Categoria: donne

Renata di Francia, intellettuale, e “protestante”.

Renata di Francia.

Renata, detta “di Francia” perché principessa di sangue in quanto figlia secondogenita di Re Luigi XII e di Anna di Bretagna, nacque a Blois il 25 ottobre 1510. Rimase orfana di madre a 4 anni e di padre a 5, venendo educata alla corte di Francesco I, che era suo cognato, cioè marito di sua sorella Claudia. Ebbe come precettore il letterato protestante Jacques Lefèvre d’Etaples, che godeva del favore del re. Fu istruita allo studio della filosofia, della storia, delle matematiche, dell’astrologia, della lingua greca e latina.


Illustri pretendenti chiesero la sua mano (Carlo, erede al trono d’Asburgo, Enrico VIII d’Inghilterra, il figlio dell’Elettore del Brandeburgo), ma la giovane sposò a Parigi il 28 giugno 1528 il duca Ercole II d’Este.

Ercole II d’Este.

Renata si distinse per la sua benevolenza nei confronti degli ospiti francesi: in quegli anni molti protestanti fuggiti dalla Francia si rifugiarono a Ferrara sotto mentite spoglie, come Clément Marot, poeta, giunto nel 1535 (nel 1528 aveva dedicato a Renata il “Chant nuptial du mariage de Madame Renée”), che divenne segretario della duchessa. Si presentò a corte anche Calvino, fuggito da Ginevra, che fu poi, anche attraverso una fitta corrispondenza, la guida spirituale di Renata, che nel frattempo con il marito metteva al mondo 5 figli.
In particolare la villa di Consandolo, presso Argenta, dove la duchessa risiedeva nei mesi estivi, divenne un centro di diffusione di libri protestanti, “proibiti”, oltre che di accoglienza dei profughi e dei minacciati di persecuzione.

Finché Renata interloquì con gli intellettuali e gli artisti, Ercole II condivise i suoi gusti, essendo anche lui cultore dell’antichità e delle lettere. Ma quando si capì che la duchessa era intenzionata a educare le due figlie, Anna e Lucrezia, nella fede riformata, e per questo Giulio Della Rovere, già pastore di Poschiavo, era arrivato clandestinamente alla corte ferrarese tenendovi 15 prediche ed esortando alla celebrazione protestante della Santa Cena, Ercole II scrisse al re Enrico II di Francia dicendo che sua moglie era “sedotta da qualche furfante luterano”.

Da Roma si comprese la necessità di intervenire alla corte estense, per estinguere ogni focolaio calvinista isolando la duchessa. Nel 1551 Ignazio di Loyola mandò a Ferrara il rettore del Collegio romano, il gesuita Jean Pellettier, ma invano; nel marzo 1554 Renata – che da tempo non assisteva alle messe di corte – si oppose alla presenza delle figlie nelle cerimonie di celebrazione della Pasqua. Venne allora a Ferrara lo stesso inquisitore generale, il domenicano Matthieu Ory.

Mentre le due figlie venivano rinchiuse in convento, Renata era prelevata da Consandolo e isolata nel Castello estense; per timore di perdere il legame con le figlie, si rassegnò e fece formale abiura della propria fede, promettendo di assistere alle funzioni cattoliche.
Nel 1560, dopo la morte del marito, Renata tornò in Francia, e viaggiò fino alla Linguadoca e al Delfinato per prodigarsi in favore dei bisognosi e dei perseguitati. Nel suo castello di Montargis trovarono rifugio cattolici e protestanti, non sempre in accordo, il che costrinse Renata ad emettere delle ordinanze per governarne i conflitti.

Edificò anche una chiesa in cui si celebrava la “cena del Signore” secondo il rito riformato. Continuò a proteggere i protestanti che chiedevano di essere ospitati nel suo castello, fino ad accoglierne, si dice, a centinaia contemporaneamente. Nel 1569 le fu imposto di mandare via 460 persone dal suo castello. Seguì un periodo di relativa tranquillità, fino alla sua morte, avvenuta il 12 giugno 1575. Fu sepolta nel castello ma, per evitare eventuali profanazioni di fanatici, l’esatto sito rimase segreto e a tutt’oggi non è stato ritrovato.

