Categoria: arte al femminile

Donne, pittura, società: riflessioni su una parità non ancora riconosciuta.

La visione della serie tv L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrantetrasmessa dalla RAI, e, in particolare, una battuta pronunciata da  una delle due protagoniste, mi ha indotto ad elaborare alcune considerazioni circa il  ruolo della donna nella pittura. Lenù, diminutivo di Elena, che ha già all’attivo il successo riscosso con la pubblicazione del primo romanzo, invitata dal suo interlocutore a leggere  libri che parlano di donne, come Madame Bovary,  afferma con una certa determinazione il suo desiderio di voler scrivere sull’argomento, in quanto nota come le figure femminili  siano sempre state considerate unicamente dal punto di vista degli uomini.

In effetti questo fenomeno si riscontra anche nell’arte figurativa.

L’universo femminile ha sempre e, ovviamente, suscitato l’interesse degli uomini, che tuttavia hanno creato degli stereotipi – l’innocente fanciulla, la moglie, la madre, la prostituta, la femme fatale, ecc. – che in qualche misura hanno condizionato anche le donne, ingabbiandole in una sorta di recita a vita per identificarsi in ruoli pensati dai maschi per piacere ai maschi. Mi rendo conto che il problema è molto complesso, ma qui voglio  proporre  soltanto alcune brevi riflessioni, che evidenziano come la donna, sia come autrice, sia come soggetto dell’opera sia stata da sempre relegata ai margini della società.

Ad esempio, in pittura, per secoli  essa viene presentata o come un personaggio mitologico, di cui viene esaltata la bellezza come in Venere, o la gelosia come in Giunone,  caratteristiche  che in un certo senso sono legate allo sguardo dell’uomo, ammirato oppure assente, tanto da scatenare passioni ostili, basti pensare a Medea, o a Elena di Troia. Oppure viene raffigurata come una tenera madre, anzi come la madre per eccellenza, la Vergine  che tiene in braccio il suo bambino, o ancora si ricorre alla figura femminile per rappresentare un concetto allegorico, la Carità, la Giustizia fino ad arrivare alla celeberrima Libertà che guida il popolo di Delacroix.

Le artiste spesso non vengono neanche menzionate dai biografi e ancora oggi stentano a trovare un posto nei manuali di storia dell’arte. Si parla quasi esclusivamente di Artemisia Gentileschi, ma più che per il suo valore artistico, per la triste  vicenda personale che la vide vittima dello stupro subito dall’aguzzino Agostino Tassi, o di Frida Kahlo, anche lei proposta quale icona dell’opposizione al capitalismo imperante per quella sua ostinata ostentazione del costume tradizionale messicano e dei baffi, segno della  ribellione alle convenzioni, o di Tamara de Lempicka per le sue trasgressioni.

Certo oggi, per fortuna, stanno uscendo dall’ombra artiste notevoli, spesso presenti in varie mostre. Ma le varie Sofonisba Anguissola, Elisabetta Sirani, Fede Galizia, Ginevra CantofoliOrsola Maddalena Caccia, che oggi cominciano a trovare il giusto spazio nel panorama culturale della loro epoca, avendo condotto esistenze “normali” senza grandi eventi, hanno dovuto aspettare secoli prima di essere valutate nella giusta ottica, prima che qualche studioso abbia condotto ricerche atte a ripercorrerne le carriere brillanti. Le nobili potevano occuparsi della miniatura, ritenuta un’arte minore, potevano dipingere ritratti, per i quali spesso erano giudicate per l’abito indossato dall’effigiato, più o meno rispettoso della moda del tempo,  argomento classificato come “frivolo”, più difficilmente se ne coglieva la portata innovativa in senso estetico, formale, tematico. Le donne si formavano in ambito familiare, non potevano frequentare accademie.

Questa situazione si protrae fino a tutto il Settecento e  l’Ottocento.

Faustina Bracci, eccellente ritrattista  miniaturista, non riscuote lo stesso plauso dei fratelli, Virginio architetto, Alessandro scultore e Filippo pittore. E ancora nel secolo successivo  i primi pittori che spezzano con la tradizione,  gli impressionisti, che pur accolgono nel loro gruppo Berthe Morisot, non riescono   a concepire  le donne fuori dell’ambito domestico, come   le Stiratrici di Degas, e se svolgono altre attività,  o sono illecite come la  prostituzione  o sono mansioni a servizio dello svago degli uomini. Le ballerine di Degas servono per far divertire un pubblico borghese costituito anche da donne, ma che vanno a teatro per essere notate, oltre che per assistere agli spettacoli, come si vede in La loggia di Mary Cassatt del 1879 o le Giovani donne nel palco del 1882 (fig. 1).

