Nella storia della letteratura, quasi sempre le donne vengono presentate in relazione all’altro sesso; esse sono incastonate, nei romanzi scritti dagli uomini, come pietre preziose da ammirare semplicemente per la loro forma e il loro splendore, in ruoli predefiniti di figlie, madri, mogli, amanti, in cui la loro femminilità è contrapposta ad un’egemonia maschile, ed un’eventuale complicità tra donne è del tutto ignorata . Il “personaggio donna”, così temuto e ammirato, diviene però, forse proprio per la sua complessità, il centro di interesse della letteratura nel corso dei secoli:
Dev’essere stato forse il desiderio di scrivere sulle donne che ha indotto gli uomini ad abbandonare gradualmente il dramma in versi, che con la sua violenza poteva usarle così poco, e ad inventare il romanzo che era il recipiente più adatto. Eppure resta ovvio, perfino quando scrive Proust, che un uomo è terribilmente impedito e parziale nella conoscenza delle donne, così come una donna nella conoscenza degli uomini. – V. Woolf, “Una stanza tutta per sè”
Per rappresentare al meglio la natura femminile risulta necessario un autore-donna capace di addentrarsi nella propria coscienza, per mostrare al mondo la vera essenza della femminilità.
Quando però le donne cominciarono a scrivere, potevano avvalersi solo di riferimenti maschili, dovendosi così adattare a situazioni che si distanziavano dalla loro naturale sensibilità.
Deviando la propria indole e le proprie emozioni su strade impervie e sconosciute, diedero vita ad opere rigide, impersonali ed incerte, proprio per timore di essere catalogate come “donnette sentimentali” . Questo fu però un grave errore, infatti per scrivere un buon romanzo o racconto, è necessario accettare la propria natura, scavare nel proprio passato e narrare argomenti di cui se ne ha piena conoscenza.
Le scrittrici dovettero così imparare a non temere la propria femminilità, bensì scavare nella propria anima per mostrare, a quegli uomini ottusi e beffardi, sempre pronti a deriderle e giudicarle, che la scrittura femminile non è limitante, ma semplicemente un’osservazione del mondo attraverso gli occhi di chi ha sempre vissuto all’ombra di abitudini imposte. Solo così quei ruoli predefiniti riusciranno ad avere una voce e animarsi con gioie e dolori in grado di svelare quell’alone di mistero che limitava ed avvolgeva le eroine letterarie.
Era il 1928 quando un’ormai affermata Virginia Woolf incoraggiava le giovani studentesse dell’università di Cambridge alla scrittura femminile, esortandole all’indipendenza e allo studio di se stesse, per gettare la maschera e le abitudini ereditate dall’egemonia maschile e accettare così la condizione di “essere donna”:
dovrai illuminare la tua anima, con le sue profondità e sue superficialità, le sue vanità e le sue generosità, e dire cosa significa per te la tua bellezza o la tua bruttezza, e qual è la tua relazione con quel mondo sempre cangiante e mutevole dei guanti e delle scarpe e delle stoffe che ondeggiano fra quei lievi profumi sparsi dalle bottiglie dei farmacisti lungo le arcate di tessuti su un pavimento di finto marmo. – V. Woolf, “Una stanza tutta per sè”
Da allora le donne-scrittrici hanno cominciato, sebbene con molta cautela, ad osservare il mondo circostante con il loro punto di vista, lasciandosi trasportare dalle emozioni a loro più congeniali e vicine, rivendicando così quella propensione tutta femminile del tessere trame e tramandare alle generazioni successive storie di vita autentiche.
In Italia, dopo la bruciante “testimonianza di vita” consacrata all’inizio del secolo dal libro scandalo “Una donna” (1906) di Sibilla Aleramo in cui, attraverso la sua triste esperienza di vita, si esorta il cosiddetto “sesso debole” a combattere per i propri diritti e per la libertà del corpo e del pensiero , finalmente la scrittura femminile ha acquistato quella profonda consapevolezza e calma.
Negli anni Trenta videro così la luce testi come “Nessuno torna indietro” di Alba de Céspedes, “Angelici dolori” di Anna Maria Ortese, “Itinerario di Paolina” di Anna Banti o “Lucrezia Borgia” di Maria Bellonci; testi decisamente diversi tra loro, ma che introdussero “silenziosamente” il dialogo sulla questione femminile .