“Memoria” di Natalia Ginzburg.

Natalia e suo marito Leone Ginzburg.

Memoria

Gli uomini vanno e vengono
per le strade della città
Comprano libri e giornali,
muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso,
le labbra vivide e piene.

Sollevasti il lenzuolo
per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo
con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta.
Era il viso consueto,
solo un poco più stanco.

E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo
che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso
per l’ultima volta.

Se cammini per strada
nessuno ti è accanto
Se hai paura
nessuno ti prende per mano
E non è tua la strada,
non è tua la città.
Non è tua la città
illuminata. La città
illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno
e vengono comprando
cibi e giornali.

Puoi affacciarti un poco
alla quieta finestra
a guardare il silenzio,
il giardino nel buio.
Allora quando piangevi
c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi
c’era il suo riso sommesso.

Ma il cancello che a sera
s’apriva, resterà chiuso
per sempre, e deserta
è la tua giovinezza.
Spento il fuoco,
vuota la casa.

Natalia Ginzburg

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Natalia Ginzburg scrisse questa poesia in morte di suo marito Leone, torturato ed ucciso il 14 febbraio 1944 nelle carceri tedesche per la sola colpa di essere ebreo.
Il ‘tu’ di questa poesia è l’autrice stessa: è lei che parla a sé stessa, in una specie di dialogo interiore tra sé e sé.


La poesia comunica il senso di straniamento successivo alla morte della persona cara: il mondo sembra andare avanti lo stesso, uguale a prima; gli uomini vanno e vengono per le strade della città, indaffarati nelle loro occupazioni quotidiane; tutto sembra come prima.

Anche quando lo ha visto per l’ultima volta, morto, le è sembrato simile a come era prima, con il viso di sempre, le mani, le scarpe, i vestiti di quando era in vita…

Cosa c’è di diverso, allora? La solitudine; quella che le piomba addosso quando percepisce l’assenza di lui; quando non c’è nessuno che le cammina a fianco, nessuno che le prende la mano se ha paura; non c’è nessuno che rida con lei, che le dia serenità quando piange. Così è per le strade della città, che non è più la sua città, ma di altri; e così è dentro casa sua, che è vuota e deserta, come la sua vita.

La poesia, con il titolo di ‘Memoria’, fu pubblicata nel dicembre del 1944 sulla rivista “Mercurio”.

Di seguito la poesia della Ginzburg “Memoria” letta da Lella Costa.

Doris Lessing, la Signora della letteratura inglese del Novecento.

Doris Lessing.

Doris Lessing
11 ottobre 2007
premio Nobel per la letteratura .

In una stradina alberata di Hampstead, il quartiere dello ‟champagne socialism”, versione londinese del radical-chic, popolato di artisti, scrittori, intellettuali di sinistra, arriva un panciuto taxi nero. Ne discende, con qualche disagio reso comprensibile dai suoi 87 anni, una vecchietta in giacca indiana, gonna di jeans, immancabile sciarpa rossa, sandali senza calze e in mano la sporta della spesa, da cui spunta un mazzo di carciofi.

Ad aspettarla al suo rientro dallo shopping, davanti alla porta di casa, trova un’orda di giornalisti, fotografi, cameramen: teoricamente dovrebbe essere un indizio sufficiente, visto il giorno in cui succede, a farle capire di cosa si tratta. Ma lei sembra genuinamente sorpresa. Signora Lessing, le dice uno dei cronisti, ha sentito la notizia? ‟No”. Ha appena vinto il premio Nobel per la letteratura. E come si sente? ‟Non potrei essere più contenta”.
Pausa. ‟Erano trent’anni che lo aspettavo. La gente che non ha sentito parlare di me, adesso, andrà a comprare i miei libri. È una bella cosa, guadagnerò un po’ di soldi”.

