Autore: Paola

Bertha von Suttner, l’ispiratrice del Nobel per la pace.

Bertha von
Bertha von Suttner

Bertha von Suttner non solo fu la prima donna a essere insignita, nel 1905, del premio Nobel per la pace, ma ne fu anche l’ispiratrice.

Il suo operato nel campo del pacifismo non passò, infatti, inosservato all’amico e collaboratore Alfred Nobel, che la prese come punto di riferimento per la nascita di quel riconoscimento così prestigioso.

Nel 1885 la venticinquenne baronessa boema Bertha von Wchinitz sposa, contro il volere della famiglia, l’ingegnere von Suttner e decide di lasciare la propria patria che percepiva così duramente conservatrice.

Nel 1887 viene pubblicato il suo capolavoro “Giù le armi!” tradotto in oltre 20 lingue e divenuto uno dei libri più letti del XIX secolo. Il frutto più maturo di riflessioni e studi lunghi anni, di contatti epistolari con gli esponenti del pacifismo occidentale e di esperienze vissute durante la lontananza da casa.

Da qui in avanti l’attività di Bertha si intensifica sensibilmente: nel 1891 fonda la Società pacifista austriaca e nel 1899 consegna al mondo il suo attualissimo “L’era delle macchine” in cui, a discapito di un’Europa pienamente inserita nel clima positivista, denuncia la spinta sempre più violenta dei nazionalismi e la preoccupante corsa agli armamenti. E sarà lei, per prima, a istituire un sodalizio tra femminismo e pacifismo: le donne sarebbero più propense alle tematiche antimilitariste.

Dopo il Nobel Suttner assiste impotente al tracollo della situazione politica. Il precario equilibrio su cui si basava la pace europea si stava dissolvendo sotto il peso di quei pericoli che lei stessa aveva denunciato.

Nel 1912 esce la sua ultima opera, “L’imbarbarimento dell’aria”, nel quale auspica la creazione di un’unione degli stati europei, unico vero scudo contro la catastrofe dei conflitti armati.  

Bertha muore il 21 giugno 1914 e non vedrà consumarsi il dramma della Prima guerra mondiale. Un conflitto che aveva previsto e per il quale aveva fornito quelle soluzioni adottate solo decenni e milioni di vittime dopo.

“La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore tra le sciagure”.
Bertha Von Suttner

Fonte: iStorica

“Nessuna Parola” di Margherita Guidacci

JAMES TISSOT, “ASPETTANDO IL TRAGHETTO”

Poiché non mi veniva nessuna parola 
(la parola era «addio», ma non riuscivo a dirla) 
ti ho dato il mio silenzio 
ed ho ascoltato il tuo, 

e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza 
e ancora gioia, mentre accettavamo, 
come la terra, un nostro tempo di neve,  
bianco grembo d’attesa delle future estati.

(da Inno alla gioia, Centro Internazionale del Libro, 1983)

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Durante la guerra, Margherita Guidacci conobbe un giovane soldato proveniente dal Cile, in cerca di qualcuno che potesse tradurre in italiano versi di Gabriela Mistral. Il reciproco amore fu stroncato prima dalla guerra – Francisco conobbe addirittura gli orrori del fronte russo – e poi dal ritorno in patria di lui nel primo dopoguerra. 

Spesso i versi della Guidacci sono espressione di abbandono, di rinuncia: lo sono ancora di più come in questo caso in cui racconta l’addio. Eppure, dopo tante traversie, Francisco ritroverà Margherita, in seguito a una lunga e fortunosa ricerca, molti anni dopo.

Margherita Guidacci (Firenze, 25 aprile 1921 – Roma, 19 giugno 1992), poetessa e traduttrice italiana.

Dopo la crisi del suo matrimonio, negli Anni’60, superò un decennio di grave sofferenza psichica che culminò nel ricovero in una clinica neurologica.

Tra i poeti da lei tradotti John Donne, Emily Dickinson, T.S. Eliot ed Elizabeth Bishop.

Saman nel cuore e nella lotta.

Saman in due momenti emblematici.

Saman arriva in Italia dal Pakistan nel 2015 all’età di 13 anni, a seguito di un ricongiungimento familiare richiesto da suo padre, Shabbar Abbas, che lavora in un’azienda agricola a Novellara.
E’ una ragazza sveglia, capace di apprendere in pochi mesi la lingua italiana tanto che riesce a superare subito l’esame di licenza media.
Vorrebbe fare il medico, ma la famiglia non intende farle proseguire gli studi.

