Lidia Poët fu la prima donna a essere iscritta all’Albo degli Avvocati di Torino. Nacque il 26 agosto del 1855 a Traverse, da genitori benestanti. In età adolescenziale si trasferì a Pinerolo, città nella quale viveva Enrico, uno dei suoi fratelli maggiori, il quale esercitava la professione di avvocato.
A Pinerolo la Poët conseguì il diploma di maestra per poi trasferirsi ad Aubonne al fine di apprendere al meglio l’inglese e il tedesco. Dopo qualche anno tornò a Pinerolo e nel 1778 decise di iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza, conseguendo la laurea nei tre anni successivi, discutendo una tesi sulla condizione femminile nella società del tempo e sul diritto di voto della donna in Italia.
Fece pratica legale presso lo studio dell’avvocato, e allora senatore, Cesare Bertea e divenne Procuratore legale. Da lì la richiesta di entrare a far parte dell’Ordine degli Avvocati di Torino; richiesta accolta a maggioranza dai Consiglieri dell’Ordine ma non condivisa totalmente, al punto tale da essere messa in discussione dal Procuratore generale e, denunciata dallo stesso, dinnanzi alla Corte di Appello di Torino. Il Procuratore generale sosteneva, infatti, la necessità di escludere la Poët, in quanto donna, dall’assunzione delle vesti di “Avvocata” e, conseguentemente, dallo svolgimento della professione, ricordando l’esistenza di un divieto per le donne di rivestire uffici pubblici, tra i quali, appunto, veniva fatta rientrare l’avvocatura.
La denuncia venne accolta dalla Corte di Appello la quale, pronunciandosi sulla questione, ritenne importante sottolineare, sebbene le leggi non vietassero esplicitamente alle donne di entrare a far parte dell’avvocheria, sarebbe stato, comunque, «disdicevole vederle subentrare nella cosiddetta “palestra forense” e vederle agitarsi in mezzo a pubblici giudizi e discussioni e precisando che la toga e il tocco non potevano essere accostati ad abbigliamenti bizzarri e strane acconciature quali quelle appunto prettamente femminili» e, inoltre, che la presenza di una donna nelle aule dei tribunali avrebbe messo in discussione la «serietà dei giudizi e gettato discredito sulla stessa magistratura».
Quindi, la richiesta venne annullata e il nome di Lidia venne cancellato dall’albo. Ma lei non si arrese e, manifestando il suo disaccordo sull’assurdità dei motivi sottesi alla denuncia, presentò ricorso alla Corte di Cassazione, la quale, purtroppo, confermò quanto addotto dalla Corte di Appello; ragion per cui la Poët non poté esercitare la professione di Avvocato.
Dovette attendere quasi 30 anni per ottenere il riconoscimento pieno del titolo e l’iscrizione all’albo degli Avvocati. Ma in quei trent’anni non smise mai di occuparsi di ciò che le stava a cuore collaborando col fratello maggiore e divenendo attivista dei diritti delle donne, dei minori e degli emarginati.
Nel 1883, a Roma, prese parte al Primo Congresso Penitenziario Internazionale, mentre nel 1890 venne ufficialmente invitata a San Pietroburgo come delegata al Quarto Congresso Penitenziario Internazionale in rappresentanza dell’Italia.
A Parigi, qualche anno dopo, venne anche nominata Officier d’Academie. Durante la Prima Guerra Mondiale lavorò, poi, come infermiera ricevendo, in segno di riconoscimento, una medaglia d’oro per l’opera svolta.
Lidia non credeva più, ormai, alla possibilità di ottenere il pieno riconoscimento del titolo di “Avvocata”, ma il 17 luglio del 1919 venne emanata la Legge Sacchi (L. 1179/1919) con la quale venne consentita alle donne la possibilità di ricoprire cariche pubbliche e di iscriversi anche all’albo degli avvocati. All’età di 65 anni la Poët vide il suo sogno realizzarsi.
Oggi Lidia Poët viene ricordata per la tenacia con la quale difendeva i diritti umani e soprattutto ciò in cui fermamente credeva, ovvero il suo sogno più grande, la sua massima aspirazione di vita che era, appunto, quella di diventare avvocato, di vedere riconosciuto ciò che in lei era già presente da tempo, ciò che forse era innato.
Perché per diventare avvocato, bisogna prima esserlo: al di là di un titolo, di un riconoscimento. Bisogna crederci davvero e fino in fondo. Bisogna credere nella possibilità di difendere se stessi e gli altri nel rispetto di una legge che non sempre è come vorremmo che fosse. E non tutti sono disposti a lottare fino alla fine per raggiungere i propri obiettivi. Non tutti ne hanno il coraggio o la pazienza.
Di Lidia ha colpito, e colpisce a distanza di un secolo, la sua determinazione nell’affermare e nel sostenere la parità di diritti, e ancor prima la parità dei sessi. Di lei colpiscono l’amore e la passione che nutriva per ciò che faceva; l’intensità con la quale credeva che le cose potessero cambiare; il coraggio di non arrendersi mai, dinnanzi a nulla, anche dinnanzi a ciò che appare impossibile.