1) M. Cassatt, Giovani donne nel palco, Washington, National Gallery

Le signorine ben vestite che si riparano con l’ombrellino di Monet, o le figlie di Renoir intente a leggere o a suonare il pianoforte rivelano un immaginario maschile in cui le donne si occupano di faccende futili,  come era giudicata allora la moda,  o creative come la musica, ma  solo per soddisfare un piacere da gustarsi nell’intimità delle quattro mura di una casa. Il non etichettabile Manet dipinge iAngolo di un caffè concerto (fig. 2) una cameriera che sta portando un boccale di birra ad un tavolo dove è seduto un operaio, che si concede una pausa dalla sua occupazione, godendo di uno spettacolo di danza.

2) E. Manet, Angolo di un caffè concerto, Londra, National Gallery

La cameriera e la ballerina, che si vede sullo sfondo del quadro,  dunque,  servono per il relax dell’uomo, l’unico che pare aver lavorato, come se la dura disciplina della danza o il servizio in un locale non implicassero la stessa fatica. Interessanti, a tal proposito, alcuni studi condotti sui dipinti della Morisot.

Poesia e arte.

EDWARD HOPPER, “HOTEL ROOM, 1931

Quando trovo poesie che prendono ispirazione da un dipinto, resto affascinata: il connubio tra poesia e arte mi consente di valutare come un’altra persona interpreta i sentimenti e le sensazioni espresse dalla tela.

Il dipinto che vi propongo è del pittore statunitense Edward Hopper, Hotel Room, del 1931, esposto al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

A dargli voce e forma di poesia è la filologa spagnola Josefa Parra (Jerez de la Frontera, 1965): la dolorosa tristezza di un’attesa vana e senza speranze, come spesso appare nelle opere di Edward Hopper.

Josefa Parra

Una triste piccola speranza di Josefa Parra

Se c’era ancora una promessa

tra me e te, un’offerta

prolungata, una luce laggiù

da poter seguire;

se restava la speranza

sebbene fosse una triste

piccola speranza;

se anche le tue labbra

mai hanno pronunciato

la parola mortale che io desideravo,

o qualcosa che le assomigliasse,

penso che ancora avrei trovato

una ragione per aspettarti.

E chissà se il commercio di carne

non fu, in qualche modo, una promessa?

(da Alcoba del agua, Quórum, 2002)

“Il matrimonio di Rosa”: quando sposarsi con sé stesse é la meta più ambita.

In quasi tutte le sale cinematografiche si proietta la divertente commedia della regista spagnola Icíar Bollaín, satira sul desidero d’indipendenza e sulle scelte delle donne.

Già nota per film ‘di genere’, intelligenti e mirati verso obiettivi di emancipazione e sensibilizzazione, che ritraggono la donna nel suo profondo e spesso negato anelito all’indipendenza, la regista, sceneggiatrice e attrice Icíar Bollaín, classe 1967, originaria di Madrid, torna a dirigere un film, ‘Il matrimonio di Rosa’ (La Boda de Rosa), dedicato a tutte le donne, alle loro fatiche quotidiane, alle mille attività di cura, agli oneri lavorativi e familiari, da cui spesso ciascuna di noi vorrebbe fuggire, senza più rendere conto a nessuno.

Se nei primi film, Hola, ¿estás sola? (1995), vincitore del premio miglior nuovo regista alla Semana Internacional de Cine de Valladolid, con Flores de otro mundo (1999), miglior film della Settimana internazionale della critica al 52º Festival di Cannes e candidato al Premio Goya, ed in particolare con Ti do i miei occhi(2003), sulla violenza di genere e domestica, vincitore di ben sette Premi Goya, (fra cui miglior film e miglior regista) i temi al femminile erano trattati con una cifra in parte drammatica, nel suo ultimo film la regista si affida sapientemente allo stile della commedia, sobria e mai eccessiva, ma brillante e realistico, per proporre situazioni e sentimenti contrastanti, portando la spettatrice ad un’inevitabile identificazione con la protagonista. 

