La prima economia africana, il paese più popoloso del continente con le avanguardie artistiche più significative. Ma il “leone d’Africa”, così viene definita la Nigeria, è anche un paese dove l’instabilità politica, la corruzione, la sperequazione tra ricchi e poveri rendono la vita quotidiana della maggior parte della popolazione molto difficile.
È di questo mix di sfide e opportunità che si è innamorata Caterina Bortolussi, trentenne di Spilimbergo, durante un viaggio fatto quando ancora abitava a Londra, dove era impiegata in una banca di investimenti.
Per prima cosa, Caterina cerca di tornare in Nigeria, e riesce a farlo grazie all’impiego in una agenzia di comunicazione. Ma ancora non è abbastanza per “essere felice ogni giorno”, come vorrebbe potersi sentire. Così torna a Milano e si iscrive ad un corso di fashion design con l’intento di prepararsi per intraprendere la grande avventura che possa mettere insieme le sue due passioni: la moda e la Nigeria. Il percorso non è lineare ma la meta ormai è chiara. Torna in Nigeria e apre una società di comunicazione, con alcune amiche, e per qualche anno organizza eventi, comincia a conoscere le persone che gravitano intorno al mondo della cultura e dello spettacolo e a comprendere meglio come si fa impresa nel paese.
“Ad un certo punto ho deciso che era arrivato il momento di buttarsi, di rischiare, di credere veramente nel mio progetto. E ho lasciato le mie amiche e l’agenzia per creare Kinabuti, la mia linea di moda (da Kina e Buti, il modo in cui pronunciava il suo nome, Caterina Bortolussi, quando era bambina)”.
Insieme a Francesca Rosset, una amica di infanzia, che per altre vie era arrivata anche lei in Nigeria, decidono di utilizzare le enormi capacità creative e artigianali africane dando vita ad una etichetta di moda basata su principi etici, che faccia un prodotto di qualità e nel contempo promuova lo sviluppo delle comunità locali, incoraggiando emancipazione e imprenditorialità.
“Quando ero piccola, dice Caterina, la mia eroina era Lady Oscar, la protagonista del manga giapponese di Riyoko Ikeda, Le rose di Versailles, storia di una bambina che era stata cresciuta come un maschio, sempre combattuta tra la appartenenza alla propria classe e il suo desiderio di aiutare i più poveri. È da questo personaggio, una donna vestita da cavaliere che unisce forza, consapevolezza e femminilità, che ho tratto ispirazione per la prima collezione di Kinabuti”.
Comincia un periodo difficile dal punto di vista economico. Il business ha bisogno di investimenti mentre la produzione e le vendite non sono ancora sufficienti a garantire la sostenibilità. Ma Caterina e Francesca cercano di rimanere fedeli al progetto originale: materie prime di qualità e lavorazione artigianale. Le stoffe arrivano da Benin, Senegal, Burkina Faso, Ghana ed Egitto. I sarti locali che vengono coinvolti seguono dei corsi di aggiornamento tenuti da professionisti fatti arrivare direttamente dall’Italia.
Kinabuti comincia a essere conosciuta grazie al passaparola e allo star system locale, che si appassiona subito alla nuova etichetta. “La Nigeria è una power house in Africa” dice Francesca, “non solo dal punto di vista economico”.
Cinema, tecnologia, sport e letteratura: molti dei protagonisti delle storie più interessanti in questo momento sono nigeriani. E così siamo riuscite a esportare la nostra moda anche nei paesi vicini. Ma manca un sistema di distribuzione affidabile, ci sono problemi di infrastrutture. Perfino per garantire continuità alla produzione, per la fornitura elettrica dobbiamo affidarci ai generatori. E tutto questo rende molto difficile far crescere un business.
Per fortuna, dove non arrivano i mezzi tecnici si supplisce col talento, con la voglia di fare, con l’energia che arriva dal desiderio di realizzare un progetto ambizioso ma possibile, con la consapevolezza di vivere in un momento storico per il paese, che può finalmente portare un po’ di benessere ad una popolazione che per oltre il 70 per cento vive ancora al di sotto della soglia della povertà estrema.