Categoria: poesia al femminile

Sylvia Plath e le altre poetesse…perché scelsero il suicidio?

Molto si è scritto su quella sorta di dolorosa epidemia di suicidi che caratterizzò la “poesia al femminile” del Novecento. Basti ricordare la triste storia e la solitaria fine della poetessa Antonia Pozzi e della fotografa Francesca Woodman (che si tolsero la vita la prima a 26 e la seconda a 22 anni).

Ma la poetessa milanese e la fotografa americana non furono che due esempi nel lungo e tragico elenco di donne che videro nella morte auto-inflitta una liberazione dal dolore di quel mondo che Pascoli aveva definito  un “atomo opaco del male”. 

Virginia Woolf

L’inglese Virginia Woolf, scrittrice, saggista e poetessa, animatrice del   circolo di Bloomsbury, vivaio di talenti anticonformisti, dove la sperimentazione letteraria e gli amori saffici si alternavano alle lezioni di economia di Keynes, pose termine ai suoi giorni affogandosi nel torrente Ouse (quasi novella Ofelia).

Marina Cvetaieva

Mai dimenticate, poi, la moscovita Marina Cvetaieva, anima nomade e solitaria, impiccatasi ad una trave nella sua abitazione, l’argentina Alfonsina Storni (di famiglia svizzero-italiana del Canton Ticino) che si lasciò annegare nelle acque del Mar del Plata, e ancora la svedese Karyn Boye e poi, appunto, la Pozzi e la Woodman e Anne Sexton, americana autrice dei “Love Poems“, affetta da sindrome maniaco-depressiva (oggi meglio nota come disturbo bipolare) e, ancora, Sylvia Plath, forse la più famosa di questo tristissimo elenco. E infine un’altra poetessa dell’obiettivo come Francesca Woodman: la controversa, inquietante Diane Arbus.

Per quanto diverse siano state le loro singole storie, tutti i loro nomi  sono legati dal filo rosso di una nevrosi, di una diversità vissuta come un disagio psichico in grado di usurare quotidianamente ogni residuo contatto col mondo circostante. Hanno sicuramente ragione quanti vedono nel periodo storico, nel breve, funesto trionfo delle dittature nazionaliste, nella persecuzione degli ebrei e nell’ossessione staliniana del nemico interno, una delle cause che favorirono l’estraniamento di alcune delle poetesse uccisesi nel Novecento.

Antonia Pozzi, “malata di nervi”, (così si diceva ai tempi…) soffrì molto anche per la persecuzione di cui furono vittime molti suoi amici ebrei, così come la dolce Marina Ivanovna Cvetaieva che scelse la morte, nel 1941 (come la Woolf), perché ormai incapace di sopportare le vessazioni cui era sottoposta assieme a buona parte degli intellettuali sovietici dal regime staliniano.

Una tesi sostenuta anche da chi era incline a considerare la malattia mentale come una manifestazione di un malessere sociale, primo fra tutti Wilhelm Reich (seguito oltre vent’anni dopo dal nostro grande Franco Basaglia), proprio in quegli anni costretto, lui austriaco ma ebreo, a trovare ricovero negli Stati Uniti che non furono tuttavia per lui la “land of opportunity“. Reich morì infatti nel penitenziario di Lewisburg dove un giudice americano (forse un seguace del senatore McCarthy) lo aveva spedito perché “comunista”, ma in realtà e soprattutto, per i suoi rivoluzionari scritti sulla repressione della sessualità.

Sylvia Plath

E nel Novecento, secolo di guerre mondiali e sanguinose rivoluzioni,  di guerre civili e guerre fredde, la “normalità” non era normale. L’enigma di tanti suicidi forse si scioglie tentando di comprendere l’impossibilità di tante poetesse a sintonizzarsi con un’epoca di violenza in cui, pur tuttavia, le donne avevano cominciato la loro lunga lotta per i diritti, dalle suffragette inglesi dei primi del secolo alle femministe del ’68 e oltre.