Rosa infatti ha un lavoro estenuante – cuce i costumi in produzioni con moltissime comparse – ha un fratello ingombrante, un padre troppo presente, una sorella piuttosto sfuggente, un fidanzato che riesce a vedere a stento e una figlia che si è appena separata con due gemelli. Abituata ad anteporre i bisogni degli altri ai suoi, Rosa sta per compiere 45 anni e la sua vita non solo è fuori controllo, ma è molto lontana dall’essere qualcosa che può definirsi “sua”. Decide così di dare uno scossone alla propria vita e afferrarne le redini, o almeno tentare di farlo. 

Il sogno di Rosa è infatti quello di riaprire la vecchia sartoria della madre, in un paesino vicino al mare, ma prima vuole organizzare un matrimonio molto speciale: un matrimonio con sé stessa. Senza rivelare a nessuno le proprie intenzioni Rosa convoca i fratelli e la figlia a Benicasim, il paese di origine della madre, come testimoni del suo “matrimonio”. Ma presto scoprirà che i fratelli e la figlia hanno altri piani e che i suoi si scontrano con gli interessi di tutta la famiglia, così che cambiare la propria vita non sarà facile impresa.

“ Racconta Icíar Bollaín di essersi imbattuta nel ‘solo wedding’ leggendo un articolo di giornale poco più di due anni fa: un giornalista britannico raccontava di un’agenzia a Tokyo dove le donne possono realizzare il sogno di sposarsi ed essere “principesse per un giorno” nel loro abito da sposa, con auto da matrimonio e album fotografico inclusi, senza bisogno dello sposo. Ma il matrimonio in solitaria in Giappone ha più a che fare con l’estetica e l’idea che non avere uno sposo non ti impedisce di diventare una principessa per un giorno e fare delle belle foto, una tradizione molto importante per le donne giapponesi.

Presto ho scoperto che il matrimonio in solitaria è un fenomeno internazionale: le donne di tutto il pianeta, Spagna compresa, da sole o in compagnia di familiari e invitati, hanno iniziato a sentire il bisogno di “impegnarsi” per sé stesse: prendersi cura di sé, rispettarsi e, insomma, amarsi, in una cerimonia che prende in prestito tutti gli elementi del matrimonio convenzionale come le promesse, l’abito, l’anello e persino la luna di miele… tranne un piccolo dettaglio: lo sposo”.

Emblematica la prima scena del film in cui Rosa partecipa ad una gara di corsa e tutti i suoi conoscenti e familiari la incitano a correre per arrivare prima: lei li guarda smarrita e, arrivata al traguardo, non si ferma, continua a correre per le campagne e oltre, fino al mare. In quel momento Rosa si sveglia, rendendosi conto che era tutto un sogno ma non certo casuale, rispecchiando invece la sua situazione, braccata da impegni e persone che cercano il suo appoggio in ogni incombenza quotidiana.

Ci sono molte Rosa tra noi, nella nostra routine quotidiana e ognuna di noi ha dentro una parte di Rosa. Conoscere ciò che vogliamo veramente e non rinunciarci mai, è uno dei compiti più difficili che tutti affrontiamo nella nostra vita, e che spesso non riusciamo a realizzare.

Ma Rosa si impegna a lottare per questo e raggiungere un punto di vista comune tra i sogni di Rosa e il resto della famiglia diventerà una grande sfida, anche quando si tratta di organizzare il proprio matrimonio. Credo che ‘Il matrimonio di Rosa’ sia una storia di persone vere, che rappresenta le relazioni tra di loro e con ciò che le circonda, cercando di dare voce ai pensieri interiori sulle cose della vita di tutti i giorni, che riguardano tutti noi, con umorismo ed emotività.

Camille Claudel: la sua storia, le sue opere.

Questa foto colorata ci restituisce lo sguardo triste di una donna manipolata, maltrattata dai suoi cari…”Una fronte superba e occhi magnifici, di un blu così profondo e così raro che si può trovare soltanto nei romanzi” Così scriveva Paul Claudel, il celebre poeta e diplomatico, a proposito della sorella.

Camille Claudel

Il 26 marzo 2017 venne inaugurato il Museo dedicato a Camille Claudel a Nogent-sur-Seine, l’unico museo al mondo che racconta la storia e l’evoluzione artistica di questa geniale ed appassionata scultrice, un mestiere difficile per l’epoca se eri una donna.

Difficile separare la storia di Camille da quella di Auguste Rodin, suo maestro e amante. Ancora più difficile è far comprendere al pubblico che lei non era solo la sua musa e modella ma era proprio un’allieva, da lui apprese la dura arte dello scolpire e con lui, Camille maturò un suo stile proprio che la distinse dal maestro.