Agli inizi del 2020, Abbas conosce tramite il social TikTok quello che poi sarebbe diventato il suo fidanzato, Saqib Ayub un ragazzo pachistano di 21 anni nato e cresciuto in Italia. Presto però la famiglia la costringe a fidanzarsi con suo cugino, residente in Pakistan, destinandola quindi a un matrimonio forzato.

Saman, ancora minorenne, si oppone: dapprima fugge in Belgio e, una volta rientrata in Italia denuncia i suoi genitori per il reato di costrizione al matrimonio. Chiede aiuto ai servizi sociali che, nel mese di novembre 2020, la trasferiscono in una struttura protetta nel Bolognese dove vi rimarrà per circa 5 mesi, fino all’11 aprile 2021, giorno in cui, ormai maggiorenne, decide di tornare a casa per recuperare i suoi documenti per potersi sposare con il fidanzato e cambiare finalmente vita.
La famiglia si rifiuta di consegnarle i documenti e per questo motivo Saman sporge un’altra denuncia verso i parenti il 22 aprile 2021, ultima volta in cui viene vista pubblicamente, prima di sparire il 1º maggio.
Il suo cadavere verrà ritrovato più di un anno dopo, il 19 novembre 2022 nelle terre dove lavorano come operai agricoli i suoi familiari. Gli stessi che l’hanno uccisa. L’esame autoptico rivelerà una frattura al collo, che avvalorerebbe la tesi dello strangolamento.

La storia di Saman è una storia antica ben radicata nel presente. È quella del 𝗺𝗮𝘁𝗿𝗶𝗺𝗼𝗻𝗶𝗼 𝗳𝗼𝗿𝘇𝗮𝘁𝗼 che secondo 𝙏𝙧𝙖𝙢𝙖 𝙙𝙞 𝙏𝙚𝙧𝙧𝙖, l’Associazione Interculturale di donne che sarà parte civile nel processo per il femminicidio di Saman Abbas, è “𝙡𝙤 𝙨𝙩𝙧𝙪𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙪𝙡𝙩𝙞𝙢𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙖𝙡𝙘𝙪𝙣𝙚 𝙛𝙖𝙢𝙞𝙜𝙡𝙞𝙚 𝙪𝙩𝙞𝙡𝙞𝙯𝙯𝙖𝙣𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤𝙡𝙡𝙖𝙧𝙚 𝙡𝙚 𝙥𝙧𝙤𝙥𝙧𝙞𝙚 𝙛𝙞𝙜𝙡𝙞𝙚, 𝙧𝙚𝙙𝙖𝙧𝙜𝙪𝙞𝙧𝙡𝙚 𝙙𝙖 𝙖𝙩𝙩𝙚𝙜𝙜𝙞𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙞 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙞𝙙𝙚𝙧𝙖𝙩𝙞 𝙩𝙧𝙤𝙥𝙥𝙤 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙩𝙖𝙧𝙞, 𝙘𝙪𝙨𝙩𝙤𝙙𝙞𝙧𝙚 “𝙡’𝙤𝙣𝙤𝙧𝙚” 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙛𝙖𝙢𝙞𝙜𝙡𝙞𝙖 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙖 𝙤 𝙘𝙤𝙨𝙩𝙧𝙪𝙞𝙧𝙚 𝙣𝙪𝙤𝙫𝙚 𝙖𝙡𝙡𝙚𝙖𝙣𝙯𝙚 𝙛𝙖𝙢𝙞𝙡𝙞𝙖𝙧𝙞 𝙚𝙙 𝙚𝙘𝙤𝙣𝙤𝙢𝙞𝙘𝙝𝙚 𝙖𝙩𝙩𝙧𝙖𝙫𝙚𝙧𝙨𝙤 𝙡𝙤 𝙨𝙘𝙖𝙢𝙗𝙞𝙤 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙚 𝙛𝙞𝙜𝙡𝙞𝙚”.
Secondo le stime di Human Rights Watch, ogni anno nel mondo sono 𝟲𝟬 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗶 𝗺𝗮𝘁𝗿𝗶𝗺𝗼𝗻𝗶 𝗳𝗼𝗿𝘇𝗮𝘁𝗶. 𝟲𝟬 𝙢𝙞𝙡𝙞𝙤𝙣𝙞. E sono 146 i Paesi nei quali è legale sposarsi al di sotto dei 18 anni.
Nell’ottica patriarcale la donna non ha alcun diritto di autodeterminazione e non può esprimere alcuna opinione. É il capofamiglia a prendere tutte le decisioni.

