
Esiste un’autrice, poco ricordata e completamente tagliata fuori dal canone, a cui la letteratura del Novecento deve tanto e riconosce poco. Si chiama Rina Faccio, ma ha scelto di lasciare il mondo come Sibilla Aleramo. Una donna, come il titolo del suo capolavoro autobiografico, che all’inizio del 1900 già insisteva sul tema dell’autocoscienza, che il femminismo internazionale affronterà solo oltre 60 anni dopo.
Buongiorno… Sibilla o Rina? Come preferisce essere chiamata?
Sibilla… Rina appartiene a una vita passata.
Come ricorda la sua infanzia in quella vita nei panni di Rina?
Per tanti anni mi capitava di guardare alla mia prima gioventù come a un’alba dorata, a un’armonia perfetta che chiamavo “felicità”. Un sogno, più che un ricordo, che s’infrangeva in mille schegge non appena la realtà mi riportava al tempo presente. Ora, che ho imparato a guardare al mio passato con occhi lucidi e disillusi, mi chiedo se forse neanche da bambina io sia mai stata pienamente felice e se sia proprio in quegli anni che ho covato dentro quel bisogno d’amore che mi ha condizionato per l’intera esistenza.
È il 1906 quando pubblica Una Donna, un libro assolutamente in anticipo sui tempi che ha segnato un momento spartiacque all’interno della letteratura italiana del XX secolo. Da cosa nasce quest’opera così innovatrice?
Non avevo pianificato di scrivere Una Donna, non è stata una costruzione a tavolino. Sentivo dentro una forza irrefrenabile che mi struggeva e mi chiedeva di dare voce all’amore e al dolore che avevo dentro, nel tentativo di raccontare attraverso la mia vita di donna, uno spaccato sul mondo femminile d’inizio secolo. Speravo di indicare a me stessa e alle mie lettrici un percorso possibile di rinascita ed emancipazione dall’ideologia del sacrificio femminile.
In che modo quegli anni sono stati per lei una “inascita”?
Come ti dicevo, sono nata Rina Faccio, ma questo nome ormai mi stava stretto, mi riportava a una vita che non sentivo più mia: una vita di profondo vuoto e sofferenza, di occasioni mancate. Per questo nel 1902 ho lasciato mio marito — se vogliamo definire “marito” un uomo che sono stata costretta a sposare dopo che mi ha violentata, come se fossi io a dover riparare a quell’orrore — e, con grande sofferenza, mio figlio Walter. Mi sono trasferita a Roma e ho cominciato a scrivere: tra i fogli di carta e l’incessante battaglia con la mia coscienza, è nata Sibilla.
A partire dagli anni ’40, a mio parere, una non casuale coincidenza con l’inizio della guerra, la sua scrittura vira quasi esclusivamente verso la forma diaristica. A cosa è dovuto questo cambio di registro?
Non mi è mai sembrato un cambiamento drastico, da un certo punto in poi ho solo compreso qual era l’unica forma adeguata a portare avanti la mia opera di verità, il racconto di me e della mia vita per tentare di esorcizzare il dolore che avevo dentro. Questa forma è il diario.