Foto della famiglia Claudel – Camille al centro

Molte delle sue opere sono conservate in alcune sale del Musée Rodin, a sorta di tributo per la sua allieva più nota. Questa soluzione museale mi ricorda molto la storia della donna che nacque dalla costola di Adamo, un po’ come se Camille fosse una costola di Rodin e visti i loro trascorsi prima amorosi poi morbosi, forse la soluzione adottata dal Musée Rodin non sarebbe piaciuta a Camille.

Camille Claudel & Jessie Lipscomb, colleghe e amiche

Ma conosciamo di più questa artista…. Chi era Camille Claudel?

Nata a Villeneuve-sur-Frère l’8 dicembre 1864, Camille voleva diventare scultrice già dall’età di 12 anni e la sua passione convinse il padre a farla studiare a Parigi presso l’Acadèmie Colossi con lo scultore Boucher. Fu lì che incontrò Rodin, il suo maestro Boucher infatti, vinse un soggiorno premio in Italia e si fece sostituire da Rodin, raccomandando in particolar modo Camille.

I due si intesero fin da subito, Camille andò a vivere con lui nel suo atelier, posò per lui e lavorò insieme a lui a commissioni importanti come le Portes de l’Enfer.

Tra i due sfocia l’amore ma ricordiamoci che Rodin aveva un’altra donna, Rose Beuret, la compagna che non abbandonò mai e anche un figlio di due anni più giovane di Camille.
Camille è l’amante di un artista famoso e più vecchio di lei, i critici si interessano alla cosa e i riflettori si accendono sulle sue opere. Ciò da un lato è positivo, ottenne visibilità ma dall’altro, Camille frequentò i colleghi e amici di Rodin senza invece conoscere gli artisti suoi coetanei.

La relazione tra Camille e Rodin va avanti, viaggiano molto ma i primi segnali di rottura si iniziano ad intravedere intorno al 1892. Rodin non accenna a voler lasciare la sua compagna e Camille non accetta di essere l’amante. In questo intreccio tumultuoso si inserisce la relazione con il noto musicista Debussy. Non si sa bene se lo amasse realmente o se era solo per far ingelosire Rodin, ciò che è vero è che Camille stregò Debussy.

«Ah! L’amavo veramente, e in più con un ardore triste poiché sentivo, da segni evidenti, che mai lei avrebbe fatto certi passi che impegnano tutta un’anima e che sempre si manteneva inviolabile a ogni sondaggio sulla solidità del suo cuore! (….) Malgrado tutto, piango sulla scomparsa del Sogno di questo Sogno»

La Valse (The Waltzers): di Camille Claudel

In questo periodo abbiamo una delle sculture più famose di Camille: La Valse. Opera realizzata in più versioni, La Valse a mio avviso rappresenta la passione fatta scultura, una fusione tra staticità del materiale e movimento, due figure, un uomo e una donna abbracciati che danzano, un’opera di grande espressione.

Il Novecento si apre con molte opere importanti di Camille ma la brusca rottura con Rodin inizia a gettare la donna in uno stato di disperazione da cui non si riprenderà. Vive da sola, ha meno successo del suo mentore e questo le provoca una costante frustrazione. La mente vacilla, Camille è convinta che Rodin la spii tramite i suoi assistenti per rubarle le idee. 

L’ossessione è sempre più grande e viene allontanata dalla famiglia, è il 10 marzo 1913 quando viene ricoverata in un istituto di cura mentale e li resterà fino alla morte il 19 ottobre 1943. In quel periodo di permanenza, scrisse molte lettere ed appelli per tornare a casa, soprattutto scrisse alla madre, la donna artefice del suo internamento in manicomio.

Camille Claudel (1864-1943)
L’Età matura
1902 circa – L’age mûr
Gruppo in bronzo composto da tre elementi

È doloroso sapere che i suoi ultimi anni siano stati nella sofferenza, lei che aveva così voglia di vivere, si trovò come un uccellino in gabbia, desideroso di volare, ma costretto solo a guardare il cielo tra le sbarre.

L’opera più coinvolgente, a mio avviso, è L’age mûr (1899 – 1913) il complesso scultoreo presenta tre figure a simboleggiare la vecchiaia, l’età di mezzo e la giovinezza, una composizione che dà movimento in contrasto con la plasticità delle figure.

In questa rappresentazione, la giovane donna sembra rappresentare Camille, inginocchiata ed implorante dopo il distacco con Rodin, riconosciuto nella figura in mezzo, portato via da una donna più anziana, una riflessione sulla condizione della vita e sulla vita stessa di Camille, un’opera estremamente evocativa.