Il patriarcato in certi contesti si regge sull’attiva collaborazione delle donne ed è pericoloso proprio perché non viene riconosciuto come violenza. Secondo la fondatrice di Trama di Terre Tiziana del Pra le madri sono spesso “vittime dell’accerchiamento familiare” e riproducono lo schema già vissuto.
Saman Abbas voleva integrarsi, come spesso vogliono le seconde generazioni di immigrati. Voleva andare a scuola, sposarsi liberamente, vivere senza paura nel nostro Paese, ma qualcosa non ha funzionato. Di quante altre Saman Abbas siamo inconsapevoli?

In questa triste narrativa Martina Castigliani autrice del libro ‘𝙇𝙞𝙗𝙚𝙧𝙚. 𝙄𝙡 𝙣𝙤𝙨𝙩𝙧𝙤 𝙣𝙤 𝙖𝙞 𝙢𝙖𝙩𝙧𝙞𝙢𝙤𝙣𝙞 𝙛𝙤𝙧𝙯𝙖𝙩𝙞’, riferendosi al nostro sistema di integrazione sostiene che “É necessario lavorare sulla prevenzione al più presto: abbiamo una legge contro i matrimoni forzati, ma non abbiamo campagne nazionali per prevenirli o per dire che chi vuole può avere un’alternativa. Manca un osservatorio che raccolga i dati: sappiamo chi denuncia e basta e sono numeri sottostimati. Non basta dire che è reato, quello è stato solo il primo passo”.

Di Saman sono emblematici due scatti, uno con il velo tipico musulmano, gli occhiali, un sorriso tirato, l’altro in cui è sorridente e sfoggia piercing alle orecchie e al naso. Due persone diverse.

Chi è la vera Saman e quale delle due volesse essere nella vita vi sono pochi dubbi.

Fonte: Qui non si arrende nessuno.

La storia di Lou Salomè e l’erotismo delle donne mai indagato

Lou Salomé a Freud: “Caro professore… la ringrazio con tutto il cuore di avermi trascinata in questa follia; immorale qual sono, traggo sempre il più gran piacere dai miei peccati”.
Freud a Lou Salomé: “È assolutamente evidente che Lei mi anticipa e mi completa ogni volta”.

Lou Andreas Salomè nata a Pietroburgo in Russia nel 1861, morta a Vienna nel 1931, esule profuga, “heimatlos” come la si definisce, ossia una senza casa, senza patria. Una “straniera” che dà all’esperienza del viaggio un significato rivoluzionario, un’esperienza di rottura.

Essere senza terra, ma percorrere le strade nella notte, per una donna, diventa un modo di vivere che fa sovvertire i dogmi anche della tradizione del pensiero filosofico e psicoanalitico.

Lou conobbe Freud nel 1911 dopo aver preso parte al Congresso della Società psicanalitica di Vienna.
Al termine degli studi divenne lei stessa psicoterapeuta. Donna intellettuale libera, irrequieta e anticonformista, l’innovazione della sua riflessione filosofica si trova nell’aver messo al centro l’eros, l’erotismo delle donne mai indagato, nell’aver dato “valore” alla materia erotica, alla sensualità sempre vista dalla tradizione storica e religiosa come il “male assoluto”.

Una sessualità femminile non subordinata al desiderio maschile ma libera, una sessualità eretica è sempre stata considerata immorale, pericolosa per l’uomo, perché divora e distrugge ciò che è stato fatto seguendo i soli canoni maschili.

I titoli delle sue opere ne sono la testimonianza: “La materia erotica”, “Scritti di psicoanalisi”, “Riflessioni sull’amore”, “Il mito di una donna”, “Eros e conoscenza”, “La rivolta dell’eros”, “Devota ed infedele”, e molti altri ancora. E poi c’è il carteggio con Freud di cui fu allieva libera, appassionata e indipendente rispetto alle idee del padre della psicoanalisi.

Peccato che questa grande teorica e innovatrice dalla cultura profonda, sia conosciuta molto spesso solo come una donna dalla bellezza magnetica, ispiratrice del filosofo Nietzsche e per la tormentata relazione con il poeta e scrittore Rainer Maria Rilke.

