieme al velo “si levavano di dosso molto di più. Lentamente, ognuna di loro acquistava una forma, un profilo, diventava il suo proprio inimitabile sé“. In quelle mattine le otto donne leggono Nabokov, Henry James, Jane Austen. Discutono con passione di Lolita e di Daisy. “Il seminario diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi”. Nel loro rifugio Nafisi e le sue ragazze guardano il mondo attraverso l’occhio magico della “letteratura”. Ma sono pur sempre a Teheran, e fuori da quel salotto restano grigiore e proibizioni: così, avverte Nafisi, “è di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran”.

È questo Leggere Lolita a Teheran: il racconto di come una donna (l’autrice) attraversa la rivoluzione islamica iraniana con un bagaglio di romanzi e una gran fiducia nella letteratura, “arte della complicazione umana“. Solo che non sono ammesse sottigliezze né “complicazione umana” nel mondo in cui vivono lei e le sue studentesse.

È un mondo di romanzi sconsigliati, di ragazze punite se hanno le unghie dipinte, persone che hanno dovuto imparare a non esprimersi apertamente. Nafisi cita il Nabokov di “Invito a una decapitazione: insopportabile” “non è il vero dolore fisico o la tortura che si infligge in un regime totalitario, bensì l’incubo di una vita trascorsa in un’atmosfera di continuo terrore”.

Per prima cosa dunque Nafisi vuole trasmettere l’esasperazione di una vita regolata da “norme ottuse”, dove un bambino si sveglia terrorizzato perché “ha fatto un sogno illegale”: il senso di oppressione di un regime che “negava valore all’opera letteraria, a meno che sostenesse l’ideologia“, un regime, del resto, dove il capo del comitato di censura cinematografica è un cieco… Il seminario diventa per loro “un corso di autodifesa” da tutto questo. Ancora Nabokov: “La curiosità è insubordinazione allo stato puro”.

Perché Lolita? Nella storia della ragazza di dodici anni tenuta “di fatto prigioniera” dall’uomo che ne fa la sua amante, Nafisi e le sue studentesse vedono “una denuncia dell’essenza stessa di ogni totalitarismo“. Ne discutono a lungo, fanno paralleli: a Lolita, dicono, “è stata sottratta non solo la vita ma anche la possibilità di raccontarla“. Anche loro sentono di aver perduto qualcosa: la generazione dell’insegnante ha perduto una libertà passata, le più giovani hanno “ricordi fatti di desideri irrealizzati”. Tutte hanno imparato a “mettere una strana distanza tra noi e l’esperienza quotidiana della brutalità e dell’umiliazione“. Ecco l’accusa: “Il peggior crimine di un regime totalitario è costringere i cittadini, incluse le vittime, a diventare suoi complici”.

Azir Nafisi

Traspare un’urgenza, da queste pagine. Non solo trasmettere quel senso di soffocamento, o forse di spiegare perché l’autrice, come molte delle sue giovani amiche, cercheranno di sottrarvisi andando via. Più ancora, è la necessità di riflettere su “come siamo arrivati a questo?“. Qui l’autrice torna indietro nel tempo, e offre un raro racconto “dall’interno”, soggettivo e intriso di partecipazione umana, di eventi che abbiamo visto da lontano, per lo più nei loro risvolti politici. Siamo nel 1979, quando Nafisi, terminati gli studi negli Stati uniti, torna a Teheran: la rivoluzione – per cui anche lei si era battuta, come tanti studenti iraniani all’estero che avevano lottato contro lo Shah (Sciá) – era vittoriosa. Nafisi comincia a insegnare letteratura angloamericana all’Università statale di Teheran.

L’università era allora il principale teatro di scontri ideologici tra le correnti rivoluzionarie di sinistra e quelle islamiche; Nafisi parla di Fitzgerald e di Twain tra assemblee sull’imperialismo e di denuncia della società borghese, discute di Hucklberry Finn e di Gatsby mentre gli studenti islamici occupano l’ambasciata americana. In queste pagine – forse le più appassionanti – vediamo lo scontro riassunto nello strepitoso “processo” a Gatsby istituito dalla professoressa Nafisi, con tanto di giudice, giuria, accusa e difesa.