Doris è stata un’icona delle donne e del femminismo per tutta la vita ed è l’undicesima scrittrice a vincere il Nobel dalla creazione del premio nel 1901.
E, con i suoi 87 anni, notano i critici inglesi, Doris Lessing è anche l’autore più anziano insignito del Nobel per letteratura nella storia del premio.

Nata il 22 ottobre 1919 come Doris May Tayler, a Kermanshah, in Persia, nell’attuale Iran, la famiglia della scrittrice inglese Doris Lessing si trasferì nella colonia inglese della Rhodesia del Sud (l’odierno Zimbabwe) nel 1925, conducendo la difficile vita dei coltivatori di mais. Sfortunatamente i mille acri africani non divennero sufficientemente fecondi, ostacolando il desiderio della madre di vivere il sogno vittoriano delle «terre selvagge».
Doris Lessing frequentò una scuola cattolica femminile, sebbene la sua famiglia non fosse cattolica. Lasciò la scuola all’età di 15 anni, divenendo da quel momento autodidatta.

Nonostante le difficoltà e un’infanzia infelice, le opere della Lessing sulla vita nell’Africa inglese sono piene di compassione sia per le infruttuose vite dei coloni britannici sia per le sfortune degli indigeni. La scrittrice si è sposata due volte (entrambe seguite dal divorzio) e ha tre figli. Il secondo marito fu Gottfried Lessing, un emigrante tedesco, di cui ha mantenuto il cognome. Il suo primo romanzo, “L’erba che canta” , fu pubblicato a Londra nel 1949, dopo il suo trasferimento in Gran Bretagna, dove ha vissuto da allora.

Le opere della Lessing sono comunemente divise in tre periodi: il comunismo (1944-1956), quando scrive radicalmente su temi sociali, il tema psicologico (1956-1969) e il sufismo che viene esplorato nella serie di «Canopus». Dopo i temi sufisti Lessing ha lavorato in tutte e tre le aree.

Il suo romanzo “Il taccuino d’oro” è considerato un classico della letteratura femminista da molti studiosi, ma stranamente non dall’autrice stessa

Nel 2001 fu premiata con il Premio “Principe delle Asturie” nella categoria Letteratura per le sue opere in difesa della libertà e del Terzo Mondo e con l’ Italiano “Grinzane Cavour”.

Nei suoi libri ha sempre dato voce alle esperienze femminili. Nonostante non si sia mai voluta etichettare come femminista, e il suo romanzo “Il taccuino d’oro” è considerato una delle opere più rappresentative della letteratura femminista.

È un classico che racconta l’emancipazione delle donne con tutte le sue difficoltà, un libro straordinario e terribile che ritrae il mondo femminile in modo impietoso: parla di donne sole per scelta, donne libere e fuori dagli schemi, donne forti e donne impaurite. D’altronde la vita stessa della Lessing è un esempio di come si possa vivere senza essere imbrigliate in restrizioni politiche, sociali o culturali.
È deceduta a Londra il 17 novembre 2013 all’età di 94 anni.

Marina Cvetaeva: grande poeta, ma molto sfortunata!


Salvatore Fiume ~ A Susette, 1956.

Ecco ancora una finestra …

“Ecco ancora una finestra,
dove ancora non dormono.
Forse – bevono vino,
forse – siedono così.
O semplicemente – le due
mani non staccano.
In ogni casa, amico,
c’è una finestra così.

Non candele o lampade hanno acceso il buio:
ma gli occhi insonni!

Grido di distacchi e d’incontri:
tu, finestra nella notte!
Forse, centinaia di candele,
forse, tre candele…
Non c’è, non c’è per la mia
mente quiete.
Anche nella mia casa
è entrata una cosa come questa.

Prega, amico, per la casa insonne,
per la finestra con la luce”.

~ ~ ~ ~ ~ ~

Marina Ivanovna Cvetaeva, nata a Mosca l’8 ottobre 1892, fu una delle voci più originali e importanti della poesia russa del XX secolo e l’esponente più di spicco del locale movimento simbolista; il suo lavoro non fu ben visto dal regime staliniano.