Ci vuole coraggio a tremare…

Chandra Livia Candiani

“Non voglio imparare a non aver paura,
voglio imparare a tremare.
Non voglio imparare a tacere,
voglio assaporare il silenzio da cui
ogni parola vera nasce. Non voglio
imparare a non arrabbiarmi, voglio
sentire il fuoco, circondarlo di
trasparenza che illumini quello che
gli altri mi stanno facendo e quello
che posso fare io. Non voglio accettare,
voglio accogliere e rispondere.
Non voglio essere buona, voglio
essere sveglia. Non voglio fare male,
voglio dire: mi stai facendo male, smettila.
Non voglio diventare migliore, voglio
sorridere al mio peggio. Non voglio essere un’altra, voglio adottarmi tutta intera. Non
voglio pacificare tutto, voglio esplorare
la realtà anche quando fa male, voglio
la verità di me. Non voglio insegnare,
voglio accompagnare. Non è che voglio così, è che non posso fare altro”.
[Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva” – Einaudi 2018]

Chandra Livia Candiani (Milano 1952) è poetessa e traduttrice di testi buddisti, tiene corsi di meditazione e conduce seminari di poesia nelle scuole elementari, nelle case alloggio per malati e per i senza tetto.

Il silenzio è cosa viva“, da cui é tratta la poesia è un bellissimo libricino in cui la poetessa Candiani ci conduce verso il silenzio per scoprire che, guarda caso, è proprio lì che scorre la vita.

Ho letto queste pagine in cui ho riscoperto la pace e la voglia di ascoltare il silenzio, soprattutto di questi tempi e in un mondo di schiamazzi e troppe parole, perché serba un pezzo di noi.

Rosa la Rossa.

“Per un mondo dove saremo socialmente uguali, umanamente differenti e totalmente liberi”.

Rosa Luxemburg

Rosa Luxemburg (5 marzo 1871, Polonia -15 gennaio 1919, Berlino.

“L’emancipazione politica delle donne dovrebbe far scoppiare una forte ondata di vento fresco sia nella vita politica sia in quella spirituale (della socialdemocrazia) che eliminerà il puzzo della ipocrita vita famigliare che, in modo inequivocabile, pregna tutti i membri del nostro partito siano essi lavoratori o dirigenti”.
(Rosa Luxemburg)

Ebrea polacca, comunista dalla dottrina eretica, economista, antimilitarista radicale, rivoluzionaria dal pensiero antidogmatico. Pur essendo molto amica di Clara Zetkin (fervente femminista), non assunse mai un ruolo rilevante nel movimento delle donne forse perchè non voleva essere “confinata” ad occuparsi solo della “questione femminile” lasciando agli uomini il ruolo di teorici del marxismo.

Si oppose alla guerra non per una “strategia politica”, ma per la consapevolezza che il conflitto sarebbe stato un massacro che avrebbe portato alla morte proletari e proletarie di vari paesi, convinta che qualsiasi esito ci fosse stato, l’unica certezza sarebbe stata la sconfitta per il movimento operaio e il rafforzamento del capitalismo. Per i suoi discorsi contro la guerra fu accusata di incitare le masse alla disobbedienza civile e le furono inflitti anni di carcere.

Durante questo periodo scrisse diversi articoli uno di questi contenenti la nota espressione socialismo o barbarie. Il “socialismo” per lei rappresentava uno mezzo di ricerca, che si sviluppa in un “rivoluzionamento”, in un percorso in divenire sia culturale che esistenziale e rivoluzionario perchè portatore di modificazione e trasformazione dell’ordine esistente contro ogni tipo di sfruttamento e oppressione delle masse operaie.

Fu uccisa da un’organizzazione paramilitare ultranazionalista, prussiani militaristi (se ne servì anche Hitler) per voler dei socialdemocratici durante i moti insurrezionali.

Avrebbe potuto sottrarsi alla morte fuggendo, ma non volle dividere il suo destino da quello del popolo a cui si sentiva legata.
Dopo la sua morte fu messa in una nicchia, un’icona, ricordata solo come rappresentante di una politica fallimentare, ricordata più per i suoi scritti privati che come rivoluzionaria e fine economista

“Come lei sa, spero di morire sulle barricate: in una battaglia di strada o in carcere”, scrisse in una nota lettera “Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai compagni”.