Gatsby esprime il materialismo decadente del mondo occidentale, accusano studenti che citano Khomeini e vorrebbero letture “rivoluzionarie” e moralizzatrici. Ma un romanzo è bello se riesce a mostrare la complessità degli individui, ribatte la difesa. Intanto, “sulla scena politica si assisteva a una specie di replica del nostro processo”: i romanzi “decadenti” scompaiono poco a poco dalle librerie – finché scompaiono anche le librerie.

Matilde diventa maggiorenne e va a votare!

Luciana sogna di andare all’università e di diventare una scienziata. Matilde, la sorella maggiore, ha fatto solo le elementari ed è operaia in un maglificio ma, sperando in un futuro diverso, sta preparando l’esame della terza media perché non ci si vede “una vita a fare i maglioni e ad accudire bambini”.

Questo importantissimo appuntamento è concomitante con un avvenimento storico: il referendum tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946.  Le donne italiane possono votare per la prima volta e Matilde, che ha appena compiuto 21 anni, è emozionata e sente la responsabilità della scelta che può fare. 

Con “Il primo voto di Matilde” (ed Settenove), Fulvia Degl’Innocenti ha immaginato una famiglia contadina toscana dopo la guerra, nei mesi in cui è chiamata al voto. Prima per le amministrative, a marzo, e poi per il referendum e l’elezione dell’Assemblea Costituente. 
L’ordinaria vita nei campi e la storia d’amore di Matilde con Lorenzo si intreccia con l’esercizio di un diritto di cittadinanza dimenticato poiché era il 1934 quando l’Italia aveva potuto esprimersi, tra l’altro, per un plebiscito: infatti “si poteva votare solo un sì o un no ai candidati dell’unico partito, quello fascista”. 
 

Il giorno del voto è una festa e la famiglia si prepara con cura organizzandosi per la lunga fila che la attende ai seggi. Le notizie dello spoglio arrivano lentamente e solo il 5 giugno si ha la certezza che la repubblica ha battuto la monarchia con quasi due milioni di voti in più. Matilde ha votato per la repubblica e per Bianca Bianchi, un’insegnante, “la persona giusta per affrontare i problemi della scuola e il diritto all’istruzione”. 

Questo delicato racconto, corredato con le illustrazioni di Gioia Marchegiani, si rivolge alle giovani generazioni per dare informazioni su un momento costitutivo della nostra democrazia e, attraverso la protagonista, delinea il ritratto di una donna capace di scegliere autonomamente il suo futuro e la società in cui vuole vivere. 
Matilde che diventa maggiorenne diventa la metafora di una giovane nazione consapevole dell’impegno che ha assunto e che è fieramente convinta di volerlo sostenere.

Fonte: Noidonne.it

Dolores Ibárruri Gómez, la Pasionaria Spagnola, che insegnò a non arrendersi mai!

Che Dolores Ibàrruri fosse una donna piena di passione, è evidenza storica. Però il soprannome di Pasionaria veniva, come lei stessa rivelò, da tutt’altro: il suo primo articolo, scritto per un piccolo giornale della sinistra, fu pubblicato proprio la settimana prima di Pasqua, la settimana della Passione, e da ciò trasse lo pseudonimo. Dolores veniva da una famiglia basca molto religiosa e lei stessa aveva pensato di farsi monaca; in effetti la sua vita è stata interamente consacrata all’antifascismo e al comunismo.

Nata nel 1895 a Gallarta, nella zona mineraria di Somorrostro, a ovest di Bilbao sul golfo di Biscaglia, era l’ottava di undici figli. Il padre, minatore nelle miniere di ferro a cielo aperto, lavorava dall’alba al tramonto per una paga da fame. La madre era una donna rigida, dura per indole o necessità. Vivevano in una baracca e il paesaggio doveva essere simile all’inferno, fra i fumi delle miniere e quelli delle vicine fabbriche di Bilbao.