Seguendo gli orientamenti della comunità russa, emigrata, si trasferì a Parigi nel novembre 1925.

Tornò a Mosca insieme al figlio Mur nel 1939, nella speranza di ricongiungersi al marito, di cui si erano perse le tracce e che in realtà era fuggito in Spagna, e alla figlia Ariadna Efron, tornata a Mosca nel 1937 e subito mandata in un campo di lavoro.

In uno stato di estrema povertà e di isolamento dalla comunità letteraria, il 31 agosto 1941 s’impiccò nell’ingresso dell’izba che aveva affittato da due pensionati.

La riabilitazione della sua opera letteraria avvenne solo a partire dagli anni sessanta, vent’anni dopo la sua morte.

“Divorzio” di Wislawa Szymborska.

Wislawa Szymborska.

Una bellissima poesia della grande Wislawa Szymborska, che potrebbe risultare particolarmente attuale in questi giorni… Forse è meglio una bella poesia di cento spot!

Divorzio

Per i bambini è la prima fine del mondo.
Per il gattino un nuovo padrone.
Per il cagnolino una nuova padrona.
Per i mobili: scale, fracasso, prendere o lasciare.
Per le pareti i segni dei quadri.
Per i vicini, chiacchiere e noia interrotta.
Per l’auto, meglio se fossero state due.
Per i romanzi e le poesie – ok, vedi tu.
Va peggio con l’enciclopedia e gli apparecchi video,
e poi con quella guida alla scrittura corretta,
dove forse ci sono consigli in merito ai due nomi –
se ancora unirli con la congiunzione «e»,
o se ormai separarli con un punto.

(Wislawa Szymborska – “La gioia di scrivere”, tutte le poesie, 1945 – 2009)

Il “rosa shocking” di Elsa Schiapparelli.

Molte metafore usate per descrivere l’amore rimandano ai fiori.
L’amore sboccia, fiorisce, appassisce. E quando ci si innamora si ha la sensazione di diventare primavera, come se dei boccioli ci fiorissero dentro.
E a tal proposito mi piace parlare di questo libro illustrato dal titolo Bloom, che somiglia a un bouquet e che racconta la storia di una donna che è riuscita a diventare ciò che desiderava, di una donna che è riuscita a sbocciare.

Elsa Schiaparelli (Roma1890 – Parigi 1973) è una bambina innamorata dei colori e della natura. Nasce in una famiglia aristocratica che non le fa mancare nulla di materiale ma che le lesina affetto e approvazione.

I genitori non comprendono la personalità ribelle e indipendente di Elsa e ne mortificano la creatività (viene mandata in convento perché si macchia della colpa di aver scritto un libro di poesie – convento dal quale poi uscirà a seguito di uno sciopero della fame).

Elsa Schiaparelli trascorre l’infanzia a Roma, ma la sua vera vita comincia quando da adulta, dopo il convento in Svizzera e un periodo a Londra e poi a New York, si trasferisce a Parigi e inizia a frequentare l’ambiente dell’arte e della moda.
Le sue idee in fatto di abbigliamento sono rivoluzionarie (come Coco Chanel anche lei sosterrà l’importanza per le donne di liberarsi dalla costrizione dei corsetti) e ogni sua creazione è originale e intrisa di voglia di sperimentare.


È a lei che dobbiamo il colore Rosa Shocking.

A una bambina a cui dicevano che era brutta e che per non soffrire si rifugiava nella bellezza della natura.
Il rosa Schiaparelli.

Bloom

Più che una nobildonna, una prosperosa contadina lombarda!

Lorenzo Lotto ~ Ritratto di Lucina Brembati, 1518 ca. Accademia Carrara, Bergamo.

Così Lorenzo Lotto ci presenta l’immagine veritiera e non idealizzata di una florida Signora d’inizio Cinquecento.

Il suo volto paffuto, contornato da un vistoso doppio mento, e il naso aquilino sono indagati con crudezza dall’artista, in un ritratto che trasmette l’idea, al tempo stesso, di opulenza e ricchezza.