Oggi nasce Maria Bakunin, per molti Mariussia.

La chiamavano “la Signora”, ma per gli amici era solo Marussia. Maria Bakunin visse una densa e lunga esistenza contribuendo ai progressi della chimica moderna e dell’emancipazione
femminile.

Era nata in Siberia il 2 febbraio 1873, terzogenita di Michail Bakunin, filosofo e agitatore del socialismo. Dall’età di tre anni visse a Napoli, dove la madre si era trasferita dopo la morte del marito che aveva sempre pensato fosse la città dove meglio si sarebbero potuti realizzare i suoi ideali rivoluzionari.

In età giovanile, Maria lavorò come “preparatore” nei laboratori dell’Università di Napoli ottenendo nel 1895 la laurea in chimica con una tesi sulla stereochimica, disciplina che studia le proprietà dei composti in relazione alla disposizione nello spazio degli atomi che costituiscono le molecole.

Presso la medesima università vinse la cattedra di chimica. Dal 1909 insegnò chimica applicata e chimica tecnologica organica presso la Scuola politecnica e dal 1940 chimica organica presso la Facoltà di scienze.

Ribattezzata “la Signora” da colleghi e studenti, diventò un punto di riferimento per il mondo scientifico, accademico e intellettuale partenopeo. Contribuì in modo significativo al progresso scientifico del nostro Paese, elaborando un metodo originale per ottenere una particolare reazione chimica – la ciclizzazione – che utilizza l’anidride fosforica.

Si dedicò alla definizione della mappa geologica d’Italia, studiando in particolare le rocce metamorfiche che caratterizzano le montagne dei Picentini nell’area salernitana, da cui è possibile estrarre un olio dalle proprietà curative, l’ittiolo.

Maria è stata una donna libera e intellettualmente indipendente. Nel 1938, quando il nipote Renato Caccioppoli – giovane matematico, figlio della sorella Sofia – fu arrestato per propaganda antifascista, riuscì a salvarlo dal carcere facendo credere che fosse incapace di intendere e di volere.

Il 12 settembre 1943, durante l’incendio dell’Università di Napoli da parte dei soldati tedeschi, si sedette sui gradini della biblioteca e rimase immobile finché le truppe si ritirarono. “Coraggiosa fino all’audacia”, così l’ha definita uno dei suoi allievi.

Per le sua alte qualità scientifiche e morali, Benedetto Croce la nominò Presidente dell’Accademia Pontaniana e, nel 1947, lo stesso anno in cui viene ammesso Renato Caccioppoli, Marussia fu ammessa anche all’Accademia dei Lincei, prima donna a entrare a far parte di questa istituzione nella classe delle scienze fisiche, matematiche e naturali.

Lasciò l’incarico di docente nel 1948, all’età di 75 anni. L’anno successivo il Consiglio di Facoltà le conferì il titolo di professoressa emerita.

Continuò a frequentare l’Istituto di Chimica fin quasi all’ultimo giorno di vita.

Morì a Napoli il 17 aprile 1960.

Charlotte Salomon e “la memoria corta”.

Charlotte Salomon è una giovane artista ebrea berlinese, nata il 16 aprile del 1917 a Berlino e uccisa a soli 26 anni ad Auschwitz dove morì il 10 ottobre del 1943, lo stesso giorno del suo arrivo, incinta del suo bambino.

La sua opera “Vita? o teatro?” è una raccolta di tavole tra le più originali e significative che testimoniano l’intreccio tra le difficoltà della sua esistenza e la lettura acuta e consapevole della tragedia che si sta compiendo negli anni della guerra e dell’ascesa del totalitarismo nazista.

L’opera è composta da circa 1350 immagini con cui l’autrice ripercorre la propria vita in uno stile che riprende non solo la pittura, il fumetto, il teatro, alle volte anche il cinema, la musica, ma soprattutto ciò che è “racconto”. “Creare qualcosa di veramente folle e singolare” è il suo intento e “Vita? o teatro?” ne è il risultato “vitale”.

Charlotte Salomon rielabora i suoi lutti segnati dai suicidi delle donne della sua famiglia, in primo luogo quello della madre, il rapporto difficile con la seconda moglie del padre, cantante lirica molto conosciuta ed apprezzata, che diventa per lei un importante modello di riferimento mitizzato spesso contrastato e invidiato. Ma il racconto della sua vita s’intreccia inesorabilmente con la storia e le trasformazioni sociali segnate dalla violenza e dalla brutalità dell’avanzata del nazismo sino alla tragica testimonianza sulla Shoah.