Dolores era sveglia e ribelle e invano la madre cercava di domarla a suon di ceffoni. Avrebbe voluto studiare, ma giovanissima dovette andare a servizio in città presso famiglie facoltose. A vent’anni non ne poteva più. Per uscire da quella vita grama e senza speranza sposò nel 1916 un operaio socialista militante del PSOE (Partido Socialista Obrero Español) e, come tale, sempre dentro e fuori dal carcere. Juliàn Ruiz, così si chiamava, non era certo un genio, ma fisicamente non male: Dolores era piuttosto alta e lui altrettanto, così non sfigurava e non la metteva in imbarazzo.

Ebbero sei figli, dei quali sopravvissero agli stenti dell’infanzia soltanto due, Rubén e Amaya. Non fu un matrimonio particolarmente felice, durò una quindicina d’anni e finì per consunzione quando nel 1931 Dolores si trasferì a Madrid. Juliàn fu sempre molto signorile: non si sentì surclassato dalla moglie che in breve fece una carriera politica più brillante della sua, anzi quando si separarono affermò nobilmente: “Io perdo una moglie, il partito guadagna un dirigente”. Forse era anche stanco di avere in casa un dirigente del partito. Che, nel frattempo, era diventato quello comunista, nato da una scissione del PSOE.

Sulla scia del marito Dolores aveva intrapreso la strada della militanza politica, strada molto ardua soprattutto per una donna. Lei poteva contare su un grande fascino, non però nel senso in cui lo intendiamo noi oggi.

Vestiva infatti sempre di nero e in modo castigato, come nella tradizione basca, ma era di una eleganza naturale, semplice e senza fronzoli, e riusciva a contagiare con la sua passione politica, a infiammare la folla con i suoi discorsi. Trasparivano in essi non astratti ideali ma una vita vissuta con affanni e dolori, nonché una assoluta determinazione al riscatto. Dolores non fu mai una femminista vera e propria, come altre contemporanee che militarono nel movimento anarchico. In quanto comunista era molto severa nella morale sessuale e si sentì grandemente in colpa per la relazione con Francisco Antòn, parecchio più giovane di lei; fu l’unica, pare, di tutta la sua vita oltre a quella col marito.

L’ impegno nei confronti delle donne era piuttosto rivolto ad emanciparle, liberandole dalla miseria e dal peso di dover tirar su da sole i figli mentre i compagni erano tutti presi dalla lotta di classe o passavano anni in galera. I tempi erano durissimi. Non solo la Spagna viveva in un terribile stato di arretratezza, ma le classi dirigenti erano tanto inette quanto sfruttatrici. Le pessime condizioni dei braccianti e degli operai sfociavano spesso in rivolte spontanee e irrazionali regolarmente soffocate nel sangue dalla Guardia Civil, come la Semàna Tragica di Barcellona del 1909 e la rivolta delle Asturie del 1934. Nel febbraio del 1936, finalmente, libere elezioni mandarono al governo la sinistra: si attendeva un periodo di pace sociale e grandi riforme, senonché, in luglio, l’alzamiento, la rivolta militare guidata dal generale Francisco Franco, dette il via alla guerra civile.

Dolores si buttò in una strenua attività a sostegno della Repubblica. Non potendosene occupare e per loro sicurezza spedì i figli adolescenti a studiare a Mosca. Visitò i numerosi fronti, entrò coraggiosamente nelle caserme per convincere i soldati a non seguire gli ufficiali ribelli, tenne comizi di massa, viaggiò per cercare l’appoggio della Francia e dell’Inghilterra alla causa della Repubblica. Appoggio vilmente negato, com’è noto.

La giacca rossa di Ursula e la maglia rossa del piccolo Aylan.

Il 6 aprile 2021 l’Europa è stata sconfitta come nel 2015, quando ha raccolto il corpo del piccolo Aylan Kurdi.

Era l’ottobre del 2015 quando sulla costa della città turca di Bodrum la foto di un bimbo siriano, Aylan Kurdi, riverso sulla riva come se dormisse divenne l’immagine potente della tragedia dell’emigrazione per migliaia di creature innocenti in fuga  con le loro famiglie da guerre, fame, e violenze d’ogni genere. Foto di una tenerezza struggente. 
Quel bambino con la maglietta rossa e i pantaloncini scuri fu per giorni sui giornali a parlarci della tragedia dell’emigrazione e poi, per sempre, depositata nell’archivio della storia da dove periodicamente viene riproposta per la simbologia che evoca e le infinite vite sacrificate, che impersona per sempre. 