La sontuosa veste coi ricami a conchiglia, la stola di pelliccia con la testa di martora “à pendant”, la complicata acconciatura a nastri e soprattutto i preziosi gioielli, fra cui spicca un curioso ciondolo consistente in uno stuzzicadenti in oro zecchino, fanno capire che siamo davanti all’appartenente a una Casata di facoltosi banchieri o mercanti.

Lo stuzzicadenti gioiello.

Si dovette però aspettare sino all’inizio del secolo scorso perché uno studioso potesse con certezza decriptare i dettagli disseminati qua e là da Lotto nel suo capolavoro per identificare definitivamente la donna, dopo tante ipotesi, come l’aristocratica bergamasca Lucina Brembati.

Non solo infatti, come in un moderno rebus, le lettere “CI” sono inserite nel bel mezzo della falce di luna che vediamo sullo sfondo del quadro, componendo il nome di “Lu-CI-Na”, ma la posizione della mano destra, alludendo ad uno stato di gravidanza che non sappiamo se reale o soltanto immaginifico, richiama la tradizione di Giunone Lucina, la dea che per i Romani “porta i bimbi alla luce”.

Ecco dunque che, a distanza di oltre cinque secoli dalla realizzazione dell’opera, Lorenzo Lotto comunica con noi, facendolo come al solito attraverso gli enigmatici indizi disseminati nei suoi quadri, così guidandoci per sottili allusioni sino alla scoperta della verità.

Andrée Geulen-Herscovici: 100 anni ben spesi!

Andrée Geulen-Herscovici

La signora Andrée Geulen-Herscovici, inserita fin dal 1989 nel numero dei “Giusti fra le Nazioni” allo Yad Vashem, è spirata il 31 maggio del 2022.

Classe 1921, nata a Bruxelles, insegnante ventenne alle scuole elementari si dovette confrontare in prima persona con le oscene persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei.

Constatando l’imbarazzo di alcuni suoi alunni che si tenevano i libri stretti al petto per cercare di nascondere la stella gialla che erano stati costretti a esibire, ordinò a tutti, ebrei e non, di presentarsi in classe con un grembiule che coprisse quell’umiliante segno distintivo.

Decisa a non restare con le mani in mano dinanzi al terribile destino che si prospettava per quei ragazzini e quelle bambine, insieme alla preside del suo istituto Ovile Ovart, in occasione della Pentecoste del 1943, nascose nell’edificio scolastico 12 alunni di religione ebraica che, a differenza dei cattolici tornati per quella festività presso le loro famiglie, non avevano dove andare.

In seguito a una delazione, la scuola fu perquisita dai nazisti e i bambini, insieme alla preside, deportati nei campi di sterminio, da dove non sarebbero più tornati.

Andrée invece riuscì miracolosamente a sfuggire alla cattura, non prima di aver risposto al gerarca della Gestapo che le chiedeva se non si vergognasse a nascondere degli ebrei: “E tu invece non ti vergogni di fare la guerra ai bambini?”.

Per i due anni successivi, entrata in clandestinità sotto falso nome, la signora Geulen avrebbe avuto un’unica preoccupazione: quella di salvare da morte certa il maggior numero possibile di bambini, anche piccolissimi, fornendo loro nuove generalità.

Certo, ciò significava allontanarli dai loro genitori per affidarli a monasteri o famiglie cristiane, il che per lei costituì la parte più difficile e dolorosa della missione che si era auto-imposta, sempre curando però che i familiari sapessero dove si trovavano e, compatibilmente con la situazione del momento, potessero rendere loro visita.

Vedere lo strazio di madri e padri costretti a separarsi dai loro bimbetti di 2-3 anni la faceva e l’avrebbe sempre fatta scoppiare in lacrime per il resto della vita, anche al solo ricordo.

Miracolosamente scampata ai rastrellamenti, dopo la liberazione il suo compito fu – al contrario – quello di ricongiungere i bambini coi familiari superstiti. Anche qui, visto il momento, una missione certamente complessa, ma perlomeno gioiosa.