Le sue tavole dipinte sono il racconto della sua esistenza e dell’epoca oscura in cui è vissuta. Necessaria è stata per lei la narrazione, essenziale per noi deve essere non solo il ricordo che non abbia una “memoria corta”, ma la rivolta contro l’aggressione da parte di ideologie arroganti, violente, autoritarie, fasciste per contrastare ogni tipo di genocidio specie quelli che si consumano nei nostri mari, sotto i nostri occhi ormai ogni giorno.

“Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. (Hannah Arendt)

Il Canto di Calliope di Natalie Haynes.

Ho da poco terminato la lettura di questo libro e devo dire che ne sono rimasta entusiasta.

Un libro che intrattiene, scritto da una donna che ha chiaramente speso parecchio tempo ad analizzare molte fonti diverse per dare maggior spessore ai personaggi e che ci regala una versione della guerra di Troia al passo con i tempi ma non per questo meno appassionante o credibile.

Lo consiglio a tutti gli appassionati di mitologia greca.

Ma veniamo al libro e alla sua idea che è sicuramente adatta ai nostri tempi: prendere una seria nota a tutti e cambiarne il punto di vista. In questo caso si tratta della caduta di Troia, ma dal punto di vista delle donne. L’Iliade ha molti personaggi femminili, che però sono relegati a ruoli abbastanza secondari e per carità, non si può certo incolpare il povero Omero di non aver predetto di qualche millennio la parità dei sessi. Quello che possiamo fare però è ripensare questi personaggi, proprio come ha fatto l’autrice, Nathalie Haynes, nota classicista.

Si parla quindi di donne, la prima è Calliope, la musa della poesia invocata nell’incipit dell’Iliade, quella del “Narrami o diva”. Proprio lei prende la parola all’inizio, alla fine e ogni tanto tra un capitolo e l’altro: si rivolge direttamente al poeta e in toni anche abbastanza arguti e poco pazienti, già ci fa capire che il focus del libro non saranno le gesta di grandi uomini e che la guerra non è fatta solo di eroi.

I capitoli che seguono affrontano ognuno il punto di vista di una o più protagoniste: abbiamo il gruppo di troiane prigioniere, tra loro Ecabe, moglie di Priamo, Cassandra la ragazza sacerdotessa di Apollo con il dono della preveggenza e Andromaca, moglie di Ettore. Abbiamo poi le greche tra cui Penelope, moglie di Odisseo e Clitennestra, moglie di Agamennone e chiaramente Elena, moglie di Menelao ma fuggita con Paride. Oltre a queste abbiamo anche Pentesilea, regina delle Amazzoni e perfino le divinità tra cui le più famose Era, Afrodite e Atena.

In alcuni casi abbiamo un solo capitolo, come per Pentesilea, Temi o Eris, in altri casi invece ci sono diversi capitoli che aiutano l’arco narrativo ad avanzare, come per le troiane, Calliope oppure Penelope. L’inizio chiaramente parte con la caduta di Troia, a cui seguono il saccheggio e poi il ritorno a casa dei vari protagonisti. Numerosi sono i flashback ad eventi precedenti che ci aiutano a capire meglio l’intera faccenda.

Tra questi capitoli, quelli dedicati a Penelope sono molto interessanti: assumono il formato di lettere che lei scrive a suo marito Odisseo e in cui narra quello che a sua volta ha sentito raccontare dai poeti sulle sue peripezie. Nelle prime pagine il tono è comprensivo e pacato, sa che Odisseo è partito per Troia controvoglia e solo perché ha dovuto, man mano che gli anni passano dopo la fine della guerra però la comprensione si assottiglia. Penelope comincia ad infastidirsi e il tono delle lettere cambia drasticamente.

Altro capitolo notevole (almeno per me) è quello dedicato a Pentesilea, regina delle Amazzoni che decide di unirsi ai Troiani per sconfiggere i greci e quando arriva per la prima volta sul campo di battaglia lo descrive così: “Pentesilea si accorse che ormai i troiani erano un’accozzaglia di combattenti. Dov’erano gli eroi di cui aveva udito nel canto dei poeti? Ettore era morto certo, ma dov’erano Paride, Glauco, Enea? Si accigliò mentre passava in rassegna gli uomini, senza vederne nessuno che fosse alto o forte. I loro bicipiti erano meno possenti dei suoi. Dovevano pur esserci dei valorosi soldati tra loro, ma non erano i guerrieri che si era aspettata di trovare”.