Il 2015, casualmente lo stesso anno in cui, sempre facendo parlare una foto uscita dagli archivi quale testimone di comportamenti sperimentati, è stato possibile capire (ovviamente per chi vuole capire) che quanto è capitato il 6 aprile a Ursula von der Leyen ….. è stato pensato e deciso per offendere,  attraverso lei, l’Europa e le donne tutte, iniziando da quelle turche.  Infatti in quel 2015 lo stesso Erdogan incontrò, a margine del G20 ad Antalya in Turchia, Jean Claude Juncker e Donald Tusk, rispettivamente Presidente della Commissione come Ursula von der Leyen e del Consiglio come Charles Michel. Immortalati in una foto mostrano la precisa collocazione di quelle tre poltrone con cui Erdogan all’epoca decise di dare pari dignità e potere ai due rappresentanti dell’Unione, nel rispetto del protocollo che evidentemente conosce bene.

Passano sei anni e, sorvolando su quanto avvenuto in questo periodo, è peraltro difficile non sottolineare oggi, nonostante il virus e le difficoltà che comporta in ogni campo, come sia stato importante concretizzare un nuovo incontro fra Erdogan, come nel 2015, e i due politici più rappresentativi d’Europa: Ursula von der Leyen Presidente della Commissione (recatasi in Turchia per discutere non a caso dell’emigrazione!) voce dell’Europa e istanza comunitaria per eccellenza e Charles Michel Presidente del Consiglio Europeo, dimensione intergovernativa dell’Unione.

Due ruoli e funzioni politiche formalmente di pari grado ma che non è difficile comprendere che a seconda delle situazioni e degli incontri l’uno di fatto simbolicamente prevalga sull’altro. Ed è deducibile per le questioni che erano in discussione il 6 aprile, compreso il tema degli emigranti, che forse fosse proprio Ursula von der Leyen l’interlocutrice più significativa. 

Era l’Europa in primis più che la somma degli stati europei che incontravano il premier turco. 
Questa riflessione, che non è di lana caprina, rende ancor più grave il comportamento di Michel che in nome della politica, e non del semplice galateo, avrebbe dovuto aspettare a sedersi.

Lo sgarbo avvenuto ad Ankara che ha visto Michel incapace di reagire a Erdogan è stato dunque il subire uno sgarbo all’Europa, usando una donna e negandole il ruolo e la funzione che rappresenta. 

Angela Merkel: la storia della prima Cancelliera tedesca.

Angela Merkel (nata Angela Dorothea Kasner) è la prima donna a ricoprire il ruolo di Cancelliera tedesca per tre volte di seguito oltre ad essere la persona più giovane ad avere questa carica e la prima ad essere nata dopo la fine della seconda guerra mondiale. Viene spesso chiamata “La donna più potente del mondo” (come affermato nelle classifiche del magazine Forbes dal 2006 al 2013), “la nuova Lady di Ferro” e da alcuni politici italiani con nomignoli non proprio edificanti sul suo aspetto fisico. La sua politica estera e le sue posizioni in merito alla crisi dell’Eurozona, specialmente nei confronti della Grecia, sono più conosciute della sua storia personale. Per questo motivo, senza alcun scopo politico, mi piacerebbe raccontare la storia di questa donna che ha in qualche modo cambiato la percezione politica non solo tedesca, ma mondiale.

La giovane Angela dimostra immediatamente una spiccata intelligenza, già dal liceo eccelle principalmente in matematica e in lingua russa, tanto da vincere le olimpiadi di lingua russa di Templin. Spinta dai genitori, che conoscono le discriminazioni a cui spesso erano soggetti i figli del clero nella DDR, entra a far parte della Libera Gioventù Tedesca (Freie Deutsche Jugend) dato che questo era un modo per farsi strada ed avere posto nelle Università.

