“Gita al faro” è un romanzo che non si dimentica, non tanto per l’esile trama –una gita al faro in una vicina isola progettata e rimandata per il maltempo e compiuta, in circostanze del tutto diverse, dieci anni dopo- quanto per il fatto che sostituisce al tempo oggettivo, tipico dei romanzi ottocenteschi, un tempo interiore e soggettivo che quello dilata, restringe o dissolve a suo piacimento, regalandoci degli eventi esterni solo l’eco lunga che essi lasciano nelle menti dei personaggi.
Sì, perché è la mente la vera protagonista: è come lei vede, legge, interpreta i grandi e piccoli fatti che accadono, a (ri)modellare il mondo, a (ri)crearlo.
E’ così che la signora Ramsay, protagonista di tutta la prima parte, continua sottotraccia ad esserlo, – dopo la morte improvvisa, annunciata in tre righe tra parentesi quadre – anche della seconda, specialmente nella psiche di Lily Briscoe; è così che dell’evento traumatico della guerra mondiale –che si porta via il giovane e promettente Andrew ucciso da una scheggia di granata- siamo appena informati: quasi si trattasse di dettagli trascurabili e la vera attenzione della voce narrante fosse attratta soprattutto dalle onde emozionali che quegli eventi innescano nei personaggi superstiti di tali drammi.
La casa al mare della famiglia londinese, benestante e colta, è lo sfondo del romanzo, mentre l’icona indimenticabile è quella della signora Ramsay, di fascinosa bellezza, che lavora a maglia la famosa calza di lana rossiccia: madre affettuosa di otto figli, saggia ed equilibrata, che cerca di governare il non facile temperamento del marito e le furiose contestazioni interiori che esso provoca, specialmente in James, ma non solo.
Anche lei infatti è a disagio di fonte a quel compagno egocentrico e la scena di loro due, seduti ai due lati opposti della tavola, mentre lui si innervosisce per un nonnulla , come può essere il bis del brodo di un ospite, e lei se ne accorge prima ancora che si manifesti, ed è ansiosa che gli altri non se ne accorgano, racconta bene un rapporto matrimoniale sofferto e certo non idilliaco.
Quella casa al mare resterà vuota e abbandonata per dieci anni e, in tale lunghissimo tempo, saranno solo le folate di vento e gli spiragli di luce ad abitarla; oppure il rumore dei nodi(!) dello scialle che si sciolgono – scialle che custodiva un teschio d’animale-.
Del resto non sono la morte, la vita, il senso dell’esistenza umana, il fugace passaggio sulla Terra ad essere la vera trama del romanzo? E le figure che vi si muovono, non lasciano l’impressione di creature impalpabili senza peso e sostanza? Per non parlare dei paesaggi: marini, celesti, terrestri; paesaggi dell’anima piuttosto che scenari tangibili,inseriti nello spazio e nel tempo, dell’imperscrutabile, misteriosa, indecifrabile avventura esistenziale.