Raccontando nel corso degli anni la sua vita a ragazzi e adulti, Andrée usava ripetere: “Quello che ho fatto era semplicemente il mio dovere. Disubbidire alle leggi di allora era la sola cosa giusta da fare.”.

Si calcola che centinaia furono le vite da lei salvate.

Nel 1998, quando presso lo Yad Vashem si tenne una riunione dei “suoi bambini”, ormai diventati adulti, li salutò uno ad uno dicendo: “Vi ho amati tanto. Vi amo ancora altrettanto, oggi”.

Andrée e suo marito

Omaggiata col conferimento della cittadinanza onoraria israeliana nel 2007, Andrée si sposò con Charles Herscovici, un ebreo i cui genitori perirono nell’Olocausto.

Alla notizia della sua morte, l’ambasciatore israeliano in Belgio, in una nota, scrisse: “Se ci fossero più donne e uomini come Andrée Geulen-Herscovici il mondo sarebbe un posto migliore”.

Come dargli torto?

“Le ragazze in camice bianco – Come le prime donne hanno rivoluzionato la medicina” di Olivia Campbell.

Molto motivate dalla frustrazione per cure mediche inadeguate nel tempo, tre donne – Elizabeth Garret Anderson, Elizabeth Blackwell e Sophia Jex-Blake- decisero di lottare per il diritto di diventare mediche loro stesse spianando la strada a tante altre.

Quando Elizabeth Blackwell decise di diventare la prima donna medico della storia, per molti versi non fu davvero la prima. Le donne hanno fornito assistenza medica per secoli, in ogni parte del mondo, come erboriste, sacerdotesse, sciamane, farmaciste, guaritrici, maghe, indovine, chirurghe, infermiere e levatrici  (l’ostetricia, di per sé, non veniva considerata medicina). Eppure, questa storia così ricca in gran parte non viene considerata e sono pochi i nomi sopravvissuti al passare del tempo.

Una delle prime donne medico il cui nome è attestato nei documenti storici è Agnodice. La leggenda narra che Agnodice cominciò a praticare la medicina nel IV secolo avanti Cristo per salvare le abitanti di Atene da malattie curabili che spesso trascuravano fino a morirne soltanto perché non volevano farsi visitare da medici maschi. Poiché la professione medica era preclusa alle donne, Agnodice cominciò a praticare travestita da uomo. Per rivelare alle sue pazienti chi fosse davvero, sollevava le vesti e mostrava il sesso. Ben presto gli altri medici della città lo scoprirono e, per invidia, la fecero condannare per aver esercitato illegalmente. In una drammatica resa dei conti finale, le abitanti di Atene accorsero in tribunale per difenderla, facendo sì che il divieto contro le donne medico fosse abolito.

Questo resoconto ha un unico problema: nell’antica Grecia, nessuna legge proibiva alle donne di esercitare la professione medica. Questa incongruenza, insieme ad altri particolari fantasiosi del racconto, è stata sufficiente per convincere alcuni studiosi che Agnodice non sia mai esistita. Altri sostengono invece che Agnodice era una persona reale che fu davvero perseguitata pur non avendo infranto alcuna legge ufficiale.

È questo il modo in cui ancora oggi ci vengono presentate le donne medico della storia: attraverso biografie disseminate di dubbi, riserve, precisazioni. Vite esaminate al microscopio da stuoli di studiosi in cerca di una qualsiasi traccia di errore o mistificazione da brandire con gioia come prova del fatto che questa o quella donna non fosse ciò che credevamo. Non capita spesso di sentir parlare del contributo apportato dalla genialità femminile alla storia della medicina, e quando accade ci insegnano a mettere in dubbio il fondamento di tali affermazioni. Raramente gli uomini godono di una simile, scrupolosa attenzione.