Angela1

Nel 1973 si trasferisce a Lipsia dove si iscrive alla facoltà di fisica e a 23 anni si sposa con il primo marito, da cui prenderà il cognome, Ulrich Merkel. Dopo la laurea si trasferisce a Berlino e consegue il dottorato in fisica quantistica sul decadimento degli idrocarburi. In seguito diventa ricercatrice all’Accademia delle Scienze Adlershof di Berlino, la più importante unità di ricerca della DDR che raccoglieva migliaia di scienziati e dove lei era l’unica donna. La scienza le consente di stare al riparo dall’occhio della DDR in quanto il suo campo era molto teorico e non strettamente legato alle tecniche di produzione sulle quali il regime puntava maggiormente.
All’inizio degli anni 80 Angela divorzia dal primo marito, ma decide di mantenerne il cognome, e si trasferisce in un quartiere a est di Berlino. I numerosi viaggi in treno per raggiungere la zona sud dove lavorava la spingono a confrontarsi quotidianamente con il muro di Berlino, scorgendo anche scorci della Berlino ovest che era loro preclusa. Non è difficile immaginare quanto questo possa aver dato la sensazione di “gabbia” a lei ed ai giovani scienziati con cui viaggiava tutti i giorni.
Quando nel 1985 Gorbaciov sale al potere in Russia e porta avanti la “Perestroika” iniziano ad avvertirsi i primi cambiamenti in tutta la zona controllata dall’ex URSS, e nel 1987, mentre il regime comunista va sgretolandosi, iniziano a prendere piede in Germania est tanti piccoli movimenti politici.

Dopo la caduta del muro Angela si iscrive a “Risveglio democratico” (democratische Aufbruch), un gruppo di attivisti di centro destra, di cui è presto la portavoce e, dopo le libere elezioni del 1990, proprio mentre le due Germanie corrono verso l’unificazione, diventa vice portavoce dell’ultimo governo della Repubblica Democratica Tedesca guidato da Lothar de Maizière con “Alleanza per la Germania” (Allianz fur Deutschland). Questo processo di unificazione preoccupa molti politici europei, in particolare in Francia, i quali si sentono minacciati da una Germania più grande ed inevitabilmente più forte; per questo viene siglato un accordo: la Germania si può riunire, ma deve firmare il trattato di Maastricht per imporre al nascente stato riunificato vincoli politici ed economici. Questo preciso momento storico, in cui Angela inizia a partecipare attivamente alla vita politica, ha influenzato la visione politica della futura cancelliera per la quale la riunifcazione tedesca, strettamente legata ad un concetto di Europa unita, diventa forza trainante della sua visione politica.

Angela Merkel nel 1992

Angela si dimostra da subito diversa dal “tipico politico tedesco” di allora, rappresentato dai suoi colleghi, ed è ben lontana dall’immagine del politico elegante, arrogante ed impomatato, dimostra infatti avere poco interesse per l’aspetto esteriore (spesso verrà detto di lei che in questo rimane una “scienziata della DDR”). Per quanto riguarda le sue capacità politiche spicca da subito per la grandissima capacità di mediazione fra le varie parti che coesistono all’interno di Alleanza per la Germania, per il suo non cercare per forza lo scontro e per il suo non “salire sul podio” se non sotto esplicita richiesta.
Dopo la riunificazione aderisce al CDU (Christlich Demokratische Union Deutschlands), il più grande partito di centro destra dell’ovest, di stampo prettamente patriarcale e dominato da dirigenti uomini, all’epoca guidato da Helmut Kohl. Angela viene nominata dapprima ministra per le donne, i giovani e lo sport, ma poi Kohl, che la chiama la sua “Mädchen” (ragazzina) la promuove a ministra per l’ambiente, ministero che si occupa della salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza del nucleare e che riveste una grande importanza strategica in Germania.
L’approccio politico di questa “ragazzina dell’est” lascia stupiti i tedeschi in quanto molto diverso da quello a cui erano abituati, tanto che in molte occasioni i politici uomini si rivolgono a lei in modo molto autoritario, spesso urlando, quasi a volerla umiliare. Angela però non cade mai in questo genere di trappole preferendo rispondere con toni calmi, lasciando che gli avversari politici si “sgonfino” da soli.