“Berthe Morisot. Le luci, gli abissi” di Adriana Assini.

Parigi 1868, Berthe Morisot posa per Édouard Manet, l’artista più discusso e affascinante del momento .

Sono gli anni in cui la modernità entra prepotentemente nei caffè e nei salotti parigini, sono gli anni della prima corsa ciclistica nel parco di Saint-Cloud e del brevetto per la fotografia a colori di Ducos du Hauron.

Sulla scia di questo fermento socioculturale un gruppo di pittori lancia una sfida al conservatorismo delle accademie. I loro nomi sono Renoir, Degas, Monet, Manet, Cézanne solo per citare i più famosi; passeranno alla storia con il nome di Impressionisti.

Berthe Morisot, terzogenita di un funzionario della Corte dei conti, desidera fare della pittura la sua professionetraguardo quasi impossibile in un mondo dove l’arte è esclusivo appannaggio maschile. Nulla riesce però a distrarre Berthe dalle sue tele e dai suoi pennelli eccetto il misterioso e seducente Édouard Manet.

Bijou, come viene chiamata in famiglia, non esita ad accantonare i suoi strumenti per posare per il pittore che ha conquistato la sua anima e il suo cuore fin dal loro primo incontro. Tutto accade sotto lo sguardo vigile e attento della madre di lei Marie-Cornélie che disapprova questa infatuazione della figlia e la vorrebbe quanto prima accasata come si converrebbe ad una donna del suo ceto.

Adriana Assini è maestra assoluta nel saper ricreare le atmosfere dei periodi storici nei quali si muovono i suoi personaggi; i suoi sono romanzi corali e questo lo è forse anche più degli altri. Ad affiancare la protagonista Berthe Morisot non c’è solo Manet ma tutti coloro che fecero parte del loro circolo; una confraternita che non si componeva di soli pittori ma anche di scrittori del calibro di Émile Zola o di poeti quali Stéphane Mallarmé.

Adriana Assini ci presenta Berthe Morisot come una donna forte e volitiva che non arretra di fronte a nulla pur di ottenere quei riconoscimenti che sa di meritare e che vuole ottenere senza dover rinunciare al suo essere donna. La Morisot, infatti, non acconsentì mai a cambiare il proprio nome con un nome maschile né ad abbigliarsi con abiti da uomo per ottenere quanto le spettava di diritto per i suoi meriti. Pagina dopo pagina prende vita davanti ai nostri occhi una galleria di personaggi vividi e reali con le loro manie e le loro peculiarità caratteriali: la passione di Manet per gli abiti sartoriali di alta moda, i modi scostanti di Degas, la meticolosità di Monet e così via.

Berthe Morisot, Eugène Manet sull’isola di Wight, 1875

La vita artistica, e non solo, di Berthe Morisot  fu profondamente segnata dal suo rapporto con il carismatico Édouard Manet, uomo sposato e seduttore impenitente. Fu infatti un amore totalizzante e platonico quello che legò la Morisot al pittore anche dopo la morte di questi. Se Manet fu per lei amico e maestro, lei per lui fu la sua musa nonché l’unica donna in grado di comprenderlo davvero e sapergli tenere testa, lei così selvaggia eppure allo stesso tempo così per bene. 

Berthe Morisot era una perfezionista, mai veramente soddisfatta dei risultati raggiunti anche nella vita privata. Eppure, dalle sue opere traspariva tutt’altro. Le sue tele erano luminose ed eternavano a volte scene di intimità familiare; esprimevano quella luce e quella pace interiore alle quali la pittrice tanto aveva aspirato, ma che mai riuscì davvero a raggiungere. Al termine del romanzo, però, il lettore non può che immaginarla in pace accanto al suo Édouard, finalmente insieme e uniti per l’eternità.

Adriana Assini è riuscita a rendere in modo eccellente le luci e gli abissi, per citare il titolo stesso del romanzo, propri dell’animo di quell’affascinante artista tanto caparbia e umbratile da essere, a torto, spesso accusata di freddezza e anaffettività.

Un viaggio malinconico e inquieto attraverso i sentimenti e le profondità dell’animo umano quello in cui ci conduce Adriana Assini in questo suo ultimo romanzo, ricco di citazioni che spaziano dal pensiero di Eraclito ai versi di Shakespeare; un viaggio rischiarato però dai vivaci colori dei lussureggianti giardini, dalle sfumature azzurre dell’oceano e dagli infiniti tentativi di Monet di riuscire a fermare sulla tela i riverberi della luce.