Il numero relativamente esiguo di donne attestate come medici professionisti nei documenti storici non dipende dal fatto che non esistessero, ma piuttosto dal fatto che molte delle attività a cui si dedicavano, come quella di guaritrice o di ostetrica, non fossero censite. Per molti secoli, l’intero nucleo famigliare di un uomo era coinvolto nel suo lavoro: mogli e figli di dottori e farmacisti aiutavano a preparare medicinali, visitare i malati e somministrare trattamenti; la famiglia di un cerusico lo assisteva mentre estraeva denti e ricomponeva ossa fratturate. Spettava poi alle vedove portare avanti queste attività di famiglia.

In molte regioni dell’Europa, a ereditare il ruolo del guaritore del villaggio erano donne e uomini “saggi”; alle donne, in particolare, era riservato il compito di accudire i familiari malati o moribondi e di prendersi cura dei vicini infermi che non avevano nessun parente che si occupasse di loro. Nel Cinquecento, re Enrico VIII concedeva licenze mediche occasionali “ad alcune donne affinché curassero i poveri che non potevano permettersi di pagare la parcella di medici regolari”. Nella Francia medievale circa un centinaio di donne erano riconosciute come medici (a fronte di settemila uomini). Ben presto le suore divennero le principali praticanti delle arti curative e i conventi una sorta di proto-ospedali. Le suore badavano agli orti di erbe medicinali, bendavano le ferite di battaglia dei soldati e curavano gli abitanti del villaggio.

Quando nel XIII secolo la medicina cominciò ad attestarsi come una vera e propria professione – per praticarla erano richieste una formazione universitaria e l’abilitazione – entrò in gioco il controllo patriarcale. Le donne non potevano diventare dottori “ufficiali” perché non erano ammesse all’università. Fuori dall’Inghilterra e dalla Francia, alcune istituzioni erano più permissive: nel 1390, Dorotea Bucca succedette al padre occupando la cattedra di medicina all’Università di Bologna, carica che mantenne per più di quarant’anni. Tuttavia, queste figure erano l’eccezione, non la regola.

Il processo di professionalizzazione della medicina tagliò fuori ancor di più le donne perché la formazione scolastica cominciò a essere considerata superiore alle conoscenze tramandate oralmente sulle quali poggiava gran parte della medicina popolare praticata dalle donne.

Sibilla Aleramo: femminista, unica, testarda, passionale e ineguagliabile

Sopravvissuta a tante tempeste, portava ancora con sé, e imponeva agli altri, quella fermezza, quel senso di dignità ch’erano stati la sua vera forza e il suo segreto. (Eugenio Montale)

Sibilla Aleramo nel suo pieno fascino.

La vita di Sibilla Aleramo si è dipanata a cavallo di due secoli alla stregua di un romanzo con accenti da tragedia greca, messa nero su bianco da lei stessa nel libro autobiografico: “Una donna”, che ebbe un successo straordinario.

Nel libro Sibilla Aleramo denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Se ne parlò in Italia e anche oltre i confini nazionali, divenne un caso letterario e un tema di discussione che infiammava i salotti borghesi. Venne definito il primo libro femminista in Italia, anche se non sempre le donne amavano Sibilla Aleramo, molte vedevano in lei una nemica. Ma ormai Sibilla attraverso la scrittura aveva avuto il coraggio di ribellarsi, e da quel momento non si sarebbe più fermata.

Nata ad Alessandria il 14 agosto del 1876 come Marta Felicina Faccio (detta “Rina”), prima dei quattro figli di Ambrogio ed Ernesta Cottino, seguì le peregrinazioni lavorative dei genitori a Milano e poi, dall’età di 12 anni, a Civitanova Marche dove il padre assunse la direzione di una vetreria presso la quale la stessa Rina, giovanissima, lavorò come impiegata, mentre a casa si occupava della madre, affetta da quelle turbe psichiche che l’avrebbero portata prima a tentare il suicidio e infine a subire l’internamento coatto presso il manicomio di Macerata.

Tutto il suo affetto di bambina e adolescente lo riversò dunque sul babbo, a lungo considerato il modello da seguire, finché non scoprì che l’uomo da anni intratteneva una relazione extraconiugale che la sconvolse al punto da farla allontanare da lui.

