Il coraggio di Timoclea attraverso il dipinto di Elisabetta Sirani.

Può una donna spingere in un pozzo un rude soldato? Sí, se risponde al nome di Timoclea.

A tal proposito la bravissima pittrice bolognese Elisabetta Sirani ci ha donato questo dipinto che riprende la vicenda.


Elisabetta Sirani, “Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno”(1659), Museo di Capodimonte, Napoli

Elisabetta Sirani (1638-1665) fu una bravissima pittrice nativa di Bologna. Ella si impose, artisticamente parlando, in un ambiente e in un campo che erano ritenuti una prerogativa maschile e lo fece grazie alla bellezza dei suoi dipinti che si avvalevano di una tecnica pittorica inconsueta per i tempi, frutto del suo immenso talento.

Purtroppo morì a soli 27 anni, probabilmente a causa di un’ulcera perforante o avvelenata per invidia, secondo voci che nei secoli non si sono mai spente. La Sirani ci ha lasciato questo straordinario dipinto che riprende la storia di Timoclea, una donna di grande coraggio, nella quale mi piace immaginare che la pittrice si sia in parte ritrovata.

Timoclea era una donna greca che decise di ribellarsi al suo stupratore, a rischio della propria vita. Nata a Tebe, era la sorella di Teagene, ultimo comandante di quel famoso Battaglione Sacro che per decenni aveva detenuto la supremazia sulla Grecia. Nel 335 a.C., durante la campagna di Alessandro Magno nei Balcani, la sua città venne conquistata. Il capo di una banda tracia (anche lui chiamato Alessandro) occupò la casa di Timoclea, si fece servire da mangiare e poi afferrò la donna, la portò in una delle stanze e la violentò.

Dopo che ebbe finito, si mise a interrogarla alla ricerca di ulteriori ricchezze. Prima la minacciò e poi le offrì di tenerla con sé e sposarla. Timoclea intravide nell’avidità dello stupratore l’occasione di vendicarsi della violenza subita. Condusse quella stessa notte il capo tracio a un pozzo, dove disse di aver nascosto i suoi beni.

Lui si sporse cercando avidamente di vedere il tesoro. Ma non c’era alcuna ricchezza ad attenderlo: Timoclea lo spinse facendolo precipitare sul fondo del pozzo. Poi iniziò a lanciargli addosso tutte le pietre che trovava finché non lo ebbe ucciso. I soldati della banda tracia la scoprirono e, avendo già ricevuto l’ordine di fermare le uccisioni, la portarono legata di fronte al loro generale Alessandro Magno. 

Qui, racconta Plutarco: «apparve, nell’aspetto e nell’incedere, ricolma di dignità e coraggio, mentre, senza turbamento né timore» diceva: «Mio fratello era Teagene, che cadde contro di voi a Cheronea per la libertà dei Greci, affinché noi non subissimo questa violenza; ma poiché ho subito questa indegnità, non mi rifiuto di morire: e infatti forse è meglio che io non sopporti, sopravvivendo, un’altra notte come questa». Alessandro ne restò ammirato e comandò di lasciarla libera.

Timoclea e i membri della famiglia del grande poeta Pindaro, però, furono tra i pochi a salvarsi dallo spaventoso saccheggio di Tebe.

Alessandro Magno decise di usare la città come esempio: diede alle fiamme i suoi edifici e vendette schiava tutta la popolazione. La resistenza della Grecia si spense per sempre.

* “De mulierum virtutibus” (Moralia), Plutarco, XXIV Timocleia.


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