Questo tema della demistificazione della guerra e dell’epicità ricorre in tutto il libro. La guerra la combattono gli uomini, ma le conseguenze colpiscono tutti e alla fine non sono gli uomini ad essere ridotti in schiavitù e dati in premio ai vincitori. Proprio gli uomini sono spesso rappresentati come vere e proprie macchiette, uno su tutti Agamennone, iracondo e subdolo, disprezzato dai suoi uomini e troppo arrogante per capirlo, oppure Achille, guerriero leggendario ma con una profondità di pensiero estremamente limitata, o anche Odisseo, sicuramente intelligente, ma rappresentato come viscido e molto egoista.

Molto interessanti sono anche i capitoli dedicati alle divinità, che spesso si rivelano più umane degli stessi esseri umani nelle loro passioni e sentimenti. Proprio loro sono la vera causa scatenante della decennale guerra.

Certamente l’approccio alla materia è sicuramente contemporaneo: del resto, quando si vuole ritrattare una storia come questa, un’altra chiave di lettura sarebbe impossibile. La dissonanza tra la materia prima e ciò che si vuole fare, però, fa’ sì che ci siano momenti in cui l’autrice vuole essere certa che i lettori stiano capendo il messaggio, peraltro perfettamente integrato nelle storie delle donne. In queste situazioni quindi fa parlare Calliope che esplicita per il lettore quello che sta succedendo.

Nonostante questo problema sia condiviso da altri romanzi che rientrano nel “genere” del retelling, questi libri sono sempre di più e hanno anche molto successo, per esempio Il canto di Calliope è stato candidato nel 2020 per il Women’s Prize for Fiction. I motivi di questo successo sono molteplici, ma uno è sicuramente il rinnovato interesse per la storia delle donne e l’attualità dei temi.

Se il movimento Me Too ci ha mostrato qualcosa è che, così come per condannare i nostri eroi del passato abbiamo avuto bisogno di molto tempo e di molte autrici che dessero voce a personaggi femminili rimasti nell’ombra, così oggi abbiamo bisogno di tempo e di un coro di voci perché emergano le testimonianze di chi è stato abusato e perché i colpevoli vengano affidati alla giustizia. Spesso serve che più donne si facciano avanti per condannare un uomo famoso, per esempio: anche se le donne hanno una voce, questa vale meno di quella di un uomo. Le cose, però, stanno cambiando e forse questo interesse nel ritrattare le storie del passato è una spia di questo cambiamento.

Qui la scheda di questo libro sperando di avervi fatto cosa gradita!

“La pergamena della seduzione”di Gioconda Belli, un romanzo tra storia e invenzione.

La pergamena della seduzione unisce sapientemente una precisa ricostruzione storica della vita di Giovanna la Pazza con una vicenda ambientata negli anni sessanta.

Lucia ha 17 anni, è orfana ed è stata mandata a Madrid a studiare in un collegio di monache. Conosce casualmente un professore quarantenne, appartenente a un’antica famiglia nobiliare. Questi è ossessionato dalla figura di Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, andata giovanissima in sposa a Filippo il Bello. Manuel convince Lucia a indossare antichi abiti, simili a quelli che indossava Giovanna e, raccontandole la vera storia di questa principessa, la fa entrare pian piano nella psicologia della stessa e le fa rivivere il suo passato. Quello che nasce quasi come gioco si rivela un percorso complicato, che coinvolge Lucia e ne stravolge la vita.

L’aspetto più interessante del romanzo è la revisione storica della vicenda di Giovanna, ingiustamente rimasta nei libri di storia come “la pazza”. In realtà, come molti storici hanno confermato, lei era una donna passionale, colta, indipendente, schiacciata dalle ambizioni del marito e da quelle del padre. Tradita da tutti, madre, padre, marito, figli, viene rinchiusa per quarantasei anni, sino alla morte, in una fortezza, senza alcun contatto con il mondo esterno.