Adriana Assini

Adriana Assini vive e lavora a Roma. Sulla scia di passioni perdute, gesta dimenticate, vite fuori dal comune, guarda al passato per capire meglio il presente e con quel che vede ci costruisce un romanzo, una piccola finestra aperta sul mondo di ieri. Dipinge. Soltanto acquarelli. E anche quando scrive si ha l’impressione che dalla sua penna, oltre alle parole, escano le ocre rosse, gli azzurri oltremare, i luccicanti vermigli in cui intinge i suoi pennelli. Ha pubblicato diversi libri, tutti a sfondo storico, tra cui, i romanzi  Giuliano e Lorenzo. La primavera dei Medici (2019), La spada e il rosario. Gian Luca Squarcialupo e la congiura dei Beati Paoli (2019), Agnese, una Visconti, Giulia Tofana. Gli amori, i veleni (2017), Un caffè con Robespierre (2016), La Riva verde (2014) e Le rose di Cordova che dalla sua prima edizione del 2007 ha visto la fortuna di due edizioni successive e tre ristampe.

“Viva la vida” di Frida Kahlo, inno all’amore e alla gioia per la vita.

“Viva la vida” di Frida Kahlo viene realizzato otto giorni prima di morire, il 13 luglio del 1954, a 47 anni in Città del Messico. L’ultimo saluto gioioso di una persona che nella vita ha conosciuto molto presto la malattia e la sofferenza fisica.

Ha appena sei anni quando si ammala di poliomielite, guarisce, ma la gamba destra resterà meno sviluppata e rimarrà claudicante. A 18 anni un terribile incidente tra l’autobus e un tram quasi la uccide. Sarà costretta a indossare busti ortopedici e a sottoporsi ad una trentina di interventi chirurgici. La pittura rimarrà per lei l’unica consolazione e valvola di sfogo, ma anche forte dichiarazione di amore per la vita e resistenza. Dipinge essenzialmente autoritratti dolenti, contribuendo al filone autobiografico in arte.

“Viva la vida” è una natura morta che rappresenta angurie succose, rosse e appetitose. Un grido di colore, il desiderio infinito di gioia di vivere. È un estremo omaggio alla vita. I cocomeri si stagliano verdi e rossi su un cielo azzurro. Sulla polpa succosa e sensuale delle fette è scritto “Viva la Vida – Coyoacán 1954 Mexico”. Le angurie del dipinto vengono rese in tutta la loro fecondità e pienezza, come ricca è stata percepita la vita dall’artista nonostante tutto. Queste le ultime parole che Frida scrive nel suo diario. Un testamento commovente ed energico.

«Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più»

Frida ha vissuto intensamente attraversando, anzi, tuffandosi nelle gioie dell’amore e nell’impegno politico. Donna emancipata e indipendente, passionale e sanguigna che non pose mai limiti alla sua coraggiosa indole. “Viva la vida” è il suo lascito, il messaggio ultimo per se stessa e per chi ancora vive:  la vita malgrado tutto merita di essere vissuta.

La simbologia dell’anguria e l’omaggio dei Coldplay

L’anguria è per eccellenza il frutto dell’estate, fresco e dissetante, simbolo di passione e amore. Rappresenta anche l’intelletto, il lavoro e il benessere. Nelle credenze egizie torna questo frutto come simbolo. Si riteneva provenisse dal seme del dio Seth, divinità del deserto e della siccità, della bufera e dei morti. Proprio per questo veniva spesso posto nelle tombe come forma di nutrimento per l’aldilà, a rimpolpare una vita metafisica altrimenti destinata alla desolazione.

“Viva la vida” di Frida Kahlo è stata fonte di ispirazione per molti artisti, tra cui in musica i Coldplay. Era il 2007 quando Chris Martin in tour con i Coldplay giunse a Città del Messico. Tra un’esibizione e l’altra ebbe modo di visitare la Casa Azul, il museo ufficiale di Frida Kahlo.

Fu così che il frontman del gruppo britannico scoprì questo dipinto. Chris si segnò subito il titolo e rese omaggio all’opera intitolando così il suo album e il singolo principale. 

Viva la vida” dei Coldplay è uno dei brani pop barocco/pop rock più amati del nuovo millennio, un testo ricco di riferimenti biblici, artistici e letterari, sopra una strumentazione e un arrangiamento altrettanto ricercati.