Diane Arbus

Sylvia Plath e Diane Arbus furono forse gli ultimi  “casi” in questa lunga scia di sangue che caratterizzò parte della letteratura femminile del ventesimo secolo. Anche loro forse travolte dallo Spirito del tempo, dalla malattia mentale che incarnava. Molto malata era Sylvia, divenuta un’icona delle generazioni nate nella seconda metà del secolo.

La newyorkese Arbus, di origini russe, manifestò invece il suo disagio interiore attraverso la proiezione dei suoi propri fantasmi sui “Freaks“: nani, gemelli siamesi, ermafroditi ed altri sfortunati esseri umani. Forse sperando di liberarsi delle sue più profonde angosce. Ma non fu così e nel luglio del 1971, Diane perse la sua partita con la depressione e si uccise.

La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.” 

Virginia Wolf

Poesia e arte.

EDWARD HOPPER, “HOTEL ROOM, 1931

Quando trovo poesie che prendono ispirazione da un dipinto, resto affascinata: il connubio tra poesia e arte mi consente di valutare come un’altra persona interpreta i sentimenti e le sensazioni espresse dalla tela.

Il dipinto che vi propongo è del pittore statunitense Edward Hopper, Hotel Room, del 1931, esposto al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

A dargli voce e forma di poesia è la filologa spagnola Josefa Parra (Jerez de la Frontera, 1965): la dolorosa tristezza di un’attesa vana e senza speranze, come spesso appare nelle opere di Edward Hopper.

Josefa Parra

Una triste piccola speranza di Josefa Parra

Se c’era ancora una promessa

tra me e te, un’offerta

prolungata, una luce laggiù

da poter seguire;

se restava la speranza

sebbene fosse una triste

piccola speranza;

se anche le tue labbra

mai hanno pronunciato

la parola mortale che io desideravo,

o qualcosa che le assomigliasse,

penso che ancora avrei trovato

una ragione per aspettarti.

E chissà se il commercio di carne

non fu, in qualche modo, una promessa?

(da Alcoba del agua, Quórum, 2002)

A colloquio con Patrizia Cavalli, la poeta.

Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano, senza ascensore, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, piccole sculture sottili appese alle pareti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è la nostra maggior poeta vivente.

Possiamo darci del tu?

Certamente, risponde Patrizia.

Ho letto da qualche parte che… Non provi più amore. Ma da quanto?

Da anni.

E come si sta senza amore? 
Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisista per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato.

Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti? 
Boh

Perché ti fai chiamare «poeta» e non «poetessa»? 
Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro.

La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerti, ti disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice». 
A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”. 

“Con passi giapponesi” è un libro di prose. Com’è nato?
Non c’è stata una vera intenzione. La prosa fa parte di me, io ho sempre scritto molto, ho uno stanzino pieno di note e appunti. I testi qui raccolti sono brevi, almeno per la maggior parte, indago il linguaggio.

Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani? 
Disperati. 

Perché? 
Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà. 

Poi questa casa, dove abiti dal 1972. 
Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti. 

Non sei mai stata attratta dai maschi? 
Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene. 

A Kim Novak hai dedicato la tua prima poesia. 
Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così: 
Chi sei tu dunque 
Kim, Kim, Kim Novak? 
Sei forse l’angelo che appar di tratto? 
Sei forse luce, calore e sogno? 
Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza. 
Credo, in te credo con l’anima mi’ intera
»

«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione. 
Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua.

Stai scrivendo in questo periodo? 
No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora.  

Che cosa provi in quei momenti?
Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose , senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non sempre sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole.

Il “corpo è tutto”? 
E certo, e di che cosa vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita. 

In “Con passi giapponesi” uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato. 
Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini. 

Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà mai a prenderci? 
Forse. 

Hai trascorso molto tempo senza pubblicare. 
Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere. 

Ma a settembre è uscita una nuova raccolta, «Vita meravigliosa». 
È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”.