
Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano, senza ascensore, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, piccole sculture sottili appese alle pareti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è la nostra maggior poeta vivente.
Possiamo darci del tu?
Certamente, risponde Patrizia.
Ho letto da qualche parte che… Non provi più amore. Ma da quanto?
Da anni.
E come si sta senza amore?
Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisista per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato.
Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti?
Boh.
Perché ti fai chiamare «poeta» e non «poetessa»?
Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro.
La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerti, ti disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice».
A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”.
“Con passi giapponesi” è un libro di prose. Com’è nato?
Non c’è stata una vera intenzione. La prosa fa parte di me, io ho sempre scritto molto, ho uno stanzino pieno di note e appunti. I testi qui raccolti sono brevi, almeno per la maggior parte, indago il linguaggio.
Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani?
Disperati.
Perché?
Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà.
Poi questa casa, dove abiti dal 1972.
Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti.
Non sei mai stata attratta dai maschi?
Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene.
A Kim Novak hai dedicato la tua prima poesia.
Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così:
Chi sei tu dunque
Kim, Kim, Kim Novak?
Sei forse l’angelo che appar di tratto?
Sei forse luce, calore e sogno?
Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza.
Credo, in te credo con l’anima mi’ intera»
«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione.
Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua.
Stai scrivendo in questo periodo?
No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora.
Che cosa provi in quei momenti?
Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose , senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non sempre sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole.
Il “corpo è tutto”?
E certo, e di che cosa vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita.
In “Con passi giapponesi” uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato.
Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini.
Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà mai a prenderci?
Forse.
Hai trascorso molto tempo senza pubblicare.
Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere.
Ma a settembre è uscita una nuova raccolta, «Vita meravigliosa».
È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”.