Nella giornata contro la violenza sulle donne, voglio fare una breve riflessione su una sua particolare forma, atroce e, purtroppo, troppo frequente: il femminicidio.
Ho sentito alcuni uomini infastidirsi per questo termine e sminuirne la portata. Sostenendo che, allora, si sarebbe dovuto utilizzare il termine “maschicidio” per tutti i delitti che comportassero la morte di un uomo. Chi dice questo, o non sa cosa si intenda con femminicidio oppure cerca – consciamente o inconsciamente – di ridurne la portata tragica. Non ci si riferisce, infatti, ad una generica distinzione di sesso degli assassinati; il femminicidio è una particolare forma di delitto in cui la donna viene uccisa “in quanto donna” e vista, come conseguenza di ciò, quale “oggetto di possesso privato” da parte dell’uomo che infierisce su di lei.
Se una donna è assassinata durante una rapina, nessuno usa, giustamente, quel termine. Lo si utilizza, invece, quando viene uccisa, ad esempio, perché si è permessa di lasciare un uomo che non riesce ad elaborare in modo normale ed equilibrato la separazione, in quanto ritiene che ella sia, in qualche modo, non un soggetto dotato di libertà di scelta, ma oggetto di suo esclusivo possesso, che non può esercitare il proprio libero arbitrio rispetto alla relazione.
Il “tu sei mia”, che nelle effusioni dolci fra amanti può assumere un significato tenero, perde completamente il suo assunto simbolico per trasformarsi nella sua versione più concreta e becera, proprietà privata di un oggetto che non può avere la sua libertà di scelta.
“Le donne possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla”. (Massimo Recalcati)
In ogni caso, la violenza è sempre la scelta di chi, al posto del dialogo, della riflessione, dell’elaborazione anche penosa di un distacco e di una sofferenza, prende la via dell’azione, come evidente conseguenza di un’incapacità di elaborazione mentale del dolore e di accettazione della ferita narcisistica connaturata al vivere umano, nel quale, prima o poi, ci arriva incontro la realtà a mostrare come i nostri desideri non coincidano sempre con gli eventi.
Ma se la persona non è stata abituata fin da piccola a elaborare la frustrazione, ad utilizzare i momenti di crisi come occasione di crescita, a comprendere che non possediamo in realtà diritti intoccabili su nulla e men che meno sulla vita degli altri, allora il dolore si trasformerà in qualcosa di indicibile ed inconcepibile (nel senso proprio di “non mentalizzabile”) e vi sarà un corto circuito fra emozione e reazione, senza la possibilità di interporre il tempo dell’introspezione.
Per questo la giornata della violenza sulle donne dovrebbe trasformarsi anche in un’occasione di ripensamento di una cultura che perde sempre di più il valore del ragionamento come chiave per il superamento della ferita narcisistica, incitando anzi al consumismo frenetico e acritico di oggetti come di persone e all’inseguimento della chimera di potere avere tutto ciò che si vuole, senza ricevere mai un NO.
Quei NO che aiutano a crescere, eccome, che sono prodromici al tempo della riflessione, dell’elaborazione di una frustrazione e della crescita.
I NO ci mettono davanti a nuove sfide, ci obbligano a guardare la realtà sotto punti di vista differenti e a riconoscere l’Altro come portatore di un pensiero diverso dal nostro, momento di nascita del confronto, del dialogo e dello sviluppo umano.
Quei NO che potrebbero aiutare alcuni uomini a sostituire il codice della parola a quello dell’azione e alcune donne a rifiutare di giustificare troppo a lungo la violenza dei propri compagni.
E allora cominciamo dai nostri NO. Forse a furia di dirli e di ripeterli, diventeranno finalmente più leggeri.
Paola