Dice l’autrice “qualsiasi donna con la piena coscienza di sè, messa davanti agli arbitri e ai soprusi che ha dovuto affrontare, si sarebbe almeno depressa. E la depressione anche cronica non ha nulla a che fare con la schizofrenia“.

Mi ha avvinto la storia di questa donna, tanto da invogliarmi ad approfondire la sua vicenda umana. Meno riuscita e un po’ morbosa, invece, la relazione tra Lucia e Manuel. Molto abile la scrittrice nell’analizzare la psicologia femminile e gli aspetti dell’innamoramento.

Un romanzo avvincente, ben scritto.

Oltre al libro mi ha conquistato la vita dell’autrice.

Gioconda Belli è giornalista, poetessa e scrittrice. La sua vita è come un romanzo.

Nasce nel 1948 in Nicaragua, in una famiglia di origine italiana, emigrata in Sudamerica per lavorare alla costruzione del canale di Panama. Seconda di 5 figli, Gioconda vive in una famiglie benestante, per cui può studiare e perfezionarsi sia in Spagna che in America. Si diploma in giornalismo a Filadelfia. A 18 anni si sposa con una cerimonia sfarzosa, nasce la prima figlia, Maryam, e Gioconda si comporta come una disincantata signora borghese. 

L’incontro con un uomo che chiama “il Poeta”, di cui diviene l’amante, l’introduce nel movimento del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale: conduce una doppia vita, in apparenza tranquilla borghese, in sostanza rivoluzionaria. Nel 1970 pubblica una raccolta di poesie, in cui esprime le proprie tensioni interne. Ha un’altra figlia, Melissa, si separa dal marito e s’innamora di un dirigente sandinista, Marcos (Eduardo Contrera Escobar), impegnandosi attivamente nel movimento.

Nel 1975 affida le figlie ai genitori e fugge in Messico, per evitare l’arresto. Si stabilisce in Costa Rica dal 1976, per decisione di Marcos, per organizzare i rifugiati. Marcos viene ucciso e per Gioconda è un grande dolore, anche se lui l’aveva abbandonata per un’altra donna. Divorzia dal marito e si fa raggiungere dalle figlie. Sposa il brasiliano Sergio de Castro, da cui ha un figlio, Camillo. Intensifica il proprio impegno politico, viaggiando molto per perorare la causa sandinista. 

Tornata in patria, nel 1979, in seguito alla vittoria del fronte sandinista ottiene cariche all’interno del governo rivoluzionario. Quando potrebbe vivere tranquillamente, s’innamora pazzamente del comandante Modesto, uno dei membri della Direzione Nazionale, e rompe il matrimonio, iniziando una relazione complessa. Divergenze con il partito spingono Gioconda a dimettersi dalle cariche e prendere un periodo di ripensamento. 

Nel 1984 incontra il giornalista americano Charlie Castaldi, che sposa nel 1987. Inizia una seconda vita, tra America e Nicaragua, dedicandosi prevalentemente alla letteratura. Ha un’altra figlia, Adriana. La raccolta di poesie La costola di Eva ottiene successo internazionale, così come il primo romanzo La donna abitata, pubblicato nel 1989. Seguono: Sofia dei presagi, Waslala, Il paese sotto la pelle, La pergamena della seduzione L’infinito nel palmo della mano.

Due cose che non ho deciso io hanno determinato la mia vita: il paese in cui sono nata e il sesso col quale sono venuta al mondo […] Non sono stata ribelle fin da piccola. Al contrario. Niente faceva presagire ai miei genitori che la creatura ammodo, dolce e garbata, delle mie fotografie infantili si sarebbe trasformata nella donna rivoluzionaria che tolse loro il sonno. […] Sono stata due donne e ho vissuto due vite. Una delle due donne voleva far tutto secondo i canoni classici della femminilità: sposarsi, fare figli, nutrirli, essere docile e compiacente. L’altra aspirava ai privilegi maschili: sentirsi indipendente, essere considerata per se stessa, avere una vita pubblica, la possibilità di muoversi, amanti. Ho consumato gran parte della vita alla ricerca di un equilibrio tra queste due donne, per unirne le forze, per non essere dilaniata dalle loro battaglie a morsi e graffi. Penso di avere ottenuto, alla fine che entrambe le donne coesistessero sotto la stessa pelle. Senza rinunciare a sentirmi donna, credo di essere riuscita a essere anche uomo“. ( da, Il paese sotto la pelle)

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