Il mondo “dei maschi” la tradì una seconda volta, rubandole l’innocenza sotto le sembianze di un mediocre dipendente della stessa ditta presso cui lavorava, che le usò violenza quando lei era appena quindicenne, costringendola poi ad accettare un matrimonio riparatore, visto il suo stato di gravidanza.

Se il primo figlio le morì prematuramente, nel 1895 lo stanco ménage matrimoniale non fu ravvivato nemmeno dalla nascita del secondo, Walter, che anzi peggiorò il già precario equilibrio familiare inducendo il marito a operare su di lei insopportabili pressioni psicologiche affinché, rinunciando al suo impegno sociale in favore delle donne e all’avviata collaborazione in qualità di scrittrice e saggista con riviste quali “la Gazzetta Letteraria”, “l’Indipendente” e il socialista “Vita Internazionale”, di fatto si chiudesse in casa ad occuparsi del neonato.

Dopo aver tentato pure lei, come la madre, il suicidio e aver seguito a Milano, per motivi lavorativi, quell’uomo mai amato, nel capoluogo lombardo le si dischiusero orizzonti nuovi e diversi da quelli ristretti di una (pettegola) cittadina di provincia, con la direzione de “l’Italia femminile”.

La sua indipendenza e libertà di giudizio, diventata ormai motivo di vergogna per il marito e fonte di continui, furiosi litigi, la convinse infine a prendere la decisione più difficile: quella di abbandonare il tetto coniugale e l’amato figliolo per iniziare veramente a vivere, trasferendosi da sola a Roma nel 1902.

Spogliatasi – con sollievo – delle vesti di moglie e – con infinito dolore – di quelle di madre, rivestì così le uniche che le si addicevano veramente: quelle di donna.

E proprio “Una donna” fu il titolo che scelse per il suo primo e più importante romanzo, pubblicato nel 1906 con lo pseudonimo carducciano di Sibilla Aleramo scelto per lei dal nuovo compagno, il poeta Giovanni Cena, e subito tradotto in dodici lingue, per l’eco mediatica che riscosse.

Quello con Cena fu solo il primo dei numerosi, oltreché turbolenti e contrastati, rapporti amorosi che la videro coinvolta, in relazioni quasi sempre improntate ad una passione bruciante che ardeva con la stessa velocità con cui si spegneva.

Fra le più note, figura quella col “matto di Marradi”, il poeta Dino Campana (celeberrimo autore de “i Canti Orfici”) pure lui destinato all’internamento in manicomio non prima però di aver stilato parole orribili nei confronti dell'(ex) amata, che per lui nel 1919 scrisse “Il Passaggio”, libro destinato a ispirare Michele Placido, regista del film “Un viaggio chiamato amore”, del 2002.

Nel romanzo “Il frustino”, del 1932, la Aleramo raccontò dei tre uomini (Giovanni Boine, Clemente Rebora e il pittore Michele Cascella) sui quali riversò contemporaneamente il suo affetto, dopo i rapporti già sfioriti con Giulio Parise (cui lei dedicò “Amo dunque sono”, del 1927) e ancor prima con la poetessa Lina Poletti.

Nel 1936 eccola iniziare un – per quei tempi – scandaloso rapporto, destinato a durare un intero decennio seppure fra alti e bassi, col poeta Franco Matacotta, di ben 40 anni più giovane di lei, ispiratore della raccolta di poesie “Selva d’amore”.

Se grande fu la sua irrequietezza in campo sentimentale, il filo conduttore delle numerose opere, come pure dell’intera esistenza di Sibilla Aleramo, spirata il 13 gennaio del 1960, fu l’orgogliosa rivendicazione della sua indipendenza, sfociante in sostanziale parità di genere con gli uomini, i quali infatti si meravigliavano di poter interloquire con lei “da pari a pari”.

Il prezzo da pagare per raggiungere un risultato allora tanto difficile da ottenere, quanto da lei ambito, consisté però nel doversi “adattare” a loro, rinunciando per esempio alla sua maternità.

Un’altra violenza perpetrata “dai maschi” nei suoi confronti, dopo quella fisica subita all’età di 15 anni.