
Dieci centimetri sopra il ginocchio e centomila leghe sopra il mondo: la minigonna, apparsa per la prima volta nel 1963, è una di quelle mine vaganti della moda capaci di dare una colpo al cerchio delle tradizioni e una botta all’emancipazione femminile.
Simbolo di stile e di storia, ha ormai compiuto più di 50 anni ed è invecchiata diventando una signora matura e anche un po’ furba. I suoi natali sono meravigliosamente fumosi: i manuali di moda la fanno risalire a Mary Quant, stilista londinese svaporata e festaiola, che la mise in vetrina nella boutique Bazaar in Kings Road, a Londra.
Gli snob, invece, sostengono sia figlia di André Courrèges, il designer francese degli oblò e del razionalismo sartoriale. La verità è un po’ diversa: “né io né Courrèges abbiamo avuto l’idea della minigonna. È stata la strada a inventarla“, ripeteva a tutti Mary Quant.
E aveva ragione: per la prima volta nella storia della moda, non furono gli stilisti a dettare lo stile, ma le nuove generazioni. Non a caso, la mini fece infuriare Coco Chanel, invecchiata e inacidita, che si fece portavoce della campagna per il ritorno delle gonne lunghe. “Aveva perso il passo della moda”, avrebbe detto più tardi Karl Lagerfeld, “e lo capiva. Lei che aveva vestito le dame come le loro cameriere, ora si rifiutava di ammettere che lo stile arrivava dalla strada e che il mondo era cambiato per sempre”. In poche parole che era nato lo street style.
Fu così che quel pezzo di stoffa diventò un fenomeno. A Londra, liberò le gambe delle donne. A Parigi fece arrabbiare il governo che scrisse persino una legge sul buoncostume contro la mini.
In Italia, finì al chiuso delle balere e nei party in villa. Ben presto, però, si trasformò nella divisa ufficiale di dive e donne comuni.
La sua portabandiera fu Twiggy, modella magrissima e adolescente, simbolo del nuovo che avanza, delle giovani avanguardiste che fanno a pezzi l’idea di donna formosa, mamma e irrimediabilmente confinata a figli e fornelli. Al contrario, Twiggy e la mini erano gambe atletiche pronte a correre, a scattare, a fuggire da un ruolo di donna ingessato, costretto nel perbenismo anni Cinquanta voluto e confezionato a favore degli uomini.
Twiggy …
Negli anni Settanta, a dire il vero, la mini venne messa nel cassetto dai pantaloni a zampa e dagli abiti lunghi dei figli dei fiori. Furono gli anni Ottanta a riportarla in auge come sinonimo di donna in carriera, meglio se abbinata a giacche dalle spalline importanti.
Nei decenni successivi si è colorata, arricchita, dipinta, spenta, ricolorata di nuovo. Negli anni Novanta era nera ed elastica. Nel primo decennio dei Duemila era corta e stretta come una cintura. Oggi non è tutto e niente, o meglio, un classico come la blusa, le giacche, le camicie. gli stivali.
A ripercorrerne la storia, però, nasce un nuovo pensiero, come una ruga sul suo viso da eterna ragazza. La mini, che impone gambe lunghe e magre, nonostante oggi venga indossata da tutte le taglie senza troppi problemi, è il simbolo dell’omologazione più che dell’emancipazione.
I suoi centimetri di pelle nuda non consentono più movimento, come sognava Mary Quant, ma impongono più dieta, come raccomanda Pierre Dukan. E la sua portabandiera, la modella Twiggy, non ha generato donne più libere ma adolescenti più influenzabili dalla dubbia magrezza. Insomma, questa signora del guardaroba è ormai un classico che, come sempre succede nella moda, pone nuove domande e soprattutto polemiche. Da parte dei benpensanti, delle femministe e soprattutto da chi la vede come simbolo della dittatura della magrezza.
Nel 2015, infine, la mini è stata persino insignita di sua “giornata mondiale”: lo si deve a Ben Othman, tunisino, presidente della Lega in difesa della Laicità e delle Libertà, personaggio che insieme all’attivista femminista Najet Bayoudh ha scelto il 6 giugno come Giornata mondiale della minigonna, invitando tutte le sue concittadine tunisine a partecipare a un raduno in minigonna come segno di solidarietà per le donne oppresse. All’origine della protesta, un episodio di discriminazione accaduto a una ragazza algerina a cui era stato impedito di sostenere gli esami scolastici perché la sua gonna era ritenuta troppo corta. È vero: questa giornata mondiale resta poco nota, ma il suo significato è importantissimo.
E oggi?
Non a caso, dopo il movimento #MeToo, ogni donna deve poter mostrare tutti i centimetri di gambe che vuole. Senza sentirsi una preda o una cacciatrice.
E nessuno, uomo o donna poco importa, può avere il diritto di dire che è troppo nuda o che la gonna è troppo corta. E questa sì, è la migliore morale nella favola della